Il guerriero buono del Resegone
Dai tempi del liceo fino alla morte, Angelo Sala non ha mai mollato un istante. Che fosse costruire un ospedale in Nuova Guinea o il lavoro di giornalista. E di fronte al tumore: «Come si fa a vivere? Adesso devo, anzi mi sono affezionato a questa flebo»«Zaccheo, scendi subito, vengo a casa tua». Che Parola, al funerale di Angelo Sala, morto a Lecco agli inizi di novembre. A lui era capitato come a Zaccheo più di quarant’anni fa, liceo G. B. Grassi, quando cominciò a bazzicare in Gioventù Studentesca. Una vita completamente trasformata. Non a caso, quella Parola riascoltata alla Giornata d'inizio anno è stata voluta alla messa che lo salutava, sotto il suo Resegone, nella chiesa stracolma di familiari e di amici, e di decine di gagliardetti dell’Associazione nazionale alpini, e di tanti colleghi giornalisti - molti il profumo dell’incenso neppure più lo ricordavano - venuti da tutto il Nord Italia.
Dai tempi del liceo fino all’ultimo, Angelo Sala non ha mai mollato un istante, a tener dietro a quell’incontro che l’aveva cambiato e trasformato, lanciandolo appassionatamente nel suo lavoro - anzi nella sua vita - di giornalista e ricercatore, puntiglioso cultore d’arte e di storia e di tradizioni locali, un «locale» che si è dilatato oltre ogni confine, fin dove la curiosità lo chiamava, fosse il romanico delle nostre valli piuttosto che il gotico di Francia e Spagna. S’era spinto fino in Papua Nuova Guinea, a sostenere la realizzazione di un ospedale voluto dal Pime, il Pontificio istituto missioni estere, e finanziato dai lecchesi, là dove nell’Ottocento un altro lecchese, il beato Giovanni Mazzuconi, era stato ucciso, martire missionario.
Sempre in azione, Angelo, inseguendo e documentando la certezza che nei secoli un popolo, quel popolo nuovo che come lui aveva fatto l’incontro con la Chiesa, aveva a sua volta trasformato la realtà e la società, cosciente di un compito e di un significato profondo anche della propria vita personale.
Valeva anche per lui. Da poco andato in pensione, a sessant’anni s’è ritrovato su un letto d’ospedale con la diagnosi di un tumore al pancreas. Due operazioni, le chemio, la dolorosa liturgia delle mille visite di controllo. Forte di una fede rocciosa, poco parlata ma diventata carne e sangue della sua vita, ha raccolto la sfida senza esitazioni, a testa alta. A un amico andato a trovarlo in ospedale, dopo il secondo intervento allo stomaco e all’intestino, e quando anche i medici avevano proclamato la loro resa davanti al male, ha ricordato ancora una volta la Giornata di inizio anno e le parole di don Giussani citate da don Carrón. Angelo - gli occhi puntati sulla flebo che lo alimentava e lo curava, ultimo cordone ombelicale con la vita di questa terra - ironico e insieme serio com’era, ha buttato lì una frase. «Come si fa a vivere? Adesso devo, anzi mi sono affezionato a questa flebo». Non c’è niente di estraneo al nostro destino, diceva Giussani, e perciò non c’è niente a cui non ci si può affezionare: Angelo l’ha vissuta fino in fondo, questa affezione.
Senza titubanze, col suo carattere di guerriero buono, mai pago di andare fino in fondo a quell’incontro del liceo. Allora - lui, io, tanti altri - eravamo trascinati dalle parole di san Paolo a Tessalonicesi: «Vagliate ogni cosa, tenete ciò che vale». E la declinavamo tra studio e giornalismo, quella che andava definendosi come la nostra vita. Angelo, ancora nel Clu, studente di lettere in Statale, aveva cominciato a lavorare per l’allora redazione culturale e nelle prime esperienze di quella che sarebbe diventata la rivista Litterae Communionis. Quindi otto anni al settimanale cattolico Il Resegone, poi il lavoro al quotidiano La Provincia di Como e di Lecco.
Certo della propria fede, aperto ed appassionato ad ogni persona ed esperienza, negli ultimi mesi, non senza sofferenze, ha continuato la sua vita di sempre: direttore del mensile degli alpini, collaboratore del suo vecchio giornale, inarrestabile estensore di articolesse (o pezzulli) per associazioni, centri culturali, gruppi, amici.
Quando lo si andava trovare, negli ultimi mesi, spiegava per filo e per segno la malattia. Ma per una manciata di minuti. Poi si passava oltre, a discutere di quel che si era fatto e scritto, a pensare a quel che ancora c’era da scrivere e fare. Sereno, certo anche in questo frangente di Chi l’aveva sempre abbracciato, in tutti questi anni.
Sua moglie Rosaria, i figli Alberto, Marco e Agnese, e gli amici, tutti volevano dargli tregua in questi mesi, ma era lui ad incalzarli e a meravigliarli per la sua vitalità, fino a poche ore prima della morte. Memore sempre del suo inizio, quando come Zaccheo s’era sentito chiamare, e s’era messo in cammino per la nuova vita.