«Il mondo vero in questo mondo»

PRIMO PIANO - ALEKSANDR FILONENKO
Alessandra Stoppa

«Ero un matematico. Per essere sicuro che il cristianesimo fosse vero, dovevo vedere almeno un uomo che viveva così». Oggi si vergogna di averlo pensato, davanti alle foto dei millesettecento martiri della Chiesa russa raccolte nei fascicoli del Kgb, a cui è dedicata la mostra per il Meeting che lo ha visto tra i collaboratori (v. Tracce di maggio). Ma all’epoca Aleksandr Filonenko era soldato, figlio della società sovietica e convinto che la religione compensasse le mancanze umane. Finché non è arrivato Pavel Florenskij a contraddire tutte le sue idee: «Una vita stupefacente dentro l’inferno. Io ero pronto ad abbandonare tutto per andargli dietro. Ma era morto. Ricordo che dissi ad un amico: ci sarà ancora qualcuno che vive così? A questa domanda non potevo rispondere in modo teorico. Dovevo cercare». E ha trovato. Volto dopo volto.
Tutta la vita del filosofo ucraino ortodosso parla di questa sete di volti. «Quelli degli uomini davanti a cui voglio vivere». E grazie ai quali scopre il suo. È questo, per lui, l’orizzonte del prossimo Meeting: quando e come l’umanità vera si manifesta, emerge dall’anonimato. A Tracce racconta perché si tratta della nostra speranza.

«Ciò che è in crisi è l’uomo! Ma l’uomo è immagine di Dio! Per questo è una crisi profonda», ha ribadito di recente il Papa. Lei dove vede l’emergenza, il pericolo?
Viviamo in un tempo tranquillo, eppure la paura davanti alle cose impreviste cresce, non diminuisce. È la paura dell’uomo post-moderno. Da una parte, diciamo che è assolutamente libero; dall’altra, deve risolversi da solo il problema della propria sicurezza. La pressione dei problemi sociali è incrementata in modo brusco e non ci si aspetta più la protezione dallo Stato: sembra che l’uomo prima debba difendere se stesso e solo dopo dedicarsi a quello che lo rende vivo. Ma il problema fondamentale sta in questa priorità: quando l’amore diventa secondario, tutto è irrisolvibile. La società è definita da un potere anonimo e noi siamo soliti comprendere l’uscita dalla crisi come raggiungimento della stabilità, dell’essere al sicuro. Ma così finiamo in un vicolo cieco. Perché regoliamo la vita nel tentativo di armonizzare la paura.

Perché parla di «potere anonimo»?
Si capisce pensando al tempo di guerra. Un ragazzo, che ha un nome, viene sottratto alla sua famiglia, al posto in cui vive, per fare il soldato: a quel punto, la sua storia, la sua famiglia, la sua vita non interessano più a nessuno. A guerra finita, ci sembra che cambi qualcosa, perché arriva la tranquillità, ma la logica di questa esistenza anonima resta. Il potere anonimo è un potere che non si rivolge all’uomo chiamandolo per nome. Si rivolge ad un punto del sistema.

Cosa ci indica la vostra esperienza post-sovietica?
Voi avete paura di entrare nelle condizioni da cui noi stiamo uscendo. La nostra storia ha portato all’atomizzazione della società: la persona non è più d’interesse pubblico. Questa è la crisi. Negli studi della società occidentale, si avverte questo rischio già dagli anni Novanta. Noi, che lo viviamo da decenni, stiamo cercando di uscirne. Ma il paradosso della nostra testimonianza è che viene dall’inferno.

E cosa ci indica?
Quando si ragiona sulle possibili vie d’uscita dalla crisi, bisogna innanzitutto rendersi conto che si tratta solo della superficie dell’inferno del XX secolo. Non avremmo mai potuto immaginare quanto è accaduto, talmente è terrificante. Ma questo indica che le politiche di sicurezza sono condannate in partenza. La via d’uscita non è risolvere la mancanza di sicurezza e poi dare all’uomo una vita piena. Tanto che se una persona non trova se stessa, non esce dalla crisi. Bisogna scoprire da quale luogo nasce l’umanità originale, vera.

Quando don Giussani, nel 1988, usa l’espressione che fa da titolo al Meeting, dice anche che il primo compito è «ridare identità all’uomo». Lei ora parla di scoprire quale sia l’origine dell’umanità vera. In questo senso, l’«emergenza» non è solo nel senso della crisi, ma dell’emergere del volto umano.
C’è una parola in russo, olicetvorenie, che etimologicamente significa proprio “dare il volto”. Non c’è un termine corrispondente in italiano: si dovrebbe tradurre con “personificazione”, ma indica proprio la scoperta del volto. Questa è la via d’uscita dalla crisi: rendere persona la storia, ridare il volto umano ad una società che è anonima. Questo compito è un’opera cristiana. Ed è un’opera precisa. Ci aiuta a capirlo una seconda parola, likovanie, la cui radice è sempre lik (volto): questa parola significa esultanza, gioia, ma anche comunità. Ecco, dentro a questa parola è racchiusa in modo molto forte la pretesa cristiana. La pretesa più profonda, più grande: la scoperta del proprio volto. Allora la grande questione è quando e come il nostro volto si manifesta nel mondo.

Nella sua esperienza come succede?
Noi non possiamo vedere il nostro volto. Non lo vediamo guardandoci allo specchio. È come una ragazza che si sente dire: «Sei bella!». Lì si accorge di se stessa. E chi glielo dice ha bisogno di essere testimone della vita che è in lei. Quando io incontro un’altra persona, e il nostro incontro è vero, faccio esperienza di quell’esultanza. L’altro, che è parte di questo incontro, vede apparire attraverso i miei tratti il mio vero volto. Succede una cosa incredibile: il mondo vero, in questo mondo, si manifesta solo dentro ad un incontro. Non si può scoprire il proprio io senza questo. Se una persona ha sete di scoprire se stessa, deve fare un incontro, un’esperienza di comunità.

Perché parla di comunità?
L’esperienza della comunità ha come presupposto non tanto la comunità esteriore, ma interiore: qualcosa che l’uomo ha già dentro di sé. Io la chiamo: comunità del cuore. Sono i volti di quelle persone davanti alle quali vorremmo vivere. Noi non viviamo mai in solitudine. Anche la persona più solitaria vive davanti ai volti di quelle persone con le quali vorrebbe vivere. La ricerca del volto è la sete di ampliare questa comunità del proprio cuore fino alle dimensioni del mondo intero.

È questo il «dare volto alla storia»?
Guardi, è molto importante che sia stato riedito Il potere dei senza potere di Václav Havel. Lui parla della polis parallela, la comunità umana. E avverte: non può essere chiusa. Può essere piccola ma deve essere aperta, in dialogo, deve porre una domanda a tutta la società. Questa domanda è il compito della ricerca del volto. È quello che dobbiamo fare con la storia della nostra Chiesa: restituire i volti, perché è una storia d’amore, di amicizia. La speranza, che sembra impossibile, appare in posti inattesi: appare nella gioia degli incontri veri. Di qualsiasi incontro vero. Da qui nasce la speranza e dalla speranza nasce la civiltà dell’amicizia, come testimonia il Meeting.

Che cos’è un «incontro vero»?
Questa è la domanda più importante di tutte. Rispondo con un esempio, perché non si tratta di teoria. Un giorno Tat’jana C?aika , filosofa dell’Accademia delle Scienze di Kiev, intervista una donna sopravvissuta all’Olocausto. Dopo aver ascoltato la sua storia terribile, le chiede che cosa desidera. «Niente». Ma lei insiste, non può crederci. «Qual è il desiderio più grande che ha?». E la donna: «Soltanto morire». Non ci crede ancora. Finché la donna dice: «Ho un desiderio... ma è solo una fantasia. Nella mia vita mi ha amata una sola persona, mia madre, ed io non ricordo più il suo volto. Solo la sua silhouette. Darei tutto per poter vedere il suo volto». La C?aika le chiede: «Ha un ricordo di lei?». «Un giorno mi ha regalato degli stivaletti, di panno bianco, fatti da lei». «E come glieli ha dati?». «La mattina, mi ha svegliata e me li ha dati». «E glieli ha fatti indossare?». «Sì, mi ha fatto sedere su una sedia, e me li ha infilati». «Ma com’era, in ginocchio?». «Ma che domande assurde mi fa! Comunque, sì, si è inginocchiata per mettermeli, e mi ha chiesto se mi andavano bene...». All’improvviso, tace: «Oh Signore, vedo il volto di mia madre». Quella donna, per anni, ha scritto alla C?aika per ringraziarla di averle restituito il volto di sua madre.

Cosa la colpisce di questa storia?
Nella situazione più disperata, il desiderio più profondo che abbiamo è il desiderio del volto di qualcuno che ci ama. Bisogna avere sete di un volto, per capirlo.

A lei come accade?
Con i miei amici di Char’kov, faccio caritativa in un internato (v. Tracce, n. 1/2013). Un anno e mezzo fa, ha iniziato a stare con noi Vitalik, un ragazzo che non riusciva a parlare. Capivo solo che cercava di fare delle domande, ma non cosa dicesse. E mi tormentavo: come possiamo aiutarlo? Nel tempo, con vari tentativi, ho imparato a capirlo. Lui non riusciva a parlare perché, per anni, nessuno aveva avuto la pazienza di ascoltarlo fino alla fine. Ecco, ora Vitalik, ogni volta che mi vede, mi dice: «Ho una domanda». In realtà ha cento domande, ma questa è la sua lotta con il tempo e allora mi dice che almeno ad una devo rispondere. L’ultima volta, la domanda era questa: «Ci conosciamo da un anno e mezzo e ho la sensazione che siamo amici. Ma per me è molto importante sapere se è una mia fantasia o se siamo davvero amici». A questa domanda si può rispondere solo con tutta la vita. È la domanda della olicetvorenie, la domanda della scoperta del volto suo e mio, allo stesso tempo. Nel momento in cui nasce l’amicizia, scopro il mio volto, cambio io. E il risultato è una gratitudine.

Questo è più forte di tutto?
Di tutto. Pensi alla promessa di Cristo: «Le porte degli inferi non prevarranno». Di solito, viene compresa in senso difensivo, come se la Chiesa fosse una fortezza, che nessuna forza può distruggere. Questa è l’interpretazione minimalista. Poi c’è quella massimalista, che guarda bene l’immagine: le porte sono ferme lì, dove devono stare, non attaccano. È che non possono reggere la pressione della testimonianza. È una forza tale che le spacca, e la luce entra all’inferno. La storia della Chiesa russa del XX secolo è questo. Conoscerla vuol dire scoprire noi stessi, perché il passo di presa di coscienza di me non lo posso fare se non nell’incontro con qualcosa di grande. Come con coloro che non sono semplicemente sopravvissuti all’inferno: sono rimasti vivi.

Havel termina il libro chiedendosi se il futuro luminoso è «sempre veramente e soltanto il problema di un lontano “là”», o non è invece «qualcosa che è già qui da un pezzo», ma che noi non vediamo.
Quello che dobbiamo imparare a fare è vedere e crescere. Noi vediamo il futuro nel presente, nell’oggi, quando vediamo il volto. Per cui, l’arte del vedere è l’arte della scoperta del volto. L’arte del crescere, invece, è l’arte della gratitudine. Se sappiamo vedere, nasce la gratitudine. Che ha bisogno a sua volta di portare frutto: l’amore, come azione diretta al mondo. Quando ci chiediamo da dove l’uomo prende il coraggio di amare in un mondo in cui regna la paura, rispondiamo che è per senso del dovere o per principio. Ma sono sorgenti molto deboli. L’amore nasce dalla gratitudine per quello che hai visto. Vedere-ringraziare-amare. E amare è testimoniare. Quando io non so più qual è il mio compito dentro l’opera della misericordia, ho bisogno di tornare alla visione. Non di tornare agli argomenti, ai princìpi. Ma a vedere.

È per questo che, di fronte alla complessità e alla durezza della realtà, non vince lo scetticismo?
La forza del male fa nascere, come reazione, la volontà di non essere degli illusi. Ma questo va a discapito della speranza. La gioia e l’esultanza sembrano essere cose molto fragili, mentre sono l’unico luogo da cui nasce la speranza. Per questo è decisiva la testimonianza di chi ci dice che questa gioia esiste, che esiste un amore più profondo dell’inferno. La speranza che noi incontriamo ogni giorno nello sguardo della persona amata, nello sguardo di un bambino, diventa forte. Diventa più solida, perché è benedetta dal volto di chi vive all’altezza di Cristo, all’altezza della Sua sfida. Senza di loro la nostra speranza sarebbe vulnerabile e vincerebbero lo scetticismo, la cautela. Invece la gioia appare. E appare in volti. Quando io ho momenti di oppressione e indeterminatezza, penso a quei volti. E mi riprendo.