La spiaggia di Sousse, Tunisia.

Un ponte per Tunisi

A marzo l'attacco terroristico al museo del Bardo. Venerdì scorso quello alla spiaggia di Sousse. Da Tracce di giugno, un'intervista alla giurista Tania Groppi, che spiega perché l'Italia è così importante per la giovane democrazia del Paese
Stefano Filippi

È un unicum nel mondo musulmano, una particolare mescolanza di laicità e religione, tradizione e apertura. È l’unico Paese arabo che, dopo la Primavera del 2011, ha approvato una nuova Costituzione attraverso un processo costituente democratico (tanto che il Report 2015 di Freedom House la qualifica come “Paese libero”: in 42 anni di vita del rapporto, è la prima volta che accade a un Paese musulmano). E ora che la Tunisia torna di attualità per le indagini sull’attentato del Museo del Bardo (24 vittime il 18 marzo, adesso un indagato in Italia) - e per quello a Sousse il 26 giugno, ndr -, è proprio sulla sua eccezionalità che mette l’accento Tania Groppi: «È per questo che la Tunisia è stata colpita dagli attentati fondamentalisti».

Ordinario di Diritto pubblico all’Università di Siena, in passato editorialista dell’Unità e consigliere di amministrazione del Monte dei Paschi, la professoressa Groppi è stata consulente delle istituzioni tunisine impegnate a traghettare il Paese verso una piena democrazia. Ha curato il saggio Tunisia. La primavera della Costituzione (ed. Carocci).

«La Tunisia è un crocevia geografico, un ponte gettato nel Mediterraneo verso l’Europa; uno snodo di commerci e culture, un luogo di incontro», spiega: «Nel 1851 si era dotata di una Costituzione di stampo liberale, la prima di area islamica. Anche durante l’Impero ottomano ha goduto di una certa autonomia. E Habib Bourguiba era diverso da certe figure carismatiche che hanno guidato all’indipendenza altri Stati in contesto musulmano. Già nella fase di transizione da protettorato francese, tra il 1956 e il ’59, Bourguiba aveva fatto approvare una sorta di codice civile, il codice di statuto personale, che riconosceva l’uguaglianza tra uomo e donna. Inoltre, ha fatto dell’istruzione un aspetto centrale del suo programma: questo spiega l’elevato livello culturale della popolazione ancora oggi».

Nel mondo islamico, insomma, non ci sono esperienze paragonabili alla storia e alle libertà della Tunisia. Anche per questo le rivolte del 2011 hanno lasciato un segno concreto. «Loro non la chiamano rivolta, ma Rivoluzione, con la maiuscola», dice la Groppi. Come quella francese: un punto di svolta. «La parola è impegnativa, eppure oggi constatiamo che la Tunisia è passata da un regime autoritario a uno democratico-pluralista. Altrove abbiamo assistito ad aggiustamenti e correzioni, non a vere svolte: l’Egitto, per esempio, si muove in sostanziale continuità con il precedente regime, mentre Paesi come Libia, Siria, Yemen sono piombati nel caos».

Dopo quattro anni la fase transitoria nel Paese magrebino si può dire chiusa, anche se la nuova Costituzione deve ancora trovare applicazione completa. «In questo contesto si cerca di radicare anche una qualche forma di separazione tra religione e Stato. Un tentativo unico nel mondo arabo, che si realizza in una nazione piccola, priva di risorse e materie prime, e senza nemmeno un gasdotto...».

È questa specificità che i fondamentalisti hanno ferito con gli attentati di metà marzo: «Gesti diabolici. Hanno colpito allo stesso tempo il Parlamento, perché il Bardo è sede dell’Assemblea legislativa; il museo, che rappresenta questo crocevia di culture così aperto; e il turismo, che è un settore centrale per l’economia. Tre sfere decisive per il Paese».

Qui si colloca il contributo della Groppi, che ha precedenti esperienze in scacchieri difficili come Iraq e Repubblica democratica del Congo. «Ho avuto la fortuna di essere coinvolta dalla Regione Toscana, molto attiva nella cooperazione nel Mediterraneo, in un progetto di sostegno all’attività costituente, con riferimento in particolare al decentramento amministrativo. La Tunisia era uno Stato accentrato e con la nuova Costituzione ha riconosciuto per la prima volta le autonomie locali». Il progetto, svolto assieme alla regione francese Provenza-Alpi-Costa Azzurra, appoggia in particolare una regione povera dell’interno, il governatorato di Kasserine.

«Il radicamento del nuovo assetto istituzionale passa attraverso il decentramento», spiega la docente senese, «perché in Tunisia, come del resto anche in Italia, esiste una grande sperequazione tra regioni: da noi tra Nord e Sud, da loro tra regioni dell’interno e della costa. La rivoluzione è figlia anche di motivi economici (povertà, disoccupazione, precarietà della vita di gran parte della popolazione) che compromettevano la dignità delle persone. Il regime s’approfittava di questa condizione per creare un sistema di clientele e corruzione, e in esso alimentava il consenso. Quella del 2011 è stata una rivoluzione della dignità, per recuperare il valore delle persone che passa prima di tutto attraverso una vita dignitosa». Mohamed Bouazizi, il giovane che si diede fuoco avviando la rivoluzione tunisina, viveva appunto in una cittadina dell’interno, Sidi Bouzid: i vigili urbani gli avevano sequestrato il carrettino della verdura perché non aveva pagato una mazzetta. «Si immolò per dire basta».

Inserire il decentramento nella Costituzione significa favorire lo sviluppo economico: «È un principio accettato internazionalmente. Con il gruppo dell’Università di Siena abbiamo cominciato così, lavorando con la Federazione nazionale delle città tunisine perché intervenisse sull’Assemblea costituente, e così il decentramento è passato. Parallelamente abbiamo avviato un’attività di formazione nella società civile grazie ad accordi tra l’Università e atenei locali. In Tunisia la società è molto viva, il mondo associativo è ricco, un terreno fertile anche per il successo della Rivoluzione. Qui ho svolto attività soprattutto per una ong tedesca, Democracy Reporting International, che offre supporto all’elaborazione delle leggi di attuazione costituzionale e promuove corsi rivolti anche ai politici locali».

Ma che ci fa l’Italia in Tunisia? Che cosa abbiamo da insegnare a una giovanissima democrazia? Per Tania Groppi, il nostro Paese ha un ruolo importante: «Innanzitutto non siamo l’ex potenza coloniale, non siamo la Francia: possiamo interloquire con libertà. Siamo vicini alla Tunisia per ragioni geografiche e storiche, ma soprattutto la mia sensazione è che siamo culturalmente i più prossimi tra i Paesi occidentali. Siamo avvantaggiati dalla nostra imperfezione: non abbiamo nulla da esportare, ma possiamo raccontare la nostra esperienza, il nostro percorso. Abbiamo tanti difetti, anche da noi ci sono corruzione e squilibri economici; ma siamo al lavoro, non siamo un modello irraggiungibile. Siamo prossimi. Negli anni Quaranta eravamo come loro oggi. Possono farcela».

Accanto all’elogio dell’imperfezione, c’è un ulteriore aspetto della collaborazione italiana che la professoressa Groppi ritiene essenziale: la laicità dello Stato. «Noi non abbiamo un approccio lontano al rapporto Stato-religione come quello francese, che separa rigidamente. Più che un’equidistanza, noi viviamo una “equivicinanza”. Da noi la Chiesa è riconosciuta nella Costituzione. È un modello di rapporto tra fenomeno religioso e sfera pubblica più vicino, proponibile, comprensibile e accettabile in un contesto islamico, dove è inconcepibile una divisione netta tra i due ambiti. La nostra storia e la nostra cultura, anche costituzionale, ci mettono in buona posizione per interagire con i tunisini. E in questo momento c’è bisogno di interagire: chi sta costruendo un percorso democratico in Tunisia non può essere lasciato solo. Perché la Tunisia con la Costituzione del 2014 ha scelto di essere uno Stato democratico e pluralista, non uno Stato islamico».

L’ultima volta che è stata lì, lo scorso marzo, la Groppi ha tenuto alcune lezioni per politici locali dei governatorati del Sud. «Parlavo di decentramento amministrativo e della Carta europea dell’autonomia locale. Si alza un politico di Ennahda, il partito islamico moderato, e “in nome di Allah clemente e misericordioso” mi dice che non capisce perché sono venuta a parlare dell’Europa: “A noi interessa il Kuwait, la Malesia... Siamo simili a loro, non a voi”. Ma la loro Assemblea costituente ha fatto una scelta precisa, quella della Carta europea dell’autonomia locale, quindi...».

La conclusione? Semplice: «I politici italiani dovrebbero fare della Tunisia una priorità. Se perdiamo quel Paese, abbiamo perso tutto. Il Ministero degli Esteri dovrebbe aprire un tavolo per riunire e coordinare tutti i soggetti italiani che sono presenti in Tunisia a vario titolo, le università, i soggetti economici, gli enti locali. La Tunisia è il nostro fronte meridionale. Aiutare loro significa presidiare i confini a sud dell’Italia. Anche l’elettorato più difficile capirebbe che investire in Tunisia sono soldi spesi bene».