La folla dei manifestanti.

Io c'ero, e conto (anche se non mi contate)

Il 13 gennaio la capitale francese ha visto scendere in piazza i manifestanti contrari alla nuova legge sui matrimoni gay. Subito è scoppiato il dibattito sul numero dei partecipanti. Ecco la lettera di un amico che ha vissuto quei fatti da vicino

Cari amici,
in Francia, nelle ultime settimane, infiamma il dibattito su una proposta di legge che prevede il diritto per qualsiasi “coppia”, anche dello stesso sesso, di sposarsi e adottare figli. In particolare mi ha colpito un fatto. Da domenica 13 gennaio, quando c’è stata una grande manifestazione nazionale, imperversa la “guerra delle cifre” riguardo i partecipanti: 340.000 secondo la Prefettura, ma 800.000 secondo gli organizzatori. Certo, le cifre sono spesso divergenti in ogni genere di manifestazione, questo è assodato. Tuttavia alla polemica si aggiunge un altro dato. Da fonti ufficiose dei servizi del Ministero degli Interni trapela che i partecipanti al corteo sarebbero stati ben 1.300.000. La notizia si è diffusa su Twitter e su altri mezzi di comunicazione, come i giornali francesi a favore della manifestazione. Ovviamente il dato è stato smentito dal “ri-conteggio con le telecamere” della Prefettura, che ha confermato il numero di 340.000 (Le Monde, venerdì 18 gennaio).

Questo “spettacolo” - il balletto delle cifre - farebbe sorridere e divertire se si trattasse di un gioco per contare i chicchi di sabbia sulla spiaggia, gli aghi di un pino o le formiche in un formichiere. Ma ben diversa è la posta in gioco: sono uomini e donne, giovani che esistono e che hanno espresso una loro opinione.
Questo fatto mi sconcerta ancor di più per l’indifferenza con cui è guardato. Per tutti, “avversari” o “partigiani”, è scontato che sia così. «È normale...», «È così...», affiora su labbra arcuate da un sorriso beffardo.
Nella folla c’erano anche i miei figli, gli amici, tante persone a me care. Questo rafforza in me la domanda: com’è possibile cancellare non tanto una cifra, quanto degli esseri umani? Perché ridurli ad esistere o meno, a seconda che contino per gli uni o per gli altri? Se tale sistema diventa la realtà, mi viene da chiedere, o forse da gridare: che senso ha la mia vita? Per chi ha valore? A chi può interessare la mia umanità, la mia opinione, la mia libertà, il mio essere? Di chi è in funzione? E poi, a chi spetta decidere che io esista o meno? Non credo che siano domande di un giovane adolescente intriso di letture pirandelliane, perché il fatto dimostra che siamo ben oltre Pirandello. Ricordo, perché colpivano anche senza che fossero capite fino in fondo, alcune frasi di don Giussani sulla durezza dei tempi a venire. Ma ho sempre pensato che potevo difendermi da tali “attacchi morali” proprio perché li concepivo come tali, e non come “fisici”. Ora comincio ad intuire che l’uno e l’altro non sono separati.
Lo scontro sulle cifre non è più soltanto un camuffare faziosamente un dato. Qui si tratta di dire: esisti perché sei in funzione di... Altrimenti non ci sei. Puoi manifestare, gridare, ma non ci sei. È ancora peggio che se qualcuno ti dicesse: «Non conti!». Almeno sarebbe l’opaco riflesso di una coscienza e di un interesse umano.

A questa vicenda si collega un secondo aspetto del dibattito in corso sull’opportunità o meno di approvare questa legge. Si tratta del rapporto realtà-diritto.
Prendo, per esempio, una domanda fatta da una giornalista radiofonica, Pascale Clark, in una intervista su “France Inter” a Tugduval Derville, direttore dell’associazione “Alliance pour la Vie” e tra gli organizzatori della manifestazione. Ad un certo punto, la giornalista chiede: «Ma in fin dei conti, l’estensione del diritto di matrimonio agli altri [le coppie omosessuali], che cosa toglie a voi [contrari alla legge, cattolici, ecc...]?»
Tradurrei la domanda in modo più esplicito: ma in fondo che cosa v’importa di non riconoscere a loro il “diritto di…”? Che cosa ci guadagnate ad opporvi?
La domanda esprime più di quanto apparentemente dice. Fa glissare a livello semantico la differenza tra il “diritto a” e il "diritto di”. In altre parole, non è più un diritto che viene riconosciuto dalla legge, ma si ha il “diritto di” avere il riconoscimento.
Anche qui si fa fuori il dato, la realtà. Non si parte più da essa ma da una conseguenza. Ad esempio, nel dibattito sulla legge del “matrimonio per tutti”, la rivendicazione di tale diritto si fonda sul puro riconoscimento del desiderio di uguaglianza e di paternità o maternità di persone omosessuali. È il desiderio individuale a creare la realtà. E chiunque tenti di ostacolarlo viene accusato di fare discriminazioni. Perché, come dicevo, “ho il diritto di”. Ma se viene abolita la mia persona come dato originario, lo sviluppo logico che ne consegue è ferreo, inattaccabile, come testimonia la domanda di quella giornalista.
E così le centinaia di persone che scendono in piazza per difendere un valore, un interesse non individualistico, non esisterebbero.

Cari amici, al di là di queste mie considerazioni e polemiche, per quel briciolo di umanità che mi rimane, sorge in me una domanda. Per un attimo vorrei fermarmi e guardare la realtà con gli occhi di questa domanda: ma che cosa stiamo costruendo, “tirando su” con questa umanità così confusa?

Silvio Guerra, Parigi