«La realtà, è la prima cosa che abbiamo in comune»
Alcuni amici di Cl e un gruppo dell'Arci si sono incontrati in un centro sociale. L'occasione? La lettera di Carrón, "Anche in politica l'altro è un bene". Un confronto che ha fatto riemergere «l'esigenza di andare a fondo della propria esperienza»Non si contano le volte in cui si pensa che se l’altro non ci fosse, con il suo carico distruttivo e di influenza negativa sull’ambiente in cui si vive, si starebbe meglio. Eppure, come dice don Julián Carrón nella lettera pubblicata il 10 aprile su Repubblica, insieme «all’impossibilità di ridurre a zero l’altro», resta un «desiderio di pace», che questa posizione è incapace di generare. Che fare dunque? Come l’altro può essere un bene anche quando fa il male?
Mercoledì 15 maggio, alle ore 21, alcuni amici della Scuola di comunità guidata da Claudio Bottini si trovano a discutere con i membri del circolo Arci di Borgo Chiaravalle. L’oggetto del dibattito è la lettera di don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione. Si intitola Anche in politica l’altro è un bene. I ragazzi di Cl avevano volantinato il giorno prima l’articolo invitando gli abitanti della zona a partecipare all’incontro. La reazione di molti, nel bene e nel male, era stata di stupore: stranissimo vedere la sigla di Cl e quella dell’Arci vicine.
Nella sala del circolo, il giorno successivo, si presentano una quarantina di persone. A introdurre la discussione Claudio Bottini, amico di vecchia data di Marco Bigatti, sindacalista della Cisl e dirigente dell’Arci. «Questa casa è diversa dalla nostra, ma l’amicizia con Marco non me la rende indifferente», spiega Claudio. Per questo gli ha chiesto di introdurre partendo da quello che lo ha colpito della lettera. «Sono provocato da un articolo che parla di politica e di Chiesa insieme», risponde il sindacalista. Marco guarda Claudio mentre dice ai presenti: «A volte l’altro, anche se diverso, non è un estraneo ma uno con cui puoi dialogare, se lo stimi». Lo sguardo fra i due rivela un bene desiderabile. Per Marco, se non ci sono di mezzo questioni ideologiche, si può fare molto insieme. Questa l'idea che riprende anche Loredana Bigatti, presidente del Consiglio di zona 4. Per la donna «la fatica enorme oggi sta nell’ascoltare l’altro: non esiste più un bene per cui siamo disposti al compromesso».
Cosa è saltato? A rispondere è Renato Ruffini, professore di Economia aziendale all’Università Liuc di Castellanza: «Anzitutto Carrón parla del realismo dei padri dell’Europa la cui “consapevolezza dell'impossibilità di eliminare l'avversario li rese meno presuntuosi”. Dobbiamo stare a ciò che c’è, obbedire anche se non ci va. La realtà, è la prima cosa che abbiamo in comune».
Si alza Alberto, prossimo alla laurea in Ingegneria aerospaziale: «Sono cresciuto in un ambiente di sinistra, poi all’università ho incontrato Comunione e Liberazione. Sono contento di essere qui stasera, sento il confronto come una cosa sana: le cose che mi hanno fatto crescere nella vita sono nate sempre da scontri e rotture da cui mi sono lasciato interrogare». Si intuisce di più perché anche la ferita provocata dal male altrui può servire. Per questo Alberto non è d’accordo su quanto detto da Loredana e Marco, perché «quelle che definite ideologiche sono le questioni che ci possono unire, perché riguardano l’uomo. Dobbiamo avere il coraggio di affrontarle con lealtà senza temere il dibattito». A spiegare perché è Federico, responsabile delle comunicazioni del Pd in zona 4: «Con l’altro ci voglio discutere, dialogare, arrabbiarmi anche. La finta tolleranza allontana: si rispetta un altro e si costruisce solo se si desidera comunicargli ciò che è vero per sé». Difficile pensare di comunicare un bene a chi vuole distruggere, quando il livello di conflitto sembra troppo alto.
La soluzione, secondo Federico, sta nel seguire delle regole. Ma come trovarne di comuni se perfino la natura umana è messa in discussione? Forse è da questa che si può partire.
Franco Brambilla, capogruppo Pd in zona 4, parla del contributo che può dare il cristiano in politica: «L’errore più grande che abbiamo fatto è stato quello di scindere la fede dalla vita», spiega. Anche se poi aggiunge: «Io non faccio politica in quanto cristiano, ma da cristiano. Su questo discutevo con voi anche all’università». Una differenza lessicale sottilissima, eppure enorme nelle conseguenze pratiche. Nel primo caso chi crede reputa la sua esperienza (famiglia, vita, solidarietà etc.) comprensibile solo da chi ha fede. Nel secondo la si ritiene un bene universale che ricalca la legge naturale.
A sentire parlare quelli dell’Arci si percepisce una distanza non indifferente, ma colpisce quanto siano presenti e preparati. Tanto da far riemergere l’esigenza di conoscere la realtà, quello che accade e di cui non si sa mai abbastanza. Solo per questo l’altro diventa un richiamo ad andare a fondo della propria esperienza. Altrimenti, oltre a non reggere il confronto, ci si perde la loro passione. Per questo Federico aveva detto: «Dobbiamo combattere per difendere la nostra identità. E per farlo devo esserci io, con tutto me stesso». Tutto vero. Eppure a volte sembrano mancare le energie. Da dove ripartire?
Carrón parla di «una Presenza capace di abbracciare tutto e tutti». Solo questo può suscitare interesse per la realtà, «l’esperienza di Cristo risorto (…), é Lui l'unico in grado di rispondere esaurientemente alle attese del cuore». Cristo e la politica? Claudio conclude con la stessa stima che ha permesso a tutti di accettare la sfida pur non sapendo dove porterà: «Dobbiamo giocare fino in fondo il nostro desiderio di bellezza, verità e giustizia. Siamo venuti desiderosi di paragonarci e ora lo siamo di più. Quindi mi interessa continuare questo dialogo».
Si sono aperte molte domande che pare impossibile mantenerle tali. Ma pensando a come ognuno è arrivato qui, torna in mente quella presenza «in grado di abbracciare tutto e tutti», senza cui «non è possibile ripartire». E si capisce che basta seguirla.