«Chi siamo noi che accogliamo?»

Un primo bilancio del Network #ProfughiEnoi. La collaborazione tra vari centri di accoglienza, per affrontare la sfida di questa emergenza. Un progetto dove «un'amicizia è più efficace di qualunque strategia»
Giulia Bossi*

C’è chi accoglie da sempre e chi solo da qualche mese si trova invischiato nel dedalo di procedure che è il sistema di accoglienza italiano. Ci sono quanti con entusiasmo organizzano raccolte di indumenti, danno le loro case, organizzano corsi di italiano per i giovani stranieri, e quanti si trovano dubbiosi di fronte all’opportunità o meno di lasciarsi coinvolgere.

La sfida del Network Profughi, già il nome lo dice, è quella di fare rete: creare le condizioni perché chi ha fatto dell’accoglienza un mestiere si incontri con coloro che desiderano collaborare e mischiarsi con le storie e i percorsi di quanti arrivano con i barconi dall’Africa o lungo la via crucis balcanica.
Da Bolzano fino a Roma, per tre mesi li abbiamo incontrati: sotto l’egida dell’appello di papa Francesco, enti di accoglienza, responsabili di Famiglie per l’Accoglienza, Banco Farmaceutico, Avsi Point e rappresentanti della società civile sono stati radunati in tavoli di lavoro, per conoscere la realtà territoriale e sensibilizzare l’impegno di ciascuno a questo tema. Con due preoccupazioni: da una parte, che tutti gli sforzi siano tesi a sostenere il sistema istituzionale e gli attori con esso coinvolti; dall’altra, che, lungi da uno spirito di terzomondismo esasperato, tale proposta sia l’occasione per ciascuno di fare i conti con il cambiamento epocale che stiamo vivendo.
Siamo abituati da mesi a sentire parlare di chi arriva; ma chi siamo noi che accogliamo? Come ci poniamo di fronte a gente così diversa? Le difficoltà quotidiane che incontra chi si implica con tale fenomeno fanno emergere domande stringenti; diventa chiaro, nel confrontarci, che la sfida dell’accoglienza comporta innanzitutto per ciascuno la disponibilità a intraprendere un percorso personale e umano, di cui l’incontro con l’altro può costituire un tassello prezioso.

L’impressione che emerge dall’incontro con tanti che ormai chiamiamo “amici”, in tutta Italia, è quella di un popolo in movimento, che silenzioso e lontano dai riflettori opera con creatività e generosità per rispondere ai bisogni dei mendicanti d’oltremare. Il coinvolgimento (di volontari e non) spazia da iniziative singole di carità, come insegnare italiano qualche ora al mese, fino alla progettazione di percorsi più strutturati, condivisi da aziende ed enti del terzo settore per l’inserimento lavorativo dei giovani migranti.
Le esigenze degli enti di accoglienza, come si può immaginare, sono davvero tante e il tempo che offrono i volontari non basta mai; ma mi colpisce che il bisogno più diffuso è che si generino, attraverso attività proposte dagli addetti ai lavori, dei rapporti tra gli ospiti delle strutture e coloro che vivono nel territorio: perché il tempo che passano tra noi non sia una vita “surrogata”, ma si recuperi una dimensione totalmente umana del vivere ci vuole una trama - o una rete, appunto - di rapporti, che forse con il tempo si potrà chiamare amicizia, e che risulta essere ben più efficace di qualunque strategia di integrazione.

*Volontaria Avsi e collaboratrice del Network #ProfughiEnoi