L'EUROPA? È DA RIFARE

SOCIETÀ - MARTIN SCHULZ
Davide Perillo

Il padre socialista e la madre cattolica. Il fascino per Willy Brandt. La rabbia dei vent’anni. Fino alla sorpresa al Meeting di Rimini. Il Presidente del Parlamento di Strasburgo si racconta. E spiega come vorrebbe riconquistare la fiducia dei cittadini dell’Ue. Perché «l’idea di Unione è ancora valida, sono le istituzioni che vanno cambiate»

«Sono arrivato scettico, sono andato via contento». In mezzo, evidentemente, è successo qualcosa. E colpisce che per parlare di Europa e fiducia, crisi da vincere e ideali da rilanciare, Martin Schulz, 58 anni, tedesco di Hehlrath, socialdemocratico, presidente del Parlamento europeo dal 2012, parta proprio da lì, da un fatto che gli è successo sei mesi fa. Al Meeting di Rimini. «Mi ha sorpreso, molto. Non pensavo fosse un evento così imponente. Anzi, a dirla tutta credevo fosse una specie di congresso di un’associazione di cattolici conservatori. Invece ho visto un sacco di giovani arrivati da tutto il mondo. Persone molto serie nel discutere le sfide che ci toccano, ma al tempo stesso con un ottimismo intatto».
Non è uomo che si stupisca facilmente, Schulz. Ne ha viste tante, in una carriera iniziata molto presto. Iscritto all’Spd da quando aveva 19 anni, dopo un’adolescenza complicata (iniziò a bere quando un infortunio al ginocchio spezzò il sogno di diventare calciatore, ne uscì ripreso dal fratello medico) e un liceo mollato prima del diploma, faceva il libraio, prima di diventare politico a tempo pieno: sindaco più giovane del suo Land e poi, nel 1994, eurodeputato. In Italia divenne famoso nel 2003, per uno scambio di battute non proprio istituzionali con l’allora premier Silvio Berlusconi (Schulz picchió duro su processi e conflitto di interessi, il Cavaliere rispose che lo avrebbe suggerito «per il ruolo di kapò in un film sulle SS»).
Eppure quello che ti ritrovi davanti nel salottino dell’ultimo piano della Torre Louise Weiss, l’europalazzo di Strasburgo, non è un uomo ruvido. Sorride a guardare la foto in cui balla la tarantella tra gli stand riminesi, trascinato da un gruppetto di volontari («erano australiani, no? Ah no, ricordo: canadesi!»). Ricorre spesso all’ironia. E si vede che non è cortesia di maniera verso l’interlocutore quando, di quei ragazzi, dice: «Credo sia questa la differenza vera tra vecchi e giovani: i giovani non temono i rischi, non hanno paura. Se i giovani si bloccassero davanti ai rischi, non ci sarebbe mai sviluppo. Ecco, lì a Rimini ho visto gente che non ha paura».

Partiamo da lì, allora: rischi e paura. Per molti, l’Europa sta diventando questo. Che cosa è per lei?
È ancora un’idea, semplice. L’idea che alcuni Paesi attraversino i confini e si mettano insieme in un’istituzione, perché sanno che non possono più combattersi l’un l’altro. È un’idea che combina capacità molto eterogenee: è una specie di mosaico di tradizioni, esperienze, culture diverse. Bene, questa idea è ancora viva, vibrante: se discuti con la gente, te ne accorgi. Ma c’è un problema: che molti, soprattutto tra i giovani, pensano che non abbia niente a che vedere con l’Unione Europea. Una volta il mio amico Wim Wenders, il regista, mi ha detto una frase che descrive bene questa percezione: «L’idea è diventata amministrazione. E ora la gente pensa che l’amministrazione sia l’idea». Noi dobbiamo scegliere: o rinunciare a questa idea, o cambiare l’amministrazione. Io preferisco la seconda ipotesi.

Ma come si fa a recuperare la fiducia della gente? È solo una questione di assetto istituzionale o ci sono anche altri fattori? Forse il dibattito sulle radici perdute - anche cristiane - e gli ideali persi per strada non era una discussione inutile.
Guardi, credo che la perdita di fiducia sia la chiave dei problemi, dell’Unione e degli stessi Stati nazionali. Siamo meno capaci di proteggere i cittadini, di assicurare welfare e benessere. Le faccio un esempio personale: io sono un tedesco del Dopoguerra. Ai miei genitori il Governo ha chiesto di fare sacrifici che oggi nemmeno immaginiamo: salari bassi, orari di lavoro lunghi, molte tasse, niente vacanze. I miei avevano cinque figli, e mio padre era un poliziotto, neanche un dirigente. Hanno dovuto pagare di tasca loro per mandarci a scuola: lo Stato non aveva soldi. I miei sono andati in vacanza per la prima volta quando mio padre aveva sessant’anni. Sessanta, capisce? Ma perché questa generazione ha accettato tutti questi sacrifici? Semplice: «Lo facciamo per il futuro dei nostri figli. Perché sia migliore del nostro».

E oggi?
Oggi succede che noi al potere stiamo chiedendo alla gente di lavorare di più, pagare più tasse, ridurre i salari e accontentarsi di servizi minori. Ma per cosa? Per salvare le banche. Non la gente. Questo è quello che pensano milioni di persone. Che abbiano perso la fiducia, non è una sorpresa. La gente pensa: le istituzioni si preoccupano di affrontare la crisi finanziaria, ma non hanno tempo per noi. Una ragazza spagnola tempo fa mi ha detto: «L’Europa ha speso 700 miliardi per salvare le banche. Presidente, mi dica: quanti soldi ha per me?» Se noi potessimo dire ai genitori, in Italia o in Germania: dovete fare sacrifici, ma vi garantiamo che la vita dei vostri figli sarà migliore, li farebbero tutti. Per questo una delle questioni chiave è combattere la disoccupazione giovanile. Ne abbiamo discusso proprio con Enrico Letta, all’ultimo vertice: se riuscissimo a garantire ad ogni giovane uscito dalla scuola o dall’università di potersi affacciare nel mercato del lavoro, sarebbe un punto di riscossa enorme. Restituirebbe fiducia alla gente. Anche nelle istituzioni.

Ma anche qui: in che modo? La ripresa, per ora, è asfittica. Come si ridà slancio all’economia? E non è ora di allentare i vincoli dell’austerity? Lo chiedo al Presidente del Parlamento, ma anche ad un tedesco...
Dobbiamo mostrare alla gente che vogliamo cambiare direzione. Le faccio tre esempi di cose da fare subito. Uno: la maggior parte dei lavori, anche per i giovani, sono creati dalla piccola e media impresa. Bene: sono le aziende che hanno più problemi di accesso al credito. Il credit crunch ha colpito soprattutto i medi e i piccoli, in quasi tutti gli Stati. Superarlo è la prima cosa che dobbiamo fare. Dobbiamo focalizzarci su questo. Come? Due: mettendo più regole sui mercati finanziari. Non possiamo accettare che mentre la Banca centrale europea tiene il costo del denaro allo 0,25 per cento, le banche che prendono il denaro a questi tassi invece di finanziare l’economia reale facciano investimenti finanziari e speculazioni. Ci vogliono più regole e un controllo maggiore del mercato bancario. Terzo: chi fa profitti in una certa zona, deve pagare le tasse lì. È un principio semplicissimo, non è che ci sia bisogno di un ministero unico dell’economia europea per arrivarci. La stima è mille miliardi di euro di tasse non pagate ogni anno. In Germania ci sono aziende come Google che guadagnano 3 miliardi di euro e non pagano un centesimo di tasse. L’austerità non è solo una questione di tagli, ma anche di entrate. Per questo serve più disciplina fiscale a livello europeo. Sono tre cose semplici, ma funzionano.

A maggio si vota, e a luglio inizia il semestre di presidenza italiana: che ruolo può giocare l’Italia in questo percorso di ripresa?
Un ruolo di primo piano, a tutti i livelli: economico, istituzionale e politico. Per quello che riguarda l’economia, sottolineo sempre - a volte forse più di quanto non lo facciano gli stessi politici italiani - i punti di forza della vostra economia: un deficit pubblico sotto controllo, un basso indebitamento delle famiglie, un sistema bancario sano, i distretti che hanno saputo abbattere costi e riconvertirsi, un export che ritorna a crescere… Letta ha giustamente posto la diminuzione del costo del lavoro al centro del programma, per rilanciare crescita e occupazione. Ma la lotta alla crisi non permette tregue: le riforme vanno portate avanti con mano ferma. E credo che la stabilità di governo sia una condizione necessaria per agganciare la ripresa in Europa. Ma il contributo dell’Italia sarà fondamentale anche a livello europeo. Gioco forza, la presidenza italiana non sarà una presidenza “legislativa”: coincide con il semestre bianco che porterà al rinnovamento della leadership delle istituzioni. Ma sarà una presidenza di visione. L’Europa ha bisogno di tutta la forza del pragmatismo visionario dell’Italia per riformarsi. Credo che il rinnovamento interno della politica e delle istituzioni italiane possa accompagnare positivamente questa delicata fase di transizione per tutta l’Europa.

Senta, non è paradossale che mentre da noi dilaga la delusione per l’Europa, in Ucraina la gente scenda in piazza da giorni per salire sul nostro treno? Che cosa cercano gli ucraini che manifestano con le bandiere dell’Unione?
Prima di tutto, credo che cerchino dei valori occidentali. Vogliono essere parte di una comunità democratica, basata su valori democratici. Non è una lotta tra Russia e Unione Europea, è una lotta interna al Paese sul futuro del Paese. È un riflesso contro un Governo che ha tentato di restaurare meccanismi e misure autoritarie. Yanukovich deve rispettare gli standard internazionali di democrazia, se vuole diventare un partner rilevante per noi. La gente che manifesta a Kiev va tenuta presente. Quello che dobbiamo fare come Unione è aiutarli a trovare una combinazione di sicurezza economica, individuale e di diritti. Noi diamo per scontata la libertà garantita dalla nostra storia e dalle istituzioni europee. Non lo è. Dovremmo rendercene conto di più.

C’è un altro confine caldo dell’Unione: a Sud. Ci sono voluti mesi e il naufragio di Lampedusa perché si iniziasse a guardare all’emergenza profughi come a una questione europea, e non solo italiana. Ma non le pare che manchi una visione sui rapporti con l’area mediterranea?
È una delle mie amarezze più grandi, negli ultimi tempi: quanto stiamo sottovalutando i rapporti con l’Africa. Libia, Egitto, Tunisia, Nigeria... Sono tutti Paesi che hanno un grande potenziale. Non solo in energia. Lì ci sono milioni di persone che passano di colpo dal diciannovesimo al ventunesimo secolo. Pensi al Cairo: 22 milioni di abitanti e non puoi bere l’acqua. Hanno bisogno di infrastrutture. Sono investimenti potenzialmente enormi e con una ricaduta molto grande sulla politica: vorrebbe dire dare a questa gente non solo cibo, ma anche lavoro. Ma chi può fare da partner per una cosa simile? Chi può dare know-how, finanziamenti, idee? L’Italia, la Francia, la Spagna. I Paesi che hanno una grande tradizione di rapporti con questa area. Affrontare i problemi del Mediterraneo è affrontare i problemi di una fetta di Europa. Certo, per farlo, bisogna cambiare politica.

Ha colpito la sincerità con cui ha raccontato della sua giovinezza difficile: l’alcol, i guai con la scuola... Ma lei perché ha iniziato a fare politica?
Sono cresciuto in una zona di miniere e operai. E in una famiglia molto politicizzata. I miei genitori avevano opinioni molto diverse: mio padre era socialdemocratico, mia madre un’attivista cattolica e votava Cdu. Ma l’amore era più forte della militanza. Io sono il risultato di quello. Sono andato a sinistra, come i miei fratelli, anche perché erano gli anni di Willy Brandt, c’erano motivazioni ideali forti. Ero un tipo molto inquieto: arrabbiato, direi. Se guardo ad oggi, ho perso molta di quella rabbia. Ma non gli ideali.

A proposito di ideali: prima parlava del Meeting, ora di quello che lei ha visto anche nella sua famiglia. Secondo lei che apporto può dare il cattolicesimo all’affronto della crisi?
Non credo di essere la persona più indicata per rispondere a questa domanda. Però posso dirle che io, come milioni di altri cittadini nel mondo, credenti e non, sono stato profondamente toccato dalle parole di papa Francesco, dalla sua umiltà, dal suo ecumenismo genuino e dalla sua attenzione per le periferie del mondo, materiali e immateriali. Anche l’Unione deve imparare ad aprirsi. Troppa introspezione e autoreferenzialità sono malesseri comuni alle istituzioni europee: a volte rischiano di essere troppo “Bruxellocentriche”. L’Europa si è trasformata da forza al servizio della pace in forza amministrativa e di regolamentazione, ma in assenza di ideali solidi, di un senso di dedizione agli obiettivi e di una missione condivisa, la sua legittimità va incontro a un declino inesorabile. Credo che parte di questi ideali si trovino nel messaggio dell’ultima esortazione apostolica, l’Evangelii Gaudium: no a un’economia dell’esclusione, no a un denaro che governa invece di servire e no all’inequità che genera violenza.

Ma a lei che effetto ha fatto l’incontro con il Papa, tre mesi fa?
Mi ha trasmesso molta energia. E fiducia: nel dialogo, nella solidarietà e nei valori, su cui possiamo non essere d’accordo, ma su cui non possiamo mai smettere di dialogare.