Daniela Baraghini.

«Vivere è semplice, come morire: basta affidarsi»

C'è Rromeo che smette di spacciare. Zora che si sente senza futuro, ma trova la sua strada. Storie cambiate dall'incontro con Daniela, insegnante, morta di tumore a dicembre. E ai suoi ragazzi diceva: «Non sono io che vi salvo»
Paola Ronconi

Il giorno prima del matrimonio della figlia, il dottore ha già in mano l’esito degli esami: neoplasia polmonare. Ma decide di aspettare a comunicarlo a Daniela, per non rovinarle la gioia di madre della sposa. Quei sintomi così fastidiosi, una tosse stizzosa che nessuno sciroppo riesce a placare e l’affanno continuo, non la lasceranno più. Si inizia subito con terapie mirate, per combattere il tumore e per affievolire i sintomi. Una storia, un calvario, come, purtroppo, tanti, terminato il 30 dicembre. Ma segnato da qualcosa di speciale. Daniela Baraghini, incontra Cl negli anni del liceo a Forlì attraverso don Lino Andrini. Durante l’università collabora insieme a don Francesco Ricci al Centro studi Europa Orientale. Poi l’insegnamento, il matrimonio, i tre figli e l’impegno con Gs. E loro, i suoi ragazzi.

Come Rromeo, che è albanese. È arrivato in Italia nel ’99 con la famiglia. Daniela è la sua prof di religione. Comincia a bazzicare in Gs, ma dentro di lui un fuoco vorace lo porta da un’altra parte: «Ho mollato tutto: Gs, anche la scuola per un po’. E ho iniziato a spacciare». Ma niente lo soddisfa. Torna in lacrime: «Le dico: "Guzza (la chiamavo così), ora ho i soldi, la morosa, ma non sono felice". E lei: “Oggi ci troviamo con i responsabili di Gs. Vieni anche tu”. Ma come, io le dicevo che ne avevo fatte di tutti i colori e lei mi invitava con chi aveva responsabilità sui più piccoli? Aveva anche aggiunto una frase, non la capivo, ma frullava nella testa: “Non sono io che ti salvo”». Rromeo mette un po’ la testa a posto. Trova un lavoro come cameriere e organizza la squadra per il rinfresco del matrimonio della figlia di Daniela. Poi, la malattia. «Alla camera mortuaria fissavo quel corpo immobile», continua Rromeo: «Se non mi avesse preso dalla fogna in cui ero... Ora ho un angelo custode davvero tosto».

È che in classe Daniela sa catturare l’attenzione, anche in un istituto tecnico, anche coi più bulli. «Erano sempre tutti presenti se c’era lei», racconta Beatrice. «Non parlava di parabole evangeliche o di temi sociali, ma di noi e ci lasciava sempre con una domanda che ci rodeva per una settimana, la volta dopo la riprendeva». E poi i libri: «Anche a chi non ne aveva mai aperto uno, veniva voglia di leggere». Beatrice finita la III, vuole andarsene, vuole aria nuova. C’è la possibilità di fare il IV anno in America. Lascia il suo ragazzo. Ma all’ultimo salta tutto per problemi tecnici. «Mi crolla il mondo addosso: niente più ragazzo e niente più viaggio della vita». Di fronte a un gelato Daniela le capovolge lo sguardo: «Mi disse: “C’è qualcosa che ti aspetta dietro l’angolo, fatto apposta per te. Per questo non sei partita. Fidati”. Non ci credevo, ma a settembre incontro Daniele, un amore nuovo, profondo. Ho capito cosa voleva dirmi». In quegli anni si dichiara atea, va agli incontri di Gs per provocare, discute di continuo di fede col nuovo ragazzo. Dopo l’ennesima lite: «Io lo lascio», scrive a Daniela: «Lui vuole aprire porte che voglio restino chiuse». La risposta, secca: «Prima l’esperienza, poi le idee». Sono passati due anni da allora, «ma mi ripeto ogni giorno quelle parole. E oggi non pensavo fosse necessario che lei morisse per farmi capire che posso intraprendere il suo stesso cammino».

Qualche ricordo va a quel momento prima del suono della campanella, quando all’Itc Matteucci Daniela prega coi ragazzi, in corridoio. «Una volta nel vederla mi accodo. Non è neanche la mia prof. Ma giorno dopo giorno diventiamo amiche». Zora ha origini tunisine. E quanto le pesano in quegli anni il nome e cognome straniero, i problemi a casa e il sentirsi grassa e brutta. Senza futuro. «Ero sommersa dal buio. Avevo sempre voglia di morire. Lei mi ha invitato un giorno a casa sua. Quanti pomeriggi a parlare, parlare. Io, che con gli altri non aprivo bocca». Daniela la ascolta. La sprona. Le fa capire che studiare può essere bello («Mi avevano anche bocciata»). Arriva a proporle di vivere da lei. «Nessuno ha mai avuto tanta pazienza, tanto amore per me. Una volta mi spinse a far teatro. Cantai da sola New York New York. Era la prima volta che mia mamma mi sentiva cantare». Zora era un naufrago. «Poi sono stata investita da questo amore». Ora lavora in un’assicurazione. Recentemente ha depositato il brevetto per un congegno che impedisce l’abbandono involontario dei bimbi in auto.

Poi ci sono i mesi più duri della malattia, all’Hospice di Forlì, quando Daniela viene ricoverata a più riprese, e quando si crea intorno a lei un gran movimento che spiazza Marco Maltoni, oncologo e direttore della struttura. Alunni, ex-alunni, giessini, colleghi, e tantissimi amici. «Una mattina passo davanti al salottino del reparto», racconta Maltoni. «C’è Daniela e con lei una giovane paziente musulmana. Mi soffermo: stanno pregando, una col Rosario, l’altra con il Msabaha, strumento di preghiera islamica. Quelle due stavano salvando il mondo a modo loro». Daniela vuole vivere, vuole il miracolo della guarigione. Ma gli esiti delle terapie sono inclementi. La lotta cede il passo a un altro cammino, quello della consapevolezza della malattia come della verità della vita. Agli amici della Fraternità dice: «Vivere è semplice, ed è semplice anche morire: basta affidarsi». Muore il 30 dicembre, giorno della Sacra Famiglia. Nel suo cellulare un sms di risposta a uno dei suoi ragazzi: «Non abbandonate mai l’amore alla bellezza, è la ferita che ci spalanca il cuore».

Così, il 2 gennaio, la chiesa di Regina Pacis di Forlì è strapiena per il funerale. Maltoni alla fine legge una lettera del figlio di Daniela: «In questi mesi di preghiere, dolore, respiri spezzati e fatica, però, ci siamo ritrovati parte di un abbraccio più grande, una famiglia che non conoscevo: gli amici, la fraternità, i medici, la storia a cui mi hai affidato. Ho sperimentato attraverso di loro il tuo sguardo. “Aspettatevi un cammino, non un miracolo che eluda le vostre responsabilità, che eluda la vostra fatica, che renda meccanica la vostra libertà”. Il miracolo l’ho chiesto fino alla fine, ci è stato dato un cammino. Domandare, ad ogni passo, di incontrare Colui che ha guardato così per primo, e che ha fatto sì che anche io potessi sentire su di me uno sguardo come il tuo. Il miracolo sono stati questi anni con te. Pietro».