Giulio Andreotti.

Un cattolico al servizio dello Stato

Realista, autoironico, generoso... Eppure risoluto e concreto. Il ritratto di uno dei padri del nostro Paese, scomparso il 6 maggio a 94 anni, nelle parole di chi, in varie occasioni, ha avuto modo di conoscerlo da vicino
Alessandro Banfi

Un cattolico in politica. Anzi, al servizio della politica. E anche dello Stato. Senza fanatismi, senza crociate, senza messianismi. Mai come in Giulio Andreotti il sano cinismo del popolo romano era l'antidoto naturale ad ogni deriva egemonica, che anche l'appartenenza cristiana può generare. Mai come in Giulio Andreotti il realismo e l'autoironia erano i modi dell'agire nella vita pubblica.

Lasciatemi ricordare anche questo: di tutti i grandi personaggi politici entrati in contatto con il Movimento di Comunione e Liberazione (a cominciare da quell'Aldo Moro che con semplicità frequentava quegli incontri ed era presente nel primo elenco della segreteria della comunità di Roma a fine Anni Settanta), Andreotti è stato uno dei più rispettosi, nella sostanza, della natura di quell'esperienza. Com'era davvero "al servizio" anche della Chiesa universale e di tante altre esperienze del mondo cattolico.
Consapevole dei rischi (e anche del distacco ironico necessario) di questa o quell'iniziativa, di questo o quel tentativo di presenza e di mediazione politica che poi fatalmente era responsabilità dei singoli e delle strutture inventate "ad hoc", come fu ad esempio il Movimento Popolare.

Aveva un atteggiamento di grande rispetto e venerazione per alcune personalità, iniziando dalla persona del fondatore don Luigi Giussani stesso. E di amicizia e simpatia per ciò che si riusciva a mettere in piedi. Basta pensare alla grande collaborazione che fin dalla prima edizione Andreotti offrì agli amici del Meeting di Rimini, che ebbero in lui per anni un ambasciatore d'eccezione in tutto il mondo, all'Est come all'Ovest.

Personalmente posso ricordare la singolare simpatia per noi giovanissimi giornalisti de Il Sabato nei primi anni Ottanta, che pure eravamo sempre un po' fuori dagli schemi consueti e spesso imprevedibili. Ricordo benissimo la mia prima intervista con lui, per Radio Supermilano, un'emittente che forse qualcuno di voi ricorderà, realizzata la mattina alle 6 nel suo ufficio di allora a Piazza Montecitorio 115, ultimo piano. In quel periodo non aveva più alcun incarico di Governo, si occupava dell'Interparlamentare e dei lavori della Camera dei Deputati. L'appuntamento era stato organizzato da Alberto Garocchio, allora deputato dc eletto a Milano. L'intervista fu ripresa da Repubblica, con tanto di citazione della Radio... Merito suo e della simpatia che gli ispiravamo.

E ricordo lo slancio davvero generoso, e peraltro inizio di una nuova giovinezza, con cui aderì all'idea degli amici di don Giacomo Tantardini di chiedergli di dirigere la rivista Trenta Giorni dopo che era iniziata l'inchiesta penale contro di lui per collaborazione esterna alla Mafia. L'Europeo gli aveva appena tolto la sua rubrica, l'uomo considerato per anni il più potente d'Italia era infatti caduto nella polvere. Ma Andreotti non aveva ceduto, dopo un primo sbandamento, aveva vissuto il processo accusa per accusa, carta per carta, giorno per giorno, presentandosi in aula tutti i giorni. Accettando una lunga via crucis, che alla fine lo vide svelare molte bugie. Anche se fu lasciata su di lui un'ombra di collusione con la criminalità organizzata, imprecisata che, grazie alla prescrizione, pescava in un passato remoto e quasi indimostrabile.

Tanti anni prima aveva chiamato il foglio della sua corrente: Concretezza. Erano queste le sue parole: concretezza, realismo, laicità della politica. Grazie al suo stile, freddo e riservato, è passato come un cinico. Anche per via di qualche battuta fulminante. E invece era un credente vero, un cattolico romano che tutta la vita cercò di impegnarsi al servizio di qualcosa che lo trascendeva. Da qui derivava la sua forza. Ripudiava la visione messianica di una politica che salva il mondo, aveva chiaro invece il principio dell'importanza del danno minore, del compromesso, della persuasione nel dibattito e nel confronto anche con chi è avversario, e per lui mai nemico. Non avrebbe voluto il divorzio (scrisse "I minibigami" per spingere in favore del doppio regime), non pensava fosse così indispensabile il referendum sull'aborto. Aveva una gran fiducia negli uomini e nel loro buon senso. Anche se amava i paradossi. Una volta disse: «La Dc è eterna». Un'altra: «Sarebbe meglio che la Germania non si riunificasse...».
Sono sicuro che nel tempo la storia troverà il modo di dargli ragione.