La bellezza disarmata/1

Una straordinaria avventura per ritrovare il “punto infiammato” nel cuore della vita, dove le domande si fanno più brucianti. Alcuni estratti dal volume di don Julián Carrón (Rizzoli 2015, pp.370 - € 18)

VERITÀ E LIBERTÀ: UN ESEMPIO PARADIGMATICO
(Dal capitolo 2, pp. 32-34)

Impressiona in questi tempi la radicalità della sfida a cui siamo sottoposti, la velocità con cui il cambiamento della mentalità si sta verificando nei Paesi europei e in Occidente in genere.
Ciò che dirò non ha alcuna pretesa di completezza o esaustività. Vorrei semplicemente offrire alcuni spunti di riflessione per una presa di coscienza del tempo in cui siamo, seguendo la percezione, questa sì veramente consapevole, che ne hanno Benedetto XVI e papa Francesco.

Le evidenze e la storia
a) Il primo punto con cui occorre fare i conti è il «crollo delle evidenze», per sintetizzare in una espressione la situazione che ho descritto nell’intervento sull’Europa. Ratzinger parlava del «crollo di antiche sicurezze religiose» e del conseguente «collasso del senso di umanità». Di che cosa si tratta? Come può crollare un’evidenza? Sembra quasi una contraddizione. E di quali evidenze parliamo?
Il punto di partenza del fenomeno, di cui vorremmo aiutarci a prendere coscienza, va ricercato nel tentativo illuministico di sottrarre i valori fondamentali che hanno sostenuto e innervato l’Europa fino a pochi decenni fa alla sfera religiosa e in particolare cristiana, nella quale essi erano storicamente emersi. Nell’epoca della «contrapposizione delle confessioni», osserva Ratzinger, si è cercata per quei valori e quelle norme «una evidenza che li rendesse indipendenti dalle molteplici divisioni delle varie filosofie e confessioni». Fu un tentativo comprensibile. Dopo la divisione portata dalla Riforma e gli scontri conseguenti, con le cosiddette guerre di religione tra i cristiani, si volevano «assicurare le basi della convivenza e, più in generale, le basi dell’umanità», al di qua di ogni riferimento al cristianesimo, su un terreno per così dire neutro e apparentemente più sicuro, al riparo dalle contese. «A quell’epoca sembrò possibile, in quanto le grandi convinzioni di fondo create dal cristianesimo in gran parte resistevano e sembravano innegabili.» Si pensò: esse resterebbero valide anche se Dio non esistesse.
Qual è stato l’esito di tale tentativo? Ratzinger lo sottolinea senza mezzi termini: «La ricerca di una tale rassicurante certezza, che potesse rimanere incontestata al di là di tutte le differenze, è fallita». Quelle convinzioni non hanno superato la prova della loro “autonomia”, anche se nessuno si sarebbe immaginato la rapidità della loro eclissi.







NEL CROLLO DELLE EVIDENZE, LA GENERAZIONE DI UN SOGGETTO
(Dal capitolo 3, pp. 67-71)

Prendere coscienza della natura dell’io
Riprendendo l’esperienza del Vangelo, don Giussani sottolinea che la persona, la persona ridotta dal potere, «ritrova se stessa [solo] in un incontro vivo, vale a dire in una presenza in cui si imbatte e che sprigiona un’attrattiva». Se questo non succede, tutti i nostri tentativi di rispondere alle nuove sfide - a quella riduzione per cui l’uomo si può accontentare delle immagini di sé che si costruisce, secondo modalità che oggi sono diverse da quelle della rivoluzione precedente - non avranno alcun esito. Se l’uomo non ritrova se stesso, non potrà che uscire ancora più ridotto dai suoi sforzi di risolvere il problema. Vediamo già quanto i tentativi di tanti nostri contemporanei siano incapaci di cogliere la natura dell’io e quindi di rispondere alle sue esigenze ultime.
Che cosa fa Gesù per ridestare l’uomo, per risollevarlo dalla situazione di smarrimento e di alienazione in cui versa? Incontra le persone, mette davanti a loro una presenza umana - la Sua - non ridotta. Perché è soltanto imbattendosi in Lui, nella Sua presenza, nella coscienza chiara che Lui ha di Sé, nella Sua capacità di rendersi conto della densità e dell’attesa del cuore, che può risvegliarsi la loro umanità, la percezione della portata della loro esigenza, ed esse possono di conseguenza non perdere tempo cercando soluzioni che non sono in grado di rispondere adeguatamente. Per questo la soluzione dei problemi emergenti nella vita quotidiana «non avviene direttamente affrontando i problemi, ma approfondendo la natura del soggetto che li affronta», cioè prendendo coscienza della natura dell’io, della natura del proprio desiderio. Solo se l’io si rende conto di sé fino in fondo potrà liberarsi da tutte le presunte soluzioni e le immagini che ha in testa, in cui anche noi possiamo cadere. […]
Perciò, davanti al crollo delle evidenze, tutto il problema è se si genera un soggetto in grado di avere una consapevolezza tale della propria natura, della propria esigenza umana, da non lasciarsi travolgere da immagini ridotte e soluzioni parziali, che non danno alcuna soddisfazione. L’esperienza cristiana realmente vissuta rende l’io libero da tutti i tentativi parziali, lo fa traboccare di gioia e di pienezza, ponendo davanti a tutti una umanità veramente desiderabile. Infatti, ciò che colpisce non sono le opinioni diverse sulle cose, ma una umanità vera, piena, in cui ci si imbatte. A questa umanità diversa l’uomo, qualsiasi sia la latitudine in cui vive, non si può sottrarre, come raccontava un ragazzo che ha vissuto alcuni mesi in Texas. Le persone che avevano a che fare con lui gli dicevano: «Non abbiamo mai visto un’umanità così». Si ripete oggi la stessa reazione che i primi avevano davanti a Gesù. Non sono le opinioni religiose che muovono le persone, ma una umanità vera, piena. Occorrerà poi dare tutte le ragioni di tale diversità, ma il primo contraccolpo è l’incontro con una umanità vera, non ridotta.
[…] Non c’è un’altra strada, ci dice sempre papa Francesco, che la testimonianza di una vita traboccante della Sua presenza, così che chiunque ci incontra possa fare parte di questa pienezza che a noi è stata data per grazia, che dobbiamo avere di continuo la semplicità di accogliere, di ricevere, e senza la quale noi smarriamo il rapporto con la realtà.
[…] Come ha detto papa Francesco, senza un punto di appoggio in qualcosa di essenziale - e l’essenziale è Cristo -, noi non potremo evitare di spaventarci davanti alle nuove sfide. L’essenziale, il ritorno all’essenziale, a cui don Giussani ha sempre richiamato e al quale adesso invita il Papa, è cruciale; altrimenti sarà difficile essere sufficientemente liberi per cercare nuove forme e modi per comunicare la verità.


LA SFIDA DEL VERO DIALOGO DOPO GLI ATTENTATI DI PARIGI
(Dal capitolo 4, pp. 74-77)

Noi europei abbiamo ciò che i nostri padri hanno desiderato: un’Europa come spazio di libertà, in cui ciascuno può essere ciò che vuole. Così il Vecchio Continente è diventato un crogiuolo di culture, religioni e visioni del mondo le più diverse.
I fatti di Parigi documentano che questo spazio libero non si preserva da sé: può essere minacciato da chi teme la libertà e vuole imporre con la violenza la propria visione delle cose. Che risposta dare a una simile minaccia? Occorrerà difendere quello spazio con tutti i mezzi legali e politici, a partire dal dialogo con i Paesi arabi disponibili a impedire un disastro che danneggerebbe anche loro e da una adeguata cornice giuridica che garantisca un’autentica libertà religiosa per tutti. Ma ciò non basta, e la ragione è ovvia. Gli esecutori della strage di Parigi non vengono da oltre i confini, sono immigrati di seconda generazione, nati in Europa, istruiti e formati come cittadini europei, come moltissimi altri che da tempo vivono nei nostri Paesi. […]
La vera sfida è di natura culturale e il suo terreno è la vita quotidiana. Quando coloro che abbandonano le loro terre arrivano da noi alla ricerca di una vita migliore, quando i loro figli nascono e diventano adulti in Occidente, che cosa vedono? Possono trovare qualcosa in grado di attrarre la loro umanità, di sfidare la loro ragione e la loro libertà? Lo stesso problema si pone in rapporto ai nostri figli: abbiamo da offrire loro qualcosa all’altezza della domanda di compimento e di senso che essi si trovano addosso? In tanti giovani che crescono nel cosiddetto mondo occidentale regna un grande nulla, un vuoto profondo, che costituisce l’origine di quella disperazione che finisce in violenza. Basti pensare a chi dall’Europa va a combattere nelle fila di formazioni terroristiche. O alla vita dispersa e disorientata di tanti giovani delle nostre città. A questo vuoto corrosivo, a questo nulla dilagante, bisogna rispondere.
Di fronte ai fatti di Parigi è sterile la contrapposizione in nome di un’idea, pur giusta. Abbiamo imparato, dopo un lungo cammino, che non c’è altro accesso alla verità se non attraverso la libertà. […]. Per noi l’Europa è uno spazio di libertà: che non vuol dire spazio vuoto, deserto di proposte di vita. Perché del nulla non si vive. Nessuno può stare in piedi, avere un rapporto costruttivo con la realtà, senza qualcosa per cui valga la pena vivere, senza una ipotesi di significato. […]
Ora inizia la verifica per l’Europa. Spazio di libertà vuol dire spazio per dirsi, ognuno o insieme, davanti a tutti. Ciascuno metta a disposizione di tutti la sua visione e il suo modo di vivere. Questa condivisione ci farà incontrare a partire dall’esperienza reale di ciascuno e non da stereotipi ideologici che rendono impossibile il dialogo. Come ha detto papa Francesco, «al principio del dialogo c’è […] l’incontro. Da esso si genera la prima conoscenza dell’altro. Se, infatti, si parte dal presupposto della comune appartenenza alla natura umana, si possono superare i pregiudizi e le falsità e si può iniziare a comprendere l’altro secondo una prospettiva nuova».


INTRODURRE ALLA REALTÀ TOTALE
(Dal capitolo 10, pp. 215-222)

L’educazione è la grande sfida che tutti abbiamo davanti. Non per niente si parla di “emergenza educativa”. Educare è sempre stato decisivo per introdurre alla vita le nuove generazioni. Cosa c’è ora di diverso rispetto al passato? Perché oggi si parla in termini così drammatici di emergenza educativa? Solo rispondendo a queste domande possiamo afferrare la portata del contributo che ha offerto a questo problema papa Francesco fin da quando era arcivescovo di Buenos Aires.
Qual è la sfida che abbiamo davanti? In un articolo pubblicato su la Repubblica, Pietro Citati scriveva che «i giovani di oggi non sanno chi sono. […] Preferiscono restare passivi e vivono avvolti in un misterioso torpore». Un educatore con una lunga esperienza di rapporto con i giovani, Luigi Giussani, usava una immagine per descrivere questo «misterioso torpore»: «È come se i giovani di oggi fossero tutti stati investiti […] dalle radiazioni di Chernobyl»: è come se il loro organismo non avesse più energia, per effetto delle radiazioni.
La conseguenza della debolezza descritta è che «non è assimilato veramente quello che si ascolta o si vede. Ciò che ci circonda, la mentalità dominante […], il potere, realizza [in noi] un’estraneità da noi stessi». È come se ci strappassero di dosso il nostro essere. «Si rimane […] astratti nel rapporto con se stessi, come affettivamente scarichi.»
Si resta dunque «astratti», estranei, non solo con gli altri, ma anche con se stessi. Basti pensare a quanto tempo uno è in grado di rimanere presso di sé, per un momento di silenzio: dobbiamo subito fuggire, distrarci, c’è come un’incapacità a stare con noi stessi, come se non ci sentissimo mai a casa nostra. E la estraneità a noi stessi diventa estraneità a tutto: niente riesce davvero a coinvolgerci. Il disinteresse prende il sopravvento.
A questa situazione non si può immaginare di rispondere con delle regole, con degli appelli etici, che si sono già dimostrati inefficaci. Essi non riescono a mettere in moto il soggetto, non sono in grado di destare la mossa dell’io. E senza la mossa dell’io non c’è educazione.

Da dove ripartire?
Da dove ripartire, allora? Occorre anzitutto dire che, malgrado tutto, nell’animo dell’uomo rimane, come diceva Cesare Pavese, un «punto infiammato». Ed è intorno a tale punto infiammato che può ruotare una proposta veramente corrispondente all’umano. Papa Francesco lo ha identificato con chiarezza: «L’uomo non è un essere tranquillo nei propri limiti, bensì un essere “in cammino” […] e quando non entra in questa dinamica si annulla come persona o si corrompe. Il mettersi in cammino è dovuto a un’inquietudine interiore che spinge l’uomo a “uscire da sé”. […] C’è qualcosa, fuori e dentro di noi, che ci chiama a compiere il cammino». Questa inquietudine, di agostiniana memoria, rimane in fondo all’essere dell’uomo. Essa indica la profondità e l’ampiezza del desiderio, il punto infiammato del cuore.
[…] L’allora arcivescovo Bergoglio avvertiva […] gli educatori che occorre fare attenzione a non utilizzare in alcun modo gli strumenti educativi per ridurre il desiderio: «La disciplina è un mezzo, un rimedio necessario al servizio dell’educazione integrale, ma non può trasformarsi in una mutilazione del desiderio. […] Il desiderio si contrappone alla necessità. Quest’ultima è soddisfatta non appena la carenza viene colmata; il desiderio, invece, è la presenza di un bene positivo e sempre si accresce, si struttura e mette in moto verso un “di più”. Il desiderio di verità procede “da incontro a incontro”».
Il noto psicoanalista Massimo Recalcati osserva, in proposito, che «il desiderio non può essere schiacciato sulla mera soddisfazione dei bisogni, ma si rivela diverso dalla brama bestiale proprio in quanto animato da una trascendenza che lo apre all’inedito, al non ancora conosciuto, al non ancora pensato, al non ancora visto». Dunque, la grande sfida per un educatore è proprio come risvegliare il desiderio: «Come insegnare ai nostri alunni a non aver paura di cercare la verità? Come educarli alla libertà? […] Come fare in modo che i nostri ragazzi […] diventino “inquieti” nella ricerca?».
[…] Ora, soltanto chi riesce a riscattare l’io da questa astenia potrà dare un contributo alla situazione drammatica in cui ci troviamo.
Da dove ripartire, dunque? Dalla realtà, ma non da una realtà preventivamente ridotta ad apparenza, perché essa ci stanca, ci fa diventare aridi, non riesce a prenderci, a interessarci per molto tempo, bensì dalla realtà nella sua interezza e forza di provocazione. La realtà desta un interesse in quanto ci attrae, si propone anzitutto nella sua bellezza, come affermava Jorge Mario Bergoglio: «Quanti razionalismi astratti e moralismi “estrinsecisti” sarebbero curati […] se cominciassimo a pensare la realtà in primo luogo come bella, e solo dopo come buona e vera!».


«RAGGIO DIVINO AL MIO PENSIERO APPARVE, DONNA, LA TUA BELTÀ»
(Dal capitolo 13, pp. 271-278)

La famiglia è al centro del dibattito pubblico. Il tentativo di regolare nuove forme di convivenza, diverse dal matrimonio concepito come rapporto definitivo e fecondo tra un uomo e una donna, ha provocato una accesa discussione, portando al culmine un processo cominciato anni fa.
Questo dibattito ha messo in evidenza, da una parte, che il diffondersi di una mentalità contraria attraverso i media (cinema, televisione, stampa), non impedisce che tante persone continuino a fare una esperienza positiva della famiglia. Benché la famiglia tradizionale non esprima più un modello di vita alla moda, permane l’esperienza inestirpabile di un bene vissuto nella propria famiglia, un bene del quale siamo grati e che vogliamo trasmettere alle future generazioni, per condividerlo con esse.
Dall’altra parte, questo bene sperimentato non ha impedito l’affermarsi di forme di convivenza diverse dal matrimonio. A questo occorre aggiungere un dato non meno significativo: questo processo è cominciato quando la stragrande maggioranza delle leggi nazionali europee sul matrimonio difendeva ancora la concezione tradizionale derivata dal cristianesimo. Tutta la protezione offerta dalle leggi non ha impedito il dilagare di una mentalità contraria al matrimonio, non è stata in grado di arrestare il cambiamento.
[…] La crisi della famiglia è una conseguenza della crisi antropologica nella quale ci troviamo. Gli sposi, infatti, sono due soggetti umani, un io e un tu, un uomo e una donna, che decidono di camminare insieme verso il destino, verso la felicità. Come impostano e concepiscono il loro rapporto dipende dall’immagine che ciascuno si fa della propria vita, della realizzazione di sé. Ciò implica una concezione dell’uomo e del suo mistero. […]
In effetti, il mistero eterno del nostro essere ci viene rivelato in modo speciale dalla relazione con la persona amata. Nulla ci risveglia, nulla ci rende tanto consapevoli del desiderio di felicità che ci costituisce, quanto la persona amata. La sua presenza è un bene così grande che ci fa cogliere la profondità e la vera dimensione di questo desiderio: l’infinità. Ciò che Cesare Pavese dice del piacere si può applicare al rapporto amoroso: «Quello che l’uomo cerca nel piacere è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questa infinità». Un io e un tu limitati suscitano l’uno nell’altro un desiderio infinito, si scoprono lanciati dal loro amore verso un destino infinito. In questa esperienza si rivela a entrambi la propria vocazione. Sentono la necessità l’uno dell’altra per non restare paralizzati nel proprio limite, senza altra prospettiva che la noia della solitudine.
[…] Se non comprende questa dinamica, l’uomo cade nell’errore di fermarsi alla realtà che ha suscitato il desiderio. Come se una donna che ricevesse un mazzo di fiori, rapita dalla loro bellezza, si dimenticasse del volto di chi glieli ha mandati e del quale sono segno, perdendo così il meglio che i fiori recavano. Non riconoscere all’altro il suo carattere di segno conduce inevitabilmente a ridurlo a ciò che appare ai nostri occhi. E prima o poi l’altro si manifesta incapace di rispondere al desiderio che ha suscitato. […]
Solo nell’orizzonte di un amore più grande si può evitare di consumarsi nella pretesa, carica di violenza, che l’altro - un essere limitato - risponda al desiderio infinito che desta, rendendo così impossibile il compimento di sé e della persona amata.


ANCHE IN POLITICA L’ALTRO È UN BENE
(Dal capitolo 16, pp. 313-315)

Se non trova posto in noi l’esperienza elementare che l’altro è un bene, non un ostacolo, per la pienezza del nostro io, nella politica come nei rapporti umani e sociali, sarà difficile uscire dalla situazione in cui ci troviamo.
Riconoscere l’altro è la vera vittoria per ciascuno e per tutti. […]
In che modo la vita della Chiesa può contribuire a misurarsi con l’attuale situazione italiana? Non credo intervenendo nell’agone politico come una delle tante parti e delle tante opinioni in competizione. Il contributo della Chiesa è molto più radicale. Se la consistenza di coloro che servono questa grande opera che è la politica è riposta solo nella politica, non c’è molto da sperare. In mancanza di un altro punto d’appoggio, si afferreranno per forza alla politica e al potere personale e, nel caso specifico, punteranno sullo scontro come unica possibilità di sopravvivenza. Ma la politica non basta a se stessa. Mai come in questo momento risulta così evidente.
Nella sua povertà di realtà piena di limiti, la Chiesa continua a offrire agli uomini, proprio in questi giorni, l’unico vero contributo, quello per cui essa esiste - e papa Francesco lo ricorda di continuo -: l’annuncio e l’esperienza di Cristo risorto. È Lui l’unico in grado di rispondere esaurientemente alle attese del cuore dell’uomo, fino al punto di rendere un Papa libero di rinunciare per il bene del suo popolo.
Senza una reale esperienza di positività, in grado di abbracciare tutto e tutti, non è possibile ripartire. Questa è la testimonianza che tutti i cristiani, a cominciare da chi è più impegnato in politica, sono chiamati a dare, insieme a ogni uomo di buona volontà, come contributo per sbloccare la situazione: affermare il valore dell’altro e il bene comune al di sopra di qualsiasi interesse partitico.