A scopo di tutti

SOCIETÀ - NON PROFIT
Alessandro Banfi

È l’elemento che salva il mercato dall’essere solo “bolle” e speculazione. Eppure si sfrutta la crisi per metterlo in difficoltà. GIULIANO POLETTI, presidente della Lega delle Cooperative, spiega perché la battaglia per il Terzo Settore è cruciale. Anche se il caso Ici-Imu è chiuso, il pluralismo d’impresa continua ad essere a rischio. E serve un «pensiero nuovo»...

La Commissione Europea alla fine ha chiuso il caso dell’Ici-Imu al non profit. E tuttavia la battaglia culturale (e legislativo-politica) su questo punto resta aperta. In Italia e in Europa. Ne è molto cosciente anche Giuliano Poletti, presidente della Lega delle Cooperative, leader di quel mondo delle imprese sociali che nasce dalla tradizione socialista e comunista del nostro Paese. Imolano, Poletti ha recentemente rifiutato di essere messo in lista per il Partito democratico alle prossime elezioni. Il suo “no, grazie” è legato al disegno unitario di Alleanza delle Cooperative, che ha coinvolto i “bianchi” della Confcooperative, un progetto che lo impegna fino al 2015, termine del suo mandato. Ma è legato anche a quello che lui chiama un «pensiero nuovo» sul Terzo Settore nel nostro Paese, la necessità di non lasciare che le difficoltà economiche siano sfruttate per mettere in crisi il non profit.
«Il rischio», dice a Tracce Poletti, «è che la crisi venga sfruttata per ristrutturare in modo violento il nostro sistema. E ce n’è uno persino più grave: negare completamente il pluralismo delle forme d’impresa. È un’ingiustizia trattare in modo uguale chi è diseguale. Questa è l’idea di fondo. Il non profit, per la sua natura dichiarata e ricercata, sceglie di avere un comportamento virtuoso rispetto agli altri. Ma anche rispetto al sistema. Trovo che in Italia ci sia una tentazione miserabile, invece, di semplificare al massimo il discorso: o sei statale, quindi pubblico, o sei privato. In mezzo non c’è niente. Ed in questo ragionamento patisce anche la concezione stessa del mercato. Miserabile perché è una concezione di miseria culturale innanzitutto».

Poletti, ma allora che cos’è che distingue il non profit come scelta culturale, di fondo?
Il non profit parte dall’idea di una società più giusta. Da un’esigenza sentita di equità sociale. Ora questa equità non ha implicazioni etiche o solamente morali. Oppure politiche. Il non profit entra nel gioco dell’economia reale e la modifica in senso positivo. A cominciare dal mercato: un mercato senza questa presenza, questo elemento, resta solo il terreno delle speculazioni e delle “bolle”. Resta il campo dello sfruttamento più cinico, del darwinismo sociale. Allo stesso tempo, l’idea che lo Stato equilibra il mercato attraverso la tassazione, il fisco, si sta rivelando totalmente infondata, impotente... Quando l’ingiustizia raggiunge un certo livello, infatti, la tassazione non basta più. Ecco perché una forma più equa d’impresa è fondamentale per tutti. Ed ecco perché diventa mostruoso concepire la vita economica dei nostri Paesi con due soli giocatori: lo Stato e il mercato.

Qual è il soggetto che manca?
La società è il terzo soggetto che non deve essere escluso. In pratica, poi, società significa associazioni, gruppi, imprese sociali, cooperative che mobilitano volontari, cittadini, lavoratori, risorse... In questo sistema di relazioni fra i tre soggetti, l’economia funziona meglio. Qual è il fine per tutti? Un miglioramento, una maggiore efficacia ed efficienza dell’economia. Per questo la battaglia sul pluralismo delle forme d’impresa è cruciale. Battaglia culturale, ma che si deve trasformare in battaglia sulle leggi dello Stato. L’efficienza non è solo gara, competizione. In una gara, su mille vince uno solo e gli altri 999 restano al palo. Il pensiero nuovo è mettere il co-operare, il co-agire, la solidarietà, la mutualità al posto della competizione.

Il ragionamento contenuto nella famosa sentenza del Consiglio di Stato è: non basta essere non profit, non a scopo di lucro, perché si entra comunque nel mercato commerciale e si modifica la concorrenza. E, quindi, va pagata l’Imu come la pagano gli altri competitori...
Ma è pazzesco. Lucro o no, cambia tutto! Nel rapporto con il mercato, ad esempio, se io ho il fine di fare soldi, è una cosa: pensate agli investitori, alle banche, ai competitori... Se io invece non ho quel fine, è tutto diverso. Non riconoscerlo è un errore.

Manca una fiducia di fondo nella società?
L’idea che i cittadini si auto-organizzano viene vissuta come conseguenza di subculture del passato, retaggio dell’ideale comunista di fare impresa senza il padrone o della dottrina sociale della Chiesa. Invece dobbiamo spiegare che si tratta oggi di soggetti autonomi di impresa sociale, che hanno una ricaduta fecondissima sul sistema economico e sociale. Una ricaduta di equità, di mutualismo, di pluralismo, di altruismo, che permea una giusta cultura dell’impresa. Che tempera, naturalmente, gli eccessi del mercato e dello Stato.