Il collegamento con il Kenya durante l'incontro.

I profughi e la strada verso casa nostra

Un pezzo di cammino fatto insieme e che continua. Ong, società civile, Chiesa, impresa… A Milano, l'incontro sulla Campagna Tende di quest'anno. Il «sì» al futuro nelle testimonianze di chi vive nei Paesi in guerra e di chi si coinvolge da qui
Paolo Perego

«Vi abbiamo invitato qui per farvi conoscere la strada che porta a casa nostra. Per provare a sfondare con voi queste pareti e portarvi nel mondo». Introduce così Giampaolo Silvestri, segretario generale di Avsi, quello che sulla carta sarebbe dovuto essere un incontro informale per fare il punto su #profughienoi, la campagna “tende” - come chiamano nella ong le annuali raccolte di fondi per sostenere i progetti - 2015/2016, dedicata a chi, in tutto il mondo, ha dovuto abbandonare la propria terra. E per rilanciarla. Quello che ne è venuto fuori, invece, è stato un momento carico di interesse e quasi commozione, per la densità e le sfide che ha riaperto.

«I dati del 2015 parlano di oltre 60 milioni di profughi nel mondo», spiega il segretario di Avsi che oggi raggiunge 2,5 milioni di persone in 30 Paesi: «Non siamo in un’epoca di cambiamento, ma in un cambiamento d’epoca che chiede un presa di posizione per affrontare i prossimi decenni».

Così, davanti a un maxischermo su cui si alternano collegamenti in diretta da Sud Sudan, Kenya, Siria e Libano, si trovano a dialogare rappresentanti di mondi diversissimi tra loro, ma ugualmente sfidati da un’emergenza mondiale. Dal sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, al presidente Caritas, monsignor Luigi Bressan, da Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, a Marina Salamon, imprenditrice e presidente Doxa. In mezzo, quattro testimonianze, brevi, ma tali da lasciare la sala in silenzio.

Come quella di Maria Gaudenzi, da Torit, Sud Sudan: «Il Paese più giovane del mondo, coi suoi quattro anni, vittima da due del riaccendersi delle ostilità della guerra civile». La gente è scappata nei Paesi vicini, abbandonando le campagne, e anche dall’estero i pochi prodotti che arrivano costano troppo: «L’Onu ha preannunciato per il 2016 una carestia che colpirà 4 milioni di persone». Che aiuto si può dare? «Operiamo nell’educazione, per permettere la scolarizzazione. E abbiamo dei progetti, con un centro nutrizionale, dedicato alle donne in allattamento e in gravidanza».

Educazione chiave dello sviluppo, uno dei moods storici di Avsi. Anche in Kenya, come racconta Andrea Bianchessi da Nairobi, capitale di un Paese che accoglie oltre 600mila profughi dai Paesi confinanti, di cui quasi 400mila dalla Somalia, nel campo di Dadaab, aperto nel Nord Est nel 1992: «Immaginate anche generazioni di profughi nati lì, tra una cultura, per fare un esempio, che ancora discrimina le donne e la violenza, la povertà. O il terrorismo, che qui trova facile nascondiglio e ricca piazza per il reclutamento di nuove leve». A Dadaab Avsi ha costruito aule e classi, e ha formato sul posto insegnanti che ora seguono 60mila ragazzi, oltre a dar vita a 800 gruppi scout. «L’educazione, qui, diventa una risorsa anche per strappare i giovani al terrorismo. Partendo dal fatto che quella gente ha un valore: quasi tutti gli insegnanti formati sono musulmani».

Marco Perini si collega dal Libano, «la strada di mezzo», dice, dove il fenomeno profughi (palestinesi, siriani, iracheni), cominciato cinque anni fa, ha raggiunto dimensioni enormi: «Due milioni e mezzo, il 50% della popolazione. Come se in Italia ce ne fossero 30 milioni». Hanno perso quasi del tutto la speranza: «Rimane ancora il sogno di un barcone, o della fuga attraverso i Balcani». Fame, povertà, mancanza di scuole e servizi: «Noi cerchiamo di lavorare su quattro punti: quello dei bisogni, intanto, come cibo, vestiti; cerchiamo di far vivere una “normalità” ai bambini, attraverso la scuola o il gioco; e di ridare dignità ai padri, facendoli lavorare in qualche opera perché possano guadagnare due soldi per la famiglia; infine, bisogna anche aiutare gli uomini che non torneranno mai al loro lavoro, non solo i giovani, con corsi di formazione professionale. In tutto oggi riusciamo a seguire 65mila persone».

Oltre confine, a meno di cento chilometri in linea d’aria, Anton Barbu, romeno in forza ad Avsi da anni, saluta la sala da Damasco, Siria. È arrivato da pochi mesi, e l’altro giorno un razzo è esploso a centro metri da lui, mentre andava in ufficio: «Siamo una delle poche ong rimaste, in un Paese che su 16 milioni di abitanti ne ha avuti 4 milioni scappati. I restanti, per la maggior parte, sono sfollati. Oggi operiamo in un campo alla periferia della città, dove manca tutto: acqua, cibo. E scuole. Attraverso l’Onu, stiamo valutando interventi in altri due quartieri assediati dalla guerra».

È il sindaco di Milano a rompere il silenzio: «Cosa possiamo fare noi, qui? Ci sono tre livelli con cui si possono guardare queste emergenze. Non essere indifferenti, intanto, e tanti segnali in questo la città li ha sempre dati. Si può aiutare quella gente nel loro Paese: cosa giusta, ma serve anche il realismo di riconoscere le situazioni da cui quella gente scappa. E si possono aiutare i profughi nelle nostre città. La campagna Avsi coniuga tutto questo». E lo testimonia anche l’impegno dei partner Avsi in #profughienoi, intervenuti all’incontro: l’associazione Pro Terra Sancta, attiva in Medio Oriente, la Fondazione Arca, che si occupa di accoglienza in Italia, e la Caritas ambrosiana. È proprio il presidente Caritas, monsignor Bressan, a riprendere il tema dell’indifferenza: «Tra poco andremo a pranzo. Ma davanti a quanto visto, come dice il Papa, per stare tranquilli dovremmo andare per sottrazione. Mettere tutto in un angolo, dimenticarlo. Ma così perderemmo in umanità». Aderire a una campagna come questa «è una responsabilità verso il futuro, e serve partire proprio andando a toccare con mano i luoghi della debolezza, come il Papa che accarezza la pelle di un malato, e quello si sente amato proprio lì», dice ancora. Ma quella debolezza, «quella pelle», è un’occasione per noi, perché «la risposta che possiamo dare ci aiuti nella nostra umanità».

«Responsabilità verso il futuro: è qualcosa che riguarda anche una grande azienda come la nostra», chiosa Claudio Descalzi. Colpito dalle testimonianze, racconta di tante esperienze e scelte industriali, anche a discapito del profitto, nei Paesi dove Eni opera: l’investimento nel fornire energia a Nigeria e Libia, per esempio, fino a progetti di sviluppo agricolo o economico, collaborando, come a Lagos, con centri di ricerca e università, «creando “valore”, e riconoscimento per il proprio operato. Ma il punto cardine di tutto sta nella consapevolezza di quello che sta accadendo». Crisi geopolitiche, economiche, clima, migranti. «Non c’è “difesa” davanti alla disperazione di quella gente. Quando si è consapevoli non si può dire no, ma occorre un sì caritatevole verso il futuro».

Figlia di profughi istriani, Marina Salamon racconta di sé, dell’odio a cui mai è stata educata. Al contrario. Tanto da iniziare fin da subito, col primo stipendio, il suo sostegno ad Avsi: «Quella prima jeep per l’Africa dell’amico medico in missione», dice sottolineando la sua stima per la ong italiana «da italiana». Si può investire in progetti, anche per chi fa impresa. La Salamon cita l’esempio di Zuckerberg, neopapà e patron di Facebook, che cederebbe il 99% per cento delle sue azioni a una fondazione benefica per i bambini: «C’è chi maligna, ma io ci voglio credere. Ciò che facciamo, come imprenditori, è un privilegio: ci vengono affidati talenti perché siano ridistribuiti anche ad altri».

«Quello che abbiamo visto tra noi alimenta la speranza che possa riaccadere: che si crei un movimento, che si possa fare un pezzo di strada insieme», chiude Alda Vanoni, presidente di Avsi: «Ong, società civile, Chiesa, industria, impresa: questa potrebbe essere una via italiana allo sviluppo, una strada con uno sguardo al futuro». Lo raccontano oltre cinquecento iniziative messe in piedi in Italia e nel mondo a favore di #profughienoi: «Si raccolgono soldi, certo. Ma forse, e oggi lo abbiamo visto, si rende evidente un giudizio. Per questo, dico a tutti, non perdiamoci di vista».