Il punto di non ritorno

PRIMO PIANO - TESTIMONI
Alessandra Stoppa e Davide Perillo

Un giro nel Centro d’accoglienza e le storie di alcuni protagonisti. Vito, il gelataio che ha soccorso per primo i naufraghi. Super, che vuol sapere «cosa sono nato a fare». E Daniel, profugo 11 anni fa, venuto da Londra per aiutare e ricordare che «Dio non abbandona»

«ANCHE SE MUOIO,
SO DOVE VADO»

Il suo viaggio è durato due anni. Diciotto mesi in Etiopia «dove vivevo facendo quello che capitava: le pulizie, il cameriere... Qualsiasi cosa». Poi il Sudan. E l’Egitto e il deserto, perché l’obiettivo era passare dal Libano. Invece Dawit, 27 anni, di Semhar, tre fratelli ancora in Eritrea («per questo non dico il cognome») e genitori finiti chissà dove, si è ritrovato respinto verso la Libia. Ha aspettato due mesi, prima di salire sul barcone affondato il 3 ottobre. Cinquecentotrenta persone a bordo, 385 li ha portati via il mare. Lui si è salvato. Ha perso quattro amici stretti e undici persone che aveva conosciuto lì, in Libia. «Siamo rimasti in acqua cinque ore. Pregavo e gridavo. Quando ho visto i soccorsi, ero spezzato dentro. Mi sono detto: sono salvo. Ma perché io?».
È a guardarlo negli occhi e a riguardare insieme la sua vita che capisci un po’ meglio cosa spinge qui questa gente. Non è la fame, o il lavoro che manca, come succedeva anche a noi decenni fa. Non solo. È qualcosa di più cupo e fondo. «Sapevo di rischiare tutto, che non c’era nessuna certezza. Ma era l’ultima occasione della mia vita. Dovevo andare. A casa mi ero nascosto per evitare il servizio militare. Da noi entri ragazzo e ci resti non si sa quanto, non hai futuro. Ho lasciato la famiglia. I soldati mi cercavano, cambiavo posto di continuo. Non potevo restare».
Era successo anche a Daniel Habtey, 39 anni, che adesso gli siede davanti al tavolino del bar. Undici anni fa. Stesso percorso, stesso dolore. Ma con radici ancora più profonde, se possibile: «Ho perso mia madre che avevo quattro mesi e mio padre a sei anni. Lui era militare. Io sono cresciuto in orfanotrofio. Pieno di rabbia e di odio. Sognavo di fare anche io il soldato, per uccidere più gente possibile». A fargli cambiare strada sono stati due fatti. Un sogno, a 14 anni: «Ho visto Gesù che mi diceva “vieni vicino a me”. Non sapevo cosa volesse dire, ma mi ha scavato dentro». E un incontro. Con dei cristiani pentecostali, conosciuti all’Asmara dove si era trasferito per fare l’infermiere. È lì che ha iniziato a studiare la Bibbia, a scrivere canzoni. È diventato pastore.
Poi, nel 1999, il Governo ha bandito la sua Chiesa e lo ha chiamato nell’esercito. «Ho passato otto mesi nascosto in casa. Alla fine ho ceduto. Ma dopo una settimana di campo d’addestramento, sono scappato». Due anni in Sudan, dove lo ha raggiunto la fidanzata; il matrimonio, una figlia. E l’Europa. «Il 19 dicembre 2002 siamo sbarcati anche noi qui a Lampedusa. Sulla barca c’era una donna che ha partorito in viaggio. I pescatori le hanno detto che era come Maria». Due giorni soli nell’isola, poi via verso Nord: Crotone, Roma, Pistoia, la Francia...
Ora Daniel fa il pastore a Londra, alla Elim Church: «Quattrocento fedeli, noi eritrei siamo una quarantina». Quando ha visto in tv le immagini del naufragio, è scattato qualcosa. «Dovevo venire. Dovevo portare aiuto: soldi, assistenza... Quello che serve. Ieri, per dire, ho distribuito undici cellulari e sim card. Ma soprattutto dovevo dire loro: “Guarda, ci sono passato anche io. Ho fatto la tua stessa esperienza. Non ti preoccupare, perché Dio ti accompagna. Ti chiama a cose grandi. Ha un piano su di te che ora passa da qui”. È il conforto più grande, perché tu puoi avere bisogno di tutto, mangiare e bere e un lavoro, ma soprattutto hai bisogno di sapere che Dio non ti abbandona».

Lo sapeva anche Dawit, in acqua: «Avevo fiducia nel Signore. Ero certo. Mi dicevo: anche se muoio, so dove vado. La mia speranza viene da Dio, non dalla situazione. Non sono mai stato in pericolo così, ma qualsiasi cosa io possa subire, Lui è il mio futuro».
Ecco, futuro. È una parola strana, detta qui. Quello di Daniel, per ora, è il ritorno a Londra, «ma con tante domande, perché le cose che ho visto mi interrogano. Qual è il mio posto? Cosa mi sta chiedendo Dio?». Dawit, invece, attende. «Questa è la terra dove abbiamo perso fratelli e sorelle. Vorremmo solo sapere in fretta il nostro destino e andare via. Io? Mi aspetto di essere libero. Di poter essere quello che sono». E cosa sei? «Vorrei studiare e fare l’avvocato, perché ho vissuto in un Paese dove non c’è legge. E io voglio giustizia».

«MA LA MIA VITA SI STA ALLUNGANDO?»
Era ormeggiato alla Tabaccara, la «piscina» la chiamano qui, la cala da cui si vede l’Isola dei Conigli. «Ogni tanto lo facciamo: mangiata di mezzanotte e la mattina presto peschiamo. Ma siamo dilettanti...», racconta Vito Fiorino, nella sua gelateria sul corso di Lampedusa, mentre sistema scatoloni di coni. Poi si siede, deve fermarsi per andare avanti: «Era ancora buio, poco prima delle sei, e uno di noi ha sentito delle voci. Pensavamo fossero gli uccelli». Ma l’amico ha insistito, finché non si sono staccati dalla baia per andare al largo.
«Iniziava ad albeggiare, e abbiamo visto. Una distesa di teste in acqua che chiedevano aiuto. Non è possibile spiegare...». Incrocia le braccia: «Niente, abbiamo avvisato la Capitaneria e poi abbiamo iniziato a fare quello che non sapevamo fare. Ne abbiamo portati a bordo quarantasette: 46 uomini e una ragazza. Non avevano nemmeno la forza di aggrapparsi. Poi sono arrivati i soccorsi e hanno preso gli altri. Tutto qui. Fine della storia». Tace per un po’. Fa per alzarsi, ma si rimette giù: «La ragazza sta bene, mi hanno detto. Pensa, il più giovane aveva 13 anni, il più grande 36. Mi hanno segnato i vivi. Non so cosa avrebbero fatto i morti».
Canottiera rossa da bagnino, capelli bianchi e codino, mette le cose in chiaro: «Non c’è nessun eroe qui. Chiunque avrebbe fatto quello che ho fatto io. Chiunque». Ma, lì, si è trovato lui. È il valore di questa coincidenza che si fa spazio in lui. «Io ho 64 anni. Ne ho viste in vita mia. Anzi, uno pensa di di aver visto quasi tutto. Ma una cosa così... Ti rimette in carreggiata». Cerca le parole. «Ti solidifica. Io avevo seri problemi con  mio figlio ultimamente. Ma ora dico: ma la sua vita... È come se l’avessi visto in quel mare. Allora qual è il problema? Sbaglia? Non mi interessa se fa diverso da quello che gli dico».
Vito è lombardo. Si è innamorato di Lampedusa e tredici anni fa ci si è trasferito. «Qui ce l’hanno nel dna l’accoglienza, è gente di mare». Passa un gruppetto di eritrei dall’altra parte della strada e li saluta caloroso. «Quando salivano a bordo, sfiniti, nudi, si coprivano con una dignità...». Poi arriva Russon. «Papà!», lo chiama così e lo abbraccia, Vito si scioglie. È il primo che ha recuperato dall’acqua. Ha 36 anni, in Eritrea ha lasciato moglie e quattro figli per trovare un lavoro e mandare i soldi. Un tau di legno al collo, gli occhi lucidi. Non si dicono quasi nulla, ma si capiscono. Arrivano altri. Sembra una casa più che una gelateria. «Chiedevo aiuto a Dio ed è arrivato lui», dice Russon. Poi passa a Vito il telefonino: «Chi parla? Sei la sorella di Russon? No, non mi devi ringraziare... Come? Vieni a trovarmi!?». È contento come un bambino. Mette giù e ti afferra il braccio: «Ma cosa sta succedendo alla mia vita? Si sta accorciando o si sta allungando?».

LA CORSA DI LUCKY PER ESSERE LIBERO
Ha sedici anni, Anthony Freddy. A casa gli avevano detto così, anche se ne dimostra dieci in più. Lo incroci mentre scende verso il porto, pantaloni da tuta azzurri e t-shirt grigia rimediata chissà dove. Ti chiede soldi «per mangiare e lavarmi». Ti fa vedere le ferite sulle gambe, abrasioni e pelle viva. È arrivato due giorni fa, «su un barcone con duecentoventi persone». Tutti nigeriani, o quasi. Molti del suo stato, Edo, vicino al Delta del Niger. Lui è di Benin City. «La mia storia? Non posso dirti quanto è triste. I miei genitori sono morti per una bomba in chiesa. Loro e due sorelle. Io e mia sorella più piccola dovevamo andare alla messa dopo. Ci siamo salvati per quello». È successo venti mesi fa. «Siamo scappati subito dopo per la Libia, io e lei che aveva sette anni. Si chiama Victory. Appena arrivati, mi hanno arrestato: ai libici non piacciono i neri. Ho fatto un anno e tre mesi in carcere lì. Ho visto gente morire. Dio ha voluto che mi salvassi, ma di mia sorella non so più niente». Ha gli occhi arrossati, senza lacrime. «Sono riuscito a scappare, ma non potevo più stare in Libia. Se mi prendevano, mi avrebbero ucciso. Ho saputo che si poteva venire in Italia e ci ho provato». Non aveva mai visto il mare, anche se la sua città è a due ore dall’Oceano. «Ho dato quello che avevo per partire, non so neanche quanto fosse, ma mi hanno fatto salire. Stavamo affondando. Ho avuto paura, tanta. Ho pregato Dio, tanto. “Aiutami”. Lo ha fatto».

Certo, ci sono dei buchi nel suo racconto. E in quello di Joel, di Lucky, di Super, che si assomigliano tutti. I soldi, anzitutto: per partire servono almeno duemila dollari, ma molti ti dicono che non hanno speso niente («ho raccontato la mia storia e lo scafista ha avuto pietà», spiega Joel Favour, che è cresciuto con la nonna perché «i musulmani hanno ucciso i miei genitori e mio padre l’ho conosciuto solo in foto che avevo già 12 anni»). E poi i contatti, l’organizzazione... Non succede a caso che su quella costa arrivino in tanti, tutti insieme, dalla stessa città 4mila chilometri più a sud. Di questo, però, non parlano. C’è paura a raccontare. C’è il ricordo di volti feroci, a casa e lungo la strada. «Ho fatto una scuola per diventare barbiere, quando è morto mio padre sono partito per la Libia e cercavo lavoro lì», dice Lucky Orebe, 24 anni, cristiano protestante con un rosario di plastica rossa al collo, regalo di una donna di Lampedusa: «Ma lì ti buttano dentro e ti chiedono soldi. Io volevo essere libero».
Anche Super è salito su quella barca. Con una storia simile (padre morto un anno fa, tre fratelli, niente lavoro) e lo stesso desiderio: «Sto cercando il mio posto. Che cosa sono nato a fare». Ha viaggiato una notte e mezza giornata; poi i motori fermi, l’attesa. «Ero attaccato a gente che stava male, un casino. Ho pregato tanto che arrivassero i soccorsi». E adesso per cosa preghi? Cosa aspetti? « Di andare via da qui. Al Centro ogni mattina vedo qualcuno che viene trasferito. Tra una settimana, dieci giorni toccherà anche a me. Non so dove e come, ma aspetto. Voglio solo lavorare duro e dare tutto. Qui so che possono venire fuori i miei talenti». Dice proprio così, my talents: «Gioco a calcio, attaccante. E dipingo». Gli dai il taccuino e chiedi di disegnare la cosa più bella che ha visto in questi giorni. Fa lo schizzo del vaso con l’arbusto che ha davanti. Tre rami asciutti e sette foglie in tutto. Ma vive.

IL MEDICO DELL'ISOLA
E IL PICCOLO OMAR

«Arrivano consumati. Ipotermie, disidratazione... Di solito è così. Questa volta, no, o erano morti o erano vivi. Dovevi riconoscerli». Pietro Bartolo è “il dottore” di Lampedusa. Nato e cresciuto qui, ha lavorato a Catania e Linosa poi è voluto tornare dalla sua gente a lottare per un presidio medico. Lo ha creato e lo guida dal 1991.
Da allora non si è perso uno sbarco. Non in corsia: con mani e cuore sulla banchina del porto. Quando c’è stato il naufragio era in malattia, reduce da un’ischemia, ma è corso al molo e ci è rimasto giorno e notte. Arrivavano le motovedette e i pescherecci pieni di gente, aveva pochi secondi per ognuno dei sopravvissuti, guardarli e smistarli: o al Poliambulatorio o al Centro d’accoglienza. I morti nei sacchi. Ma lui voleva controllare anche quelli e di una ragazza ha sentito il battito mentre la avvolgevano nella plastica: un battito debolissimo, pensava che fosse una suggestione, ma è tornato indietro e lo ha risentito. «Ora lei l’hanno trasferita, ma so che sta bene», si sfrega gli occhi con le dita. Non è tipo da farsi vedere commosso. 

Da quel giorno dorme poco. «Come tanti altri tra i soccorritori. C’è chi ha avuto bisogno di un supporto psicologico». Lui pensa sempre al padre che teneva con una mano la moglie, con l’altra il figlio più grande, e il più piccolo sul petto. «Il primo gli è scivolato via, non ce l’ha fatta». Bartolo è ginecologo, ma le autorità gli hanno affidato le ispezioni dei cadaveri. Trecentottantacinque. «Non ho mai visto niente di simile in tutti questi anni di lavoro». Ma crede che sia troppo facile chiudere la questione maledicendo Dio. «Ci sono cose che ci tolgono dalle nostre abitudini, dai nostri comodi. Tutti a dire: guarda Dio cosa fa... No. Per me, quelli sono dei prescelti». Si blocca, come gli fosse uscita una cosa più grande di quel che pensava. «Io non vado mai in chiesa. Ma tutti quelli che posso li battezzo, tra me». Perché? «Vanno in cielo, non ho dubbi. Se li posso aiutare...». Taglia corto. «Sa, nel 2011, c’erano 7mila tunisini. E noi siamo in seimila. Bivaccavano, alcuni aggressivi, quella volta è stato difficile. Eppure vedevo la gente fare a gara per portare da mangiare».
Qui è facile far polemica, «per tanti aspetti la vita sull’isola è precaria. Allora ci si lamenta, si parla, si parla... Poi c’è uno sbarco e si dà tutto». Ancora dopo tanti anni, si meraviglia: «Guarda che grandi sono i cuori». Le notizie in paese si spargono in fretta. È un tam tam. Un’immigrata ha partorito in uno sbarco e la sera, a fine turno, Bartolo si è trovato fuori dall’ambulatorio una quarantina di mamme. Avevano portato pannolini, vestiti, di tutto.
Del resto quand’era bambino lui, «cinquant’anni fa», i lampedusani ospitavano gratis i turisti, perché godessero il mare e il sole. «Abbiamo sempre avuto bisogno della novità». Ancora oggi la gente viene per un consiglio: «Mi chiedono: “So che non si può, ma posso portarli a casa?”. Io cosa vuole che risponda...».  Lui, che solo alla fine confida di avere un figlio di nome Omar. Un tunisino arrivato a 19 anni, che oggi ne ha 22. E che ora sogna di spostarsi dall’isola. «Ora vediamo, è ancora piccolino...».   

IL CENTRO CHE OSPITA IL DOLORE DEL MONDO
La cartelletta di statistiche e norme sotto il braccio, parla e si rolla agile una sigaretta. Cristiano Greco è lo psicologo responsabile del Centro di accoglienza temporanea di Lampedusa, in cima alla contrada Imbriacola. È stato aperto nel 2003 e lui ci lavora dal 2007. Ci sono 700 immigrati accolti, oggi, quando la capienza è di 250. Una decina, tra militari e poliziotti, stanno all’ingresso, chi pattuglia il cancello, chi dal gabbiotto aspetta fax, telefonate. Nuovi arrivi.
La strada sale verso palazzine e container. Tra i fili di panni stesi, s’intravede l’intenzione di fare un posto bello, che non deve aver retto alla pressione dei fatti: aiuole abbozzate e mai finite, le panche in pietra colorate, ma logore. Un poliziotto lava con la canna il pulmino dei trasferimenti, due bambini siriani giocano nella pozzanghera che si forma. Gli uomini e i ragazzi sono appoggiati alle finestrelle dei dormitori o seduti sul marciapiede: si sente qualche radiolina, loro tacciono e fumano le sigarette del kit d’accoglienza («li calmano, gliele diamo insieme a tutto l’occorrente per l’igiene e la scheda telefonica»). Greco non conosce l’arabo, i dialetti africani, ma questo lo ha portato nel tempo a capirli in un altro modo. «Seguo gli sguardi, i gesti, gli atteggiamenti. È come se mi si fosse allargata la percezione. L’altro ti porta a questo, è la sua diversità che ti spinge a stare più attento». Sorride: «Allo stesso tempo, c’è sempre qualcuno che ti somiglia particolarmente. Come modi, come carattere. Mi colpisce...». 

Greco non entra nei dormitori senza bussare. Le donne devono avere il tempo di sistemarsi, alcune di rimettersi l’hijab. Si fanno trovare sedute, in pose eleganti anche se sui materassini di gommapiuma, grezza, che coprono il pavimento. Fanno cenno che gocciola l’acqua dal piano di sopra. In questo container una volta c’erano uffici, ma il Centro è tutto stravolto, e non solo dai numeri: sta cambiando volto perché sono diverse le esigenze di chi arriva. «Prima arrivavano solo uomini, oggi, sempre più, abbiamo donne e bambini. I protocolli non li prevedevano...». I dati sugli ingressi fanno la radiografia ai Paesi del Sud del mondo. «Se si guardano gli arrivi, si ha una lettura politica di cosa sta accadendo: ora le condizioni più drammatiche si stanno verificando - oltre che, ovviamente, in Siria - in Eritrea e Somalia. La maggior parte delle presenze è sub-sahariana». 
 Questo lavoro per lui è iniziato con una tesi su Palermo. Decise di studiare come la sua città stava cambiando per la presenza degli extracomunitari. Erano gli anni Novanta. Ed era una trasformazione che viveva sulla pelle: «Iniziavo ad avere più amici africani che siciliani». Lo affascinavano. Sperava di venire a lavorare a Lampedusa e oggi, dopo anni, non ha perso la passione. Vuole conoscere questa gente, sempre di più. «Quando nei colloqui mi dicono che hanno “il vento nell’orecchio”, voglio sapere cos’è per loro. Quando parlano dell’“occhio del Sahara”, che li guarda e li protegge, o da cui si sentono abbandonati, devo entrare in quel che significa». Si fa aiutare da traduttori, mediatori culturali, e soprattutto dallo stare qui, da mattina a sera, con loro. La vicinanza è necessaria. Una ragazza dello staff che dopo uno sbarco era sbottata per la puzza, dal giorno dopo non lavorava più qui.
«La permanenza media annua è di 4 giorni e mezzo prima del trasferimento. Nei momenti caldi come questo, i tempi sono più lunghi. Nei dibattiti pubblici si sbraita che dovrebbero essere spostati subito. Ma nemmeno ci si rende conto di quello che hanno passato per arrivare qui e che hanno bisogno di fermarsi, di riposare». Ancor più i sopravvissuti del naufragio. «Questa volta è successo qualcosa che non ha precedenti. Io l’ho capito dal pathos della telefonata che ho ricevuto dalla Capitaneria di porto. Ho visto la sostanza del dolore dai volti dei primi che arrivavano». Ma qui non c’è tempo di piangere, dice: «Qui non si rielabora, si fa e basta. E non per ordini dall’alto, ma perché la realtà lo chiede». 

In questi giorni, gli è venuto spesso in mente Abu Bakra, «il mio mito». «C’è chi si ispira a Che Guevara, che so. Io invece quando sono in difficoltà penso a quel ragazzino». Veniva dal Mali. Nel 2009 era su uno dei barconi fermati e respinti per il decreto Maroni: quando ha capito che sarebbero tornati indietro, è riuscito ad infilarsi sulla motovedetta e a nascondersi dietro la scialuppa di salvataggio. «Si è presentato una sera, da solo, al cancello del Centro. È rimasto con noi circa due mesi. Tutto era contro di lui. Per il mondo lui non doveva essere qui. Eppure c’era». Dopo quattro anni, «questa sua caparbietà» gli torna sempre in mente. Ma non è solo questo. «Si era affezionato moltissimo a me. Gli abbracci e i grazie che ricevo qui non hanno paragone con nulla».