Don Julián Carrón.

Carrón: «Una nostalgia già piena di una presenza»

L'esperienza della mancanza, Abramo e la possibilità di «guadagnare la vita vivendo». Il presidente della Fraternità di CL si confronta con il titolo e con l'esperienza di questi giorni
Andrea Avveduto

Ha visto il Meeting, seguendo gli incontri e visitando le mostre. E oggi, lunedì 24 luglio, sarà lui stesso protagonista sul palco dell’auditorium. La guida di CL, don Julián Carrón, si confronta con le parole di Mario Luzi a tema quest’anno e con quanto sta accadendo a Rimini in questi giorni.

Don Julián, che esperienza fa del titolo del Meeting di quest’anno?
Quella che fa ogni uomo che vive cosciente di sé e che non può non sorprendere questa mancanza nella vita quotidiana. Ci manca sempre qualcosa. Anche quando le cose vanno bene. Anche quando siamo in vacanza: la mancanza c’è sempre. E se questo succede dopo l’incontro cristiano, questa mancanza cresce in modo esponenziale. Perché si introduce una tale nostalgia di Cristo che non soltanto non sminuisce la mancanza, ma la fa crescere. «Ti cerco giorno e notte», dice il Salmo. L’esperienza della mancanza è il segno più palese della Sua presenza.

Che differenza c’è tra la mancanza e il vuoto, invece?
Il vuoto è tutto diverso. Non ha nessuna capacità di apertura a un'altra cosa. Non ha niente. E se è senza niente vuol dire che uno ha bisogno di riempirlo con altro che gli dia una ragione per vivere. La mancanza, invece, è qualcosa a cui siamo costantemente richiamati. A volte vuoto e mancanza possono essere simili. La questione è capire se questa mancanza non è vuoto ma Qualcuno che mi sta chiamando, Qualcuno di cui ho nostalgia, o se è soltanto un vuoto senza fondo, oscuro, in cui non so che cosa fare, in cui devo cercare in qualsiasi modo di distrarmi o di riempirlo con altre cose perché altrimenti non lo sopporto. Invece, la nostalgia è già piena di una presenza.

In questi giorni al Meeting è emersa un’evidenza: davanti a un cuore scrostato da pregiudizi e idee, sempre in ricerca, come ci ha ricordato papa Francesco, si rende palpabile la presenza di un mistero che ci mette insieme su un cammino comune. Ci aiuta a capire cosa è successo?
Semplicemente, la prima cosa che ci mette insieme è la nostra natura comune, il sentire questa mancanza, questo desiderio, questo bisogno che abbiamo di qualcosa d’altro. L’abbiamo visto dopo le Torri Gemelle, dopo gli attentati di Parigi... La gente si raduna. È un tentativo di mettersi insieme. Il problema è che, poi, non dura. Se non si trova una risposta che dia un fondamento stabile allo stare insieme, poi ci si disperde e torniamo, ciascuno, al nostro individualismo. Non c’è più la capacità di percepire la comunione, una unità tra di noi. Solo se si risponde con una risposta adeguata a questa mancanza, allora, trova un fondamento adeguato anche lo stare insieme.

È questa l’apertura al mondo, la strada, a cui il Papa richiama continuamente i cristiani?
In un certo modo sì. Soltanto se ci sentiamo prima di tutto insieme con gli altri, che sono come noi, che hanno lo stesso desiderio, la stessa mancanza che abbiamo noi ci scopriamo compagni. Il problema è come noi guardiamo gli altri, se li guardiamo soltanto con i pregiudizi che abbiamo, per certi aspetti della loro vita, delle loro abitudini, o se andiamo al cuore di questi altri. Quando Gesù trova la samaritana, quello che gli interessa non è soltanto ciò che ha sbagliato, ma la sete di quella donna, la sua mancanza. Quando trova quelli che non hanno pane, gli interessa non soltanto rispondere alla loro fame: subito dopo gli parla di qualcosa d’altro, perché sa che il pane non basta per rispondere a tutto quello manca loro. Gli parla del pane della vita: «Se non mangiate la mia carne e non bevete il mio sangue», non potete avere vita in voi. Questo è quello che, poi, possiamo portare agli altri. Ma il primo passo è riconoscere quello che ci tiene insieme, tutti. E testimoniare agli altri quello che ci è capitato perché è ciò che risponde alla loro mancanza. Se facciamo così, entriamo costantemente in dialogo, come dice il Papa, e solo questo dialogo è in grado di dare anche a loro la possibilità di scoprire quello che a volte, a tentoni, stanno cercando.

In questo senso, come si colloca la figura di Abramo?
La figura di Abramo è l’inizio di questo dramma. Perché prima di Abramo, mancando questo “tu” che risponde alla mancanza, tutto era prevedibile. È quello che diceva Guccini: «Non sono quando non ci sei e resto coi pensieri miei». Noi abbiamo pensato che questo fosse solo una cosa spirituale, per quelli che volevano vivere più “buoni”. No, questo è per essere uomini. Quando tutto questo viene meno allora vediamo che non è soltanto una cosa per gente “più spirituale”. È per uno come Abramo, che ha trovato una Presenza che ha risvegliato tutta la capacità del suo io. Che cosa succede quando questa presenza, storica, di Dio viene meno perché l’uomo, a un certo punto, l’ha sentita ostile? Ritorniamo a prima di Abramo. Ritorniamo al torpore di cui parlano tanti contemporanei. Alla noia, al vuoto. All’accontentarsi del “prevedibile”. Soltanto se entra nella vita l’imprevedibile, la vita diventa veramente drammatica, e veramente interessante. Perché se no, come dice Eliot, «perdiamo la vita vivendo». Solo se entra una Presenza, possiamo guadagnare la vita vivendo. Altrimenti siamo tutti condannati a perderla vivendo.