Per aiutare l'Islam serve un'amicizia

PRIMO PIANO - NOI E L'ISLAM
Alessandra Stoppa

Al pensiero musulmano urge una nuova ermeneutica. Ma che contributo possiamo dare noi? Risponde padre SAMIR K. SAMIR

L’islam nasce dal deserto. «E il deserto è vita o morte». Quando era ragazzo, padre Samir Khalil Samir passava la notte tra il sabato e la domenica dietro le Piramidi, da solo. Questo ha approfondito in lui il senso del Mistero, della presenza di Dio, e la sua vocazione. Nato al Cairo 77 anni fa, è entrato nell’ordine dei Gesuiti a 17. Profondo conoscitore dell’islam, oggi è docente all’Università San Giuseppe di Beirut e al Pontificio istituto orientale di Roma. «Il deserto è un’esperienza radicale. È la nudità totale. Solo sabbia, e le stelle sopra di te. Sei tu in presenza della Superpotenza. L’islam è nato lì, è nato desertico. Allora si capisce l’estremismo. Pronti a dare la vita, senza calcolo, spinti dal Creatore sopra di noi».
L’attentato di Parigi a Charlie Hebdo è solo il dramma a noi più “vicino”, ma richiama ad un male che incombe, globale, dalla Nigeria al Medioriente, al Pakistan... E ad un terrorismo che, a varia intensità, porta la bandiera islamica. «L’islam è in crisi. E non può guarire da solo. Dobbiamo capire chi può aiutarlo». È l’affondo che padre Samir offre nell’ampio dibattito di oggi. Partendo da un aspetto, quello della libertà di espressione, che in queste settimane si è consumato tra slogan e contrapposizioni.
«C’è una lacuna in una cultura che non accetta la libertà di parola e pensiero. In alcuni Paesi musulmani, in particolare in Pakistan, esiste un delitto passibile di morte: la blasfemia. Questo è inammissibile: mettiamo che io sbagli del tutto, tu mi correggi. La libertà di pensiero e di parola è fondamentale, secondo la Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo adottata il 10 dicembre del 1948, alla presenza anche di Paesi musulmani. Ma si pone una domanda altrettanto decisiva: la libertà d’espressione fin dove può arrivare?»

Lei cosa risponde?
Che non è assoluta. La libertà è sempre in relazione. Deve rispettare le persone, deve essere veritiera. Quindi c’è un limite. Detto questo, non c’è violenza che si giustifichi. Stiamo parlando di stragi umane. Ma il tema è importante: è un’esigenza enorme la libertà, la libertà di coscienza. Anche la religione si confronta con essa, perché io non posso negare a nessuno il diritto di rifiutare Dio, di non riconoscerne l’esistenza, se no è un’ideologia e una dittatura. Ma come conciliare dunque queste due realtà: la libertà e il rispetto dell’altro e della verità? Non può avvenire se non attraverso un confronto, scritto e orale. È esigente la libertà. Esige anche molto studio.

Può fare un esempio?
A Télé Lumière, la tv cattolica internazionale che trasmette da Beirut, ho avuto un dialogo di due ore con un dotto imam libanese. Mi ha chiesto se riconosco Maometto come profeta. Ho risposto di no. E lui: «Perché no? Anche noi riconosciamo Gesù». Ho detto: «È un problema vostro. Se riconoscete Gesù come profeta, gran bene vi fa. Ma per noi Gesù non è un profeta. È il Verbo di Dio (kalimat Allah). E tu non puoi impormelo. Non siamo al mercato, dove mi dici: ti do la profezia di Gesù e tu mi riconosci quella di Maometto. Stiamo riflettendo, insieme. Voi dite che Maometto è “il sigillo dei profeti” (khâtam al-nabiyyîn), ovvero che dopo di lui non può venirne nessun altro. È colui che conclude la Rivelazione e rettifica le precedenti. Infatti, dite che il Vangelo è corrotto e che è corretto dall’islam. Dite che Cristo ha annunciato Maometto come profeta: questo dovete dimostrarlo. È falso. Pretendete che lo Spirito Santo del Vangelo sia equivalente a Maometto, ma non avete nessun argomento». Allora ho suggerito di cercare degli elementi filologici. Tutto ciò non toglie nulla al mio rispetto per Maometto. Anzi. Ho spiegato ciò che ammiro di lui, innanzitutto l’aver guidato l’uomo all’adorazione di Dio, a metter Dio al centro della vita personale e comunitaria. L’imam mi rispondeva ad ogni punto, e così - partendo da un contrasto - abbiamo potuto approfondire le nostre fedi e fare un po’ di strada insieme.

Qual è il legame reale tra la violenza che vediamo e la religione islamica?
È un grande peccato che l’islam si presenti al mondo come una popolazione primitiva. Fa male innanzitutto ai musulmani. Appare come un rifiuto di tutte le più grandi conquiste dell’umanità: la libertà, la democrazia, il dialogo, il rispetto dell’altro, l’uguaglianza tra uomini e donne, tra persone di credo diversi... Ci sono Paesi musulmani nella cui Costituzione si pretende che la donna valga metà dell’uomo. Verrebbe da dire: questi Paesi sono arretrati! Eppure sono i più ricchi del mondo e con la possibilità di essere i più dotti e progrediti. Io ne soffro molto. Perché sono arabo e perché i musulmani sono miei fratelli. In Arabia Saudita la Costituzione non c’è, perché pretendono che la loro Costituzione sia il Corano e la sharia. Ma come si può pretendere che il Corano possa essere un testo giuridico? Che una Costituzione sia stata scritta da Dio? Quindi, il problema non è l’islam, ma chi attribuisce all’islam norme che sono inaccettabili. Ci sono alcuni principi presenti nei libri sacri, sì. Ma se la Chiesa dovesse mantenere alla lettera alcune affermazioni della tradizione o dell’Antico Testamento, sarebbe follia.

Quindi, nell’interpretazione del Corano si fonda il legame tra islam e terrorismo?
I terroristi si considerano autentici musulmani e non agiscono senza l’approvazione di un imam dotto che emette una fatwa. Si tratta di un attaccamento alla lettera del Corano, senza contesto. Non prende in considerazione il tempo, la storia. Quando una mamma spiega la realtà al suo bambino, non mente, ma tiene conto del tempo, della crescita, della sua capacità di capire certe cose. Così è anche Dio. Parla un linguaggio umano. Non c’è un linguaggio divino, c’è solo una capacità umana di capire il divino. La nostra vocazione di cristiani, in particolare di cristiani arabi, è aiutare i musulmani a ripensare la fede in un modo più maturo, senza perdere nulla della fede, ma senza materializzare Dio, senza il materialismo della violenza. In questo senso, la prima cosa importante è l’ermeneutica. Il problema è che nell’islam si è diffusa questa formula: «La porta dell’ijtihad (dell’interpretazione) è chiusa».

Chi lo ha stabilito?
Nessuno ha mai potuto dire né chi né quando, eppure si è trasmesso. Spesso si nomina al-Ghazâlî, grande pensatore musulmano sunnita morto nel 1111. Ma non c’è nessuna prova. Tutto è dubbioso e congetturale, ma si è diffusa l’idea che nel Medioevo questa chiusura ci sia stata e che “ormai è troppo tardi”. In tutte le religioni lo sforzo per re-interpretare si deve fare fino alla fine del mondo: un testo religioso si rilegge in ogni generazione e si può capire diversamente. È così per la Bibbia. Le spiegazioni più adeguate si devono continuare a cercare. Questo per noi va da sé, ma perché ce l’hanno insegnato. Nell’islam non va da sé.

Secondo lei, è questa la prima urgenza per l’islam?
È essenziale la lettura ermeneutica di un testo sacro che gestisce la vita di un miliardo e mezzo di uomini. Tutto lo sforzo dei dotti dovrebbe essere per capire questo. E non il ripetere a memoria le parole dei grandi commentatori dei primi secoli.

Lei vede un’auto-critica all’interno del mondo musulmano?
È la parola decisiva: auto-critica. È un lungo cammino. Il giorno dell’attentato, gli imam di Parigi hanno scritto un bel manifesto per dire che quanto accaduto era inaccettabile. Ho detto loro che non basta più prendere le distanze dicendo che ciò non ha nulla a che fare con l’islam. I terroristi non si considerano terroristi, ma mujahedin, ovvero i compagni di Maometto che hanno fatto la guerra (la jihad) per difendere e diffondere l’islam. Non è gente egoista, che pensa a fare i soldi: sono pronti a dare la vita. Ma fino all’orrore. Come le bambine kamikaze di dieci anni addestrate da Boko Haram. I volontari dell’Isis sono gente male integrata, che non ha trovato il suo posto nel mondo. Non segue magari un imam, ma su internet diventa fanatica.

Il discorso che il presidente egiziano, Abdel Fattah Al Sisi, ha tenuto all’Università di al-Azhar va nella direzione riformatrice.
Un discorso splendido e forte nell’università islamica più famosa del mondo, fondata nel X secolo dai Fatimidi. In presenza di un migliaio di persone, centinaia di imam, ha detto: «C’è bisogno di fare una rivoluzione religiosa!». Ed è scoppiato un applauso spontaneo e formidabile. È quello che la gente aspetta e desidera, ma non osa e non sa come. Probabilmente nessuno nell’establishment sa come fare questa “rivoluzione intellettuale”.

Avrà incidenza questo discorso?
Al Sisi non è un pensatore, ma ha un vantaggio riguardo a tutti i pensatori: è il Presidente e l’Università è un organismo di Stato. Quindi ha l’autorità per orientare al-Azhar. Ma quello che può dare è solo il principio, perché non è un dotto. Infatti ha detto: «Tocca a voi, imam, dare un’interpretazione rivoluzionaria. Non possiamo più continuare così». Sono certo che questo richiamo influirà, ma fino a che punto Al-Azhar sia capace di rinnovarsi è la grande domanda. Se riesce, sarà un grande successo, perché l’Egitto è il Paese arabo più popoloso, con 90 milioni di abitanti, e dunque 80 milioni di musulmani. Al-Azhar è frequentata ogni anno da decine di migliaia studenti (futuri imam) di tutto il mondo musulmano.

Il cardinale Tauran ha detto che «la religione non è il problema, ma è parte della soluzione». Può aiutarci a capire meglio questo? E qual è la nostra responsabilità?
La riforma religiosa nell’islam è necessaria e sentita da molti. Non da tutti, ma da molti. Però non sono in grado di farla da soli, perché il peso della tradizione è troppo forte. L’islam è in crisi e la soluzione alla guarigione non è nelle mani dei musulmani. Quella che conoscono - il ritorno all’uso della forza fisica - è sbagliata. Anche se fa chiasso, non cambierà né loro né il mondo. La soluzione è al contrario: l’aiuto può venire solo da chi vuol bene all’islam e insieme sa discernere, criticare. È l’aiuto dei cristiani. Noi possiamo riflettere insieme ai musulmani sulle origini della fede, nostra e loro. Per esempio: lo scopo dell’islam qual è? È politico? Allora non è una religione. È religioso? Ma in che senso? Noi possiamo dare l’aiuto a partire dalla nostra esperienza: la Chiesa ha fatto guerre fino al 1500-1600, tra cattolici ed eretici, tra cattolici e protestanti... Da alcuni secoli, diciamo: questa non è la via. Allora lo diciamo a voi: se volete, se la scegliete per voi, vi aiutiamo. Ma se risolvete i problemi con la violenza, sarete odiati da tutti. Noi non siamo certo “arrivati”, ma siamo in cammino. Ci vogliono secoli per compiere una riforma così profonda, ma si fanno dei passi. L’islam non ha ancora iniziato questo cammino.

Il nostro aiuto è essere cristiani fino in fondo? L’estromettere la religione dallo spazio pubblico contribuisce all’estremismo?
Sì, il nostro compito è di essere cristiani autentici. Non è l’Occidente secolarizzato che può aiutare l’islam, perché è del tutto nemico dell’islam come del cristianesimo. Altra cosa è quella che Benedetto XVI chiamava «laicità positiva», ben diversa dal laicismo: ci sono delle cose che devono essere gestite dalla società civile, ma bisogna tenere conto della dimensione spirituale dell’uomo. Se no, a dettare legge è la “cultura dello scarto” di cui parla il Papa: ci sono vite di cui la tendenza secolarista si sbarazzerebbe. A conoscenza mia, gli unici che possono aiutare l’islam sono i cristiani autentici. Chi gli vuole bene ed è vicino a loro. Si tratta di entrare nella loro mentalità e fare la strada con loro, da amici, da fratelli. È l’atteggiamento che vediamo oggi nel Papa. E lui non rinuncia a nulla.

Spieghi meglio.
Non rinuncia a nulla della fede cristiana e delle proprie convinzioni. Non dice: facciamo compromessi. Dice: dobbiamo vedere cosa c’è di diverso e cosa ci unisce. Si comincia con chi è disponibile al dialogo e alla collaborazione, e poi si allarga il cerchio. La strada è questa. Non ce n’è un’altra. È un’amicizia esigente. Perché sui diritti umani non si può cedere, sull’uomo non si può cedere. Ma si può vivere insieme, camminare insieme.