Newtown, una mamma con i figli dopo la strage.

Portando i figli a scuola, ho pensato a quelle mamme...

Il calcolo delle probabilità di una strage non serve a tranquillizzare. Neanche tenere sempre con sé i propri figli sarebbe utile. Al loro cuore sicuramente no. Siamo veramente impotenti di fronte al male?
Anna Leonardi

Ferma con le quattro frecce, guardi i tuoi figli più grandi mentre entrano a scuola. Ed è in quell’istante che ti tornano in mente i volti delle mamme della Sandy Hook School di Newtown.
Anche loro avranno corso come te, lo scorso venerdì mattina, nel portare i loro figli a scuola. Anche loro lo avranno fatto con la tua stessa automaticità e con la tua stessa agitazione. Senza essere sfiorate dall’idea che qualcuno, proprio in quel luogo, li avrebbe uccisi. Cerchi di allontanare il terrore che ti provoca immedesimarti con quei genitori. Ci provi con il calcolo statistico e ti dici che le probabilità che riaccada la stessa cosa sono esigue, pensi che in Italia non è poi così facile possedere delle armi e che oggi la soglia d’attenzione sarà alta. Eppure tutto questo non basta a metterti tranquilla.

Dentro le quatto mura dell’asilo, mentre aiuti la tua figlia più piccola a mettersi il grembiule, ti chiedi cosa voglia dire in fondo proteggerla. Siamo veramente impotenti di fronte al male come si é chiesto il presidente Obama durante la cerimonia per le vittime? Dovremmo tenerceli in grembo sempre per essere certi che la loro vita venga custodita?
Capita poi che la piccola Bianca decida di fare quello che in un anno e mezzo di asilo non ha mai fatto: piangere. Un pianto denso, gonfio del fatto che lei qui oggi proprio non ci vuole stare. Ti accucci accanto a lei cercando una consolazione. Ma niente basta. È ancora più evidente che non solo i figli non puoi tutelarli da tutto il male del mondo, ma che non sei neanche in grado di riempire loro il cuore quando la vita inizia a sfidarlo. Anche se te la tenessi addosso il più possibile, non la renderesti felice.

«È vero che i bambini non possono morire?», aveva chiesto la sera a cena, come se avesse annusato nell’aria la strage. «A volte, di rado, succede. Sono dei bambini speciali che Gesù chiama accanto a sé perché li vuole fare ancora più felici», le hai risposto, resistendo alla tentazione di mentirle. Perché ti sembra fin troppo per una bambina di quattro anni.
Invece, mentre chiudi bene il cancello della scuola alle tue spalle, ti accorgi che nel rapporto con Lui sta l’unica vera certezza della vita. Perché nessun altro al mondo ti ha mai saputo riempire il cuore così. Nessuno ti ha mai fatto sentire necessaria, piena, anche nel limite che sei, persino di fronte alla morte.
E così, ricatapultandoti nel traffico, ripensi al piccolo dolore di tua figlia. Sai che oggi, insieme ai suoi compagni, farà la pastorella davanti a Gesù bambino che nasce. «Fa’ che non sia appena un gioco», dici, certa di Colui che ti fa stare in piedi davvero. E che abbraccia tutto. Anche i bambini di Newtown.