Questione di fiducia

SOCIETÀ - DA DOVE SI RIPARTE
Luca Fiore

È uno dei fattori più citati da chi analizza la crisi. È in caduta libera, e ne paghiamo le conseguenze in tutti i campi: economia, politica, vita quotidiana... Ma che cosa vuol dire davvero “fidarsi”? È un problema di ragione o di sentimento? E come si fa a recuperare il «rapporto fiduciario»? Lo abbiamo chiesto al linguista EDDO RIGOTTI. Ecco le risposte. Che arrivano a mettere in gioco «il destino»

«Il problema è un problema di fiducia». «C’è una crisi di fiducia». È ormai un refrain nelle analisi lette in questi mesi. La fiducia nei mercati. La fiducia nel sistema politico. La fiducia nelle istituzioni... È una questione enunciata, ma quasi mai indagata nelle sue ragioni profonde. Che cosa vuol dire davvero fidarsi? E come si fa a riottenere la fiducia una volta persa? Non è un problema accademico: sulla fiducia si fondano tutti i rapporti personali e sociali. «Se davvero si tratta di crisi di fiducia, l’uscita del tunnel è lontana», spiega il professor Eddo Rigotti. Lo incontriamo nel suo ufficio dell’Università della Svizzera italiana di Lugano. Qui insegna Comunicazione verbale e Teoria dell’argomentazione. Prima era stato, per molti anni, ordinario di Linguistica generale all’Università Cattolica di Milano, dove si era formato alla scuola di Sofia Vanni Rovighi, Adriano Bausola e Luigi Heilmann. A lui abbiamo chiesto da dove se ne esce. La risposta ha a che fare con l’invito di Benedetto XVI ad «allargare la ragione». E anche, in qualche modo, con l’Anno della Fede, che della fiducia è parente strettissima. Entrambe sono innanzitutto atti di conoscenza.

Professor Rigotti, perché la fiducia è così importante per la vita della società?
Mercati, comunità politiche, istituzioni pubbliche e private sono tutti luoghi in cui le persone si incontrano e cooperano: scambiano beni e servizi, progettano imprese. Magari confliggono. In ogni caso, interagiscono. Tutte queste attività comportano assunzione di impegni la cui realizzazione dipende, in ultimo, dalla libertà personale. E dunque generano rischio. Dall’altro lato ci vuole una controparte che tenga per buoni, affidabili, questi impegni e agisca di conseguenza, implicandosi. In uno scambio. Qui deve intervenire inevitabilmente un rapporto di fiducia, anzi un rapporto fiduciario, in cui uno mette in gioco il suo credito nella comunità, l’altro i suoi beni. I ruoli si scambiano continuamente. Se la fiducia si incrina, questo meraviglioso mondo di incontri, scambi, interazioni e competizioni entra in crisi.

Perché parla di “rapporto fiduciario”?
Nel senso che ha due controparti. Non c’è la fiducia di uno verso l’altro e basta, non è un rapporto unilaterale. L’altro aspetto importante è che a fondamento della fiducia c’è un ragionamento. La mossa della fiducia è frutto, in fondo, di un’argomentazione.

Un’argomentazione?
Occorrono delle ragioni per fidarsi. Spesso la fiducia viene fatta passare come una dinamica sentimentale, perché quanto minore è il coinvolgimento della ragione, tanto più facile è schivare la capacità critica dell’altro. È un modo per approfittarsene.

Ma non è neppure un calcolo.
Sì, non è una mossa della ragione “pura”, astratta. In gioco c’è la ragionevolezza. Dobbiamo tenere presente che “razionale” e “ragionevole” non differiscono per un diverso impegno della ragione. Quasi a dire che il ragionevole sia un “razionale imbonito”. Nel “razionale” la ragione è soprattutto impegnata nel controllo della coerenza e si accontenta di non contraddirsi. La “ragione ragionevole” si fa carico del rapporto con la totalità dei fattori dell’oggetto e del soggetto. Nell’oggetto il particolare, considerato in modo ragionevole, si risignifica rispetto alla totalità. Nel soggetto è il nostro destino che è giocato. Sentiamo il bisogno di essere salvati. Di salvare quello che abbiamo di più caro. L’impegno della ragione da cognitivo diventa esistenziale.

Per i rapporti tra persone è intuitivo. Ma vale anche nel rapporto con un’istituzione?
Senza dubbio. Il rapporto con una banca, ad esempio, è ragionevole se io, affidando i miei beni, trovo riscontro in un impegno, serio e persistente, a valorizzare il mio bene. Ognuno investe un bene prezioso. Da una parte è in gioco il credito, il rispetto nella comunità. E il credito diventa moneta sonante, perché può essere riscosso nelle future interazioni. Dall’altra io metto a rischio direttamente il bene che gioco. Denaro, certo, ma anche un’idea industriale o un progetto imprenditoriale. Ognuno è al tempo stesso detentore di un credito e giocatore di un bene. Anche in questo contesto la dimensione è quella del ragionevole, che è l’esito di un serio impegno della “ragione ragionevole”. Questo non vuol dire che la ragionevolezza possa prescindere dai valori di base indispensabili della verità e della correttezza. Ma deve mettere in gioco fattori più complessivi, oserei dire più significativi per il destino.

Destino? In che senso?
Il destino è “quel che ne è di me”, in tutta la forza di questa espressione. È quando ci chiediamo: «Che cosa ne sarà di noi?». Quindi il futuro, ma anche il senso della nostra vita.

Ma qui parliamo di interessi particolari, non del senso della vita.
Se sono davvero interessi, non sono separabili dal problema del destino. Se sono apparenze di interessi allora sì, è un altro discorso. Ma anche l’interesse economico ha a che fare con il destino. Quando non è così è perché anch’esso lo si intende in modo ridotto.

In un caso come quello della politica accordare la fiducia è in qualche modo necessario. Pena ritirarsi nell’astensionismo. È possibile tornare a fidarsi del sistema politico quando tutto, o quasi, sembrerebbe dire che non è ragionevole farlo?
È inevitabile tornare a “fidarsi” della politica, nel senso di cercare accuratamente chi dia un minimo di garanzie. È un po’ come se la salute di una persona cara fosse a rischio ed avessimo a disposizione soltanto un medico che non ci convince del tutto. In questi casi, giustamente, si usa invocare l’argomento del male minore. In effetti, lo Stato di diritto e il sistema democratico non sono beni rinunciabili. L’astensionismo in se stesso è invece una rinuncia. Non è comunque raccomandabile il ritorno a una fiducia cieca, anzi l’impegno critico dei cittadini (singolarmente presi e nelle loro appartenenze comunitarie) dimostra di essere una virtù civile indispensabile. Peraltro, non ha senso fidarsi semplicemente di un sistema: è necessario guardare alle persone e cercare di accertarne l’affidabilità in termini di competenza e di correttezza. Ma è sperabile, anzi necessario che qualcuno, competente e onesto, vedendo lo stato di estremo bisogno cui la nostra società è giunta, si senta sfidato a mettersi in gioco.

Una volta persa la fiducia, come si recupera?
Molti pensano che non sia possibile. In certa misura è vero. Ricostruire la fiducia richiede in entrambe le parti una conversione. Non c’è altra via. Anche il pilastro della fiducia, la correttezza, non può ridursi a una formalità: deve incardinarsi nell’essere, in un rapporto reale. È impossibile altrimenti recuperare. Occorre la condivisione di un cambiamento del cuore. E la disponibilità a riparare.

Ancora: questo è chiaro nell’ambito interpersonale. Ma a livello istituzionale?
La dinamica non cambia. Perché le istituzioni hanno indubbiamente una dimensione organizzativa e giuridica, ma ce n’è anche una interpersonale. Perché il rapporto non è fra me e un’istituzione. È fra me e un gruppo concreto di persone. Anche i soggetti istituzionali sono soggetti umani. È l’unico modo per recuperare: bisogna andare più a fondo in un rapporto più vero.

Che cosa ha portato a questa crisi di fiducia?
Ci sono state varie spinte. Da una parte c’è stato un vero e proprio disprezzo per il rapporto fiduciario a favore di rapporti formalizzati legally enforceable, giuridicamente sanzionabili. Quasi questa fosse la garanzia ultima e sufficiente. Invece lo stesso comparto giudiziario e giuridico non funziona senza una profonda affidabilità. La fiducia si intreccia con l’affidabilità: fiducia senza affidabilità non è fiducia, altrimenti si va a pretendere un’obbedienza senza ragioni. Si cerca di depotenziare la criticità. Nella modernità, poi, c’è un filone che ha promosso la cultura del sospetto. Atteggiamento totalmente contraddittorio con un possibile moto di fiducia.

È il dubbio sistematico?
Sì, in un certo senso. Mi riferisco alla convinzione che dietro ogni comportamento ci sia una ragione che dovrebbe essere indagata, di cui bisogna scoprire la natura costitutivamente criminale. Questo atteggiamento è diffuso.

Nel giornalismo, ad esempio...
Anche nella fiscalità. Però a questo non darei troppo peso. Perché è anche vero che le grandi ideologie promotrici del sospetto sono tramontate. C’è poi il discredito della fedeltà, che è la vera controparte della fiducia senza cui nessun rapporto sopravvive. Innanzitutto in relazione alla famiglia. Per esempio, il fondamento della famiglia è proprio quella fides, quel reciproco affidamento che costituisce la realtà familiare. Ma è anche la matrice di ogni rapporto interpersonale. Anche a livello economico.
In che senso?
Con la scusa che il mio mercato è il mondo intero, non mi affeziono a nessun mercato, non mi affeziono a nessuna impresa. L’obiettivo è una massimizzazione del profitto, irragionevole in quanto non è nemmeno preoccupato della propria persistenza. L’infedeltà è diventata virtù a livello di rapporti imprenditoriali. Pensiamo agli amministratori che usano le aziende soltanto come tappe della propria carriera. Non sono impegnati con nessuno. Parallelamente ci sono le proprietà, gli azionisti, che una settimana si affidano a un fondo d’investimento arabo e l’altra scommettono su una finanziaria cinese. Il padrone, quello odiato, anche se il suo occhio ingrassava il cavallo, è diventato un’entità senza volto.

Tornando al rapporto tra fiducia e ragione. Quindi anche in questo ambito è interessante l’invito di Benedetto XVI ad «allargare la ragione».
Senza voler ridurre la portata delle affermazioni del Papa, anche in questo contesto, se limitiamo l’esercizio della ragione alla razionalità non usciamo da questa crisi di fiducia. Spesso si contrappone ragione e cuore. Ma il cuore è la ragione che respira a pieni polmoni, è la ragione che ha l’audacia di affrontare il tema del destino. Quando questo inquieto cuore, come lo chiamava Agostino, sa chiedere di sé, del proprio significato. Chi prescinde da questo non ha caro quel che ne è di lui. Senza questo non ci si può neanche fidare. Ma l’antidoto alla sfiducia non è una fiducia irragionevole, non è un disarmo dell’atteggiamento critico. È irrazionale e irragionevole chi accetta l’offerta senza guardarci dentro. In politica come in finanza.