La presentazione de "La Bellezza disarmata" a Milano <br>(foto di Pino Franchino).

L'attrattiva per la libertà

Un dibattito a viso aperto. Meglio, un incontro. Ecco cosa è accaduto sul palco dell'Auditorium di Milano alla prima de "La bellezza disarmata" di Julián Carrón. Con lui, a dialogare, Gianni Riotta, Luciano Fontana e il sindaco Pisapia
Davide Perillo

«Allora, quello che vorrei chiedere a don Carrón è una cosa molto semplice: che cosa è questa “bellezza disarmata”, questa verità capace di imporsi per la sola forza del suo fascino?». Ecco, in fondo è attorno a questa domanda di Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, che ruota la serata. Millleduecento persone in sala all’Auditorium di Milano, comprese personalità varie (compreso il sindaco Giuliano Pisapia), altre migliaia a seguire lo streaming (stavolta anche su Corriere.it). Tutto per l’esordio in società de La bellezza disarmata (Rizzoli), «non il primo libro scritto da don Julián Carrón, ma il primo pubblicato da quando è la guida di Comunione e Liberazione», ricorda Davide Prosperi, introducendo la presentazione milanese (ne seguiranno altre a Palermo e Roma, poi in tutta Italia).

«È una sintesi del percorso fatto in questi anni», ricorda il vicepresidente della Fraternità di CL: «Un percorso che ci ha aiutato a crescere. A diventare più consapevoli del dono che ci è stato fatto attraverso il carisma di don Giussani, perché comprendere le circostanze per cui Dio ci fa passare», rendersi conto del contesto in cui si vive, «è decisivo per capire la natura della testimonianza cristiana».

Prosperi parla di un libro coraggioso, «che si avventura in molti temi scottanti di oggi offrendo a tutti dei criteri» per giudicare e capire, «per rimettere a fuoco i fattori costitutivi dell’uomo». E la forza di questi criteri è che provengono non da un sistema di pensiero, ma da una ragione viva, messa alla prova nell’esperienza.

Pisapia porta un saluto «non istituzionale, perché non riesco a distinguere tra persona e istituzione». Il sindaco confessa di non aver ancora letto tutto il libro, ma di essere rimasto colpito da quella citazione di Cervantes che dà il titolo a un capitolo: «La libertà è il dono più prezioso che i cieli hanno fatto agli uomini». Ne parla come di una questione capitale, perché in questo contesto in cui serve sempre di più «coesione sociale e conoscenza reciproca», la libertà è un punto fondamentale da riscoprire per «arrivare allo stesso obiettivo da strade diverse».

Anche Luciano Fontana va a parare lì, sulla libertà. Ammette di aver seguito CL, come gran parte della stampa, «soprattutto per il profilo politico», ma di averla vista «trasformarsi fortemente in questi anni: ha recuperato la sua natura di comunità sempre meno legata alla politica e più presente come forza educativa e sociale. È un bene, e in questo libro si vede molto». Dice di essere colpito dal titolo («Lo trovo bellissimo»), cita san Tommaso e lo “splendore del vero” per cercare di capire «questa verità che non ha bisogno di forze esterne per imporsi, ma solo di un’attrattiva». E indica proprio nel «legame indissolubile tra verità e libertà» il «principio cardine» delle pagine di Carrón, che ripercorre sottolineando alcune parole-chiave.

I fondamenti, anzitutto: «Perché siamo assediati da anni dalla parola “crisi”, è il nostro pane quotidiano: ma la natura della crisi è nell’aver smarrito questi fondamenti». Poi, il crollo delle evidenze, quello smarrimento che porta persino «ad aver paura di fare figli» (come ricorda una lettera riportata nel libro, che il direttore del Corriere cita). Richiama l’emergenza educativa, punto decisivo per capire che sfide abbiamo davanti. Sottolinea anche la parola testimonianza: «È una delle parti che mi sono piaciute di più. Richiama ai primi cristiani. Indica un altro modo di interpretare la fede e di proporla. Occorre che i valori della propria fede siano vissuti in qualcuno perché possano essere visti e suscitare libertà».

Fontana cita Giovanni e Andrea, il «venite a vedere» di Gesù: «Ecco, lì non c’è bisogno di interpretare». Ma poi, appunto, pone una domanda all’autore, «da laico: cosa è, oggi, questa vita nuova di cui parla Carrón? Questa verità capace di imporsi per la sua sola bellezza? È un punto che vorrei capire fino in fondo. Come questo avvenimento può cambiare la nostra vita?».

Domanda che resta nell’aria anche durante l’intervento di Gianni Riotta, editorialista della Stampa. «È il libro più ambizioso che abbia letto negli ultimi anni», esordisce: «Va dritto ai temi che stanno agitando Stati, nazioni, istituzioni e persone». In fondo, tutte le vicende serie e gravi che vediamo affacciarsi sullo scenario internazionale, e che di solito si raccontano come «scontri di interessi», in realtà hanno dentro «una domanda su di sé: “Chi siamo? Chi sono io?”. Ecco, questo libro porta a farci questa domanda». E lo fa in un contesto in cui la risposta dominante, in vari modi, è: nulla. L’unica proposta è il nichilismo. Anche in salsa snob. Riotta cita Carlo Sini: «“La verità è una signora decisamente invecchiata”, dice il filosofo. Ma allora perché un giovane dovrebbe cercarla?».

Così, in questo «Occidente che ha chiuso la macchina dei sogni», che non parla neanche più di un «Dio morto», come negli anni Settanta, ma al massimo di un «Dio smarrito» («Ce l’hai tu? No, ma non ce l’avevi tu?», ironizza - ma non troppo - Riotta), Carrón pone le domande che dovremmo farci tutti: «Perché ci siamo infilati in questo cul de sac? E soprattutto, come ne possiamo uscire?». E le pone «con un approccio umile nell’accostamento alla verità. Questo mi è piaciuto molto». Una proposta con cui fare i conti, insomma.

L’autore parte proprio da lì, dal motivo che è all’origine del libro: «Il desiderio di condividere il percorso fatto». Che è un percorso «mai pensato a tavolino», ma nato man mano «dal tentativo di rispondere alle sfide che ci trovavamo davanti nel cammino». E la prima sfida è «il cambiamento epocale di cui si è parlato anche stasera: la crisi dei fondamenti».

Per ripercorrere l’essenziale del percorso, anche la guida di CL sceglie il filo rosso della libertà. Cita Ratzinger, appena ripreso da papa Francesco nell’apertura del Sinodo sulla famiglia: «Ora che abbiamo pienamente assaporato le promesse della libertà illimitata, cominciamo a capire di nuovo l’espressione “tristezza di questo mondo”. I piaceri proibiti hanno perso la loro attrattiva appena hanno cessato di essere proibiti. Anche se vengono spinti all’estremo risultano insipidi perché sono cose finite, e noi, invece, abbiamo sete di infinito». Ecco, osserva Carrón, «per molto tempo abbiamo creduto che essere liberi significasse affrancarsi da legami». Così la signora di cui parlava Sini «è invecchiata, ha perso il suo fascino».

Per questo la domanda capitale è: in questa situazione c’è qualcosa in grado di attirare la libertà fino al punto di farla aderire? «Se è tutto uguale, se una cosa vale l’altra, perché dovremmo scegliere? La fabbrica dei sogni è chiusa, diceva Riotta. Ma se la libertà non torna attraente, e l’uomo resta paralizzato, cosa succede nella vita?».

Carrón cita Antonio Polito e la sua intervista a Tracce di ottobre, il rischio - concretissimo - che l’Occidente «abbia paura della libertà». Parla della «mortale passività» registrata da Hannah Arendt, che pone un grande problema educativo e non è affatto innocua: «La noia, se non trova risposta, finisce in violenza, come la realtà ci documenta». Soprattutto, però, torna su una questione di fondo: «Facciamo fatica a renderci conto della portata del nostro bisogno». E cerchiamo di rispondere moltiplicando le regole, i paletti. «Ma tutto questo non basta». Occorre trovare risposte nuove.

È questo il punto. Ed è questo anche il «grande vantaggio che abbiamo», dice Carrón: «Non possiamo vivere di rendite». Anche rispetto alla grandezza della tradizione, a «tutta la ricchezza del passato: dobbiamo accettare le sfide di oggi per riconquistarla». È una questione che tocca tutti, non solo i cristiani. «Ma per noi è un’occasione stupenda per evitare di ridurci ad adorare le ceneri, come ci ha richiamato il Papa il 7 marzo». Fino all’affondo, personalissimo e decisivo: «Quello che mi ha salvato la vita è che a un certo punto ho accettato di reimparare quello che pensavo di sapere».

E la domanda del direttore del Corriere? «Solo rischiando la verifica della fede davanti alle sfide del vivere possiamo testimoniare nella vita se c’è davvero quel fascino che può risvegliare la libertà. È questo il tentativo che sta sotto il titolo. Alla domanda che faceva Fontana non si risponde con un discorso: solo una vita può rispondere. Il libro è un inizio».

Chiusura affidata a Prosperi. Che ringrazia, perché «stasera si è visto che è ancora possibile avventurarsi con uno sguardo lucido e libero nei problemi in cui si agita l’uomo. C’è bisogno di questa libertà razionale, come voglia di giudicare tutto. L’alternativa, abbiamo visto, è la rassegnazione, il nichilismo». Per questo vale la pena «insistere sull’unico percorso ragionevole, anche se arduo: l’educazione».

E da cosa potremo riconoscere, nel tempo, se questa bellezza disarmata riconquisterà spazio e cuori, se il suo fascino risponde davvero alle sfide? «Lo vedremo anzitutto in noi. Se accade in noi quell’esperienza strana che si chiama letizia». Che è «come il fiore del cactus di cui parlava don Giussani: spunta da una pianta piena di spine, ma genera una cosa infinitamente bella».