Matteo Renzi con Monica Cirinnà in Parlamento.

Cirinnà: ma alla fine chi ha "vinto"?

Passata la versione "stralciata" del ddl che ha fatto discutere per mesi. Ma cosa dice di nuovo il testo approvato dal Senato? E quali dinamiche hanno portato al fallimento del primo disegno? Prova a rispondere una costituzionalista
Lorenza Violini*

Qualche primo commento sugli esiti del maxiemendamento del Governo conseguente al fallimento al ddl Cirinnà originario, fallimento dovuto soprattutto al rifiuto del Movimento 5 stelle di appoggiare tale progetto.

La scelta del Governo di riformulare il primo testo introduce qualche miglioramento nella normativa in corso di approvazione. Innanzitutto: il nuovo testo si apre con una definizione di “unione civile” , assente nel ddl originario e sancisce: «La presente legge istituisce l'unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione e reca la disciplina delle convivenze di fatto». Con tale definizione si introduce una differenziazione tra l’unione e il matrimonio, che invece ha come riferimento costituzionale l’articolo 29 della Costituzione.

Secondariamente, sempre nel nuovo testo si alleggeriscono i richiami (ossessivi) al matrimonio contenuti nel disegno di legge originale e si riorganizza la materia in modo più razionale e chiaro; invero, i molti richiami alla disciplina del matrimonio, che pure restano, sono meglio distribuiti per argomento e perdono la natura pervasiva che avevano nella precedente disciplina. Tra i fattori che possono contribuire a distinguere il matrimonio dall’unione va ricordato, come hanno fatto i media con grande clamore, il venir meno dell’obbligo di fedeltà che, oltre ad avere un tenue significato simbolico, conta in sede di separazione legale; in particolare, esso non rileva in sé ma solo se unito ad un’altra serie di comportamenti che provano essere diventato il vincolo insostenibile. Si tratta, pertanto, di un elemento di contorno della disciplina dell’unione (come del matrimonio, del resto) che può - ma solo marginalmente - confermare la differenza tra le due discipline.

Per questi due aspetti il testo nuovo è migliore della prima versione, anche dal punto di vista sistemico. In tal modo, infatti, il testo attuale vive di vita più autonoma rispetto al precedente, che era invece fortemente incentrato sulla riproposizione della normativa sul matrimonio, mentre fa emergere come criterio interpretativo per i casi dubbi (che certamente si porranno) quello che parte dalla specificità della fattispecie “unioni civili” e non da una automatica, quanto irriflessa, identificazione col (o parificazione al) matrimonio.

In sintesi, il nuovo progetto - approvato al Senato - pone le basi per identificare una linea di demarcazione tra i due casi (matrimonio da una parte e unione civile dall’altra), e consente pertanto di individuare qual è l’intenzione del legislatore, intenzione intesa in senso tecnico, cioè come criterio interpretativo vero e proprio, rilevante per il giudice che dovrà applicare la legge - e non solo una “intenzione” di tipo morale, priva di conseguenze giuridiche.


Stralcio della stepchild

Anche la scelta di stralciare la stepchild adoption, quanto mai opportuna, comporta diverse conseguenze sul piano della tecnica normativa. Inserendo tale forma di adozione nella normativa sulle unioni civili si accentuava, infatti, la similitudine con il matrimonio, con tutte le conseguenze che ne sarebbero potute emergere sul piano interpretativo e si creava anche una sorta di ambiguità rispetto all’adozione, che veniva vista come una sorta di “diritto al figlio”.

Nel distinguere tra le due fattispecie (unione civile e adozione) si tengono correttamente separate due fattispecie profondamente diverse. L’unione civile è un nuovo stato giuridico che riguarda la persona che entra a far parte di una coppia ma che resta uno stato personale (e non di coppia) fonte di diritti (e di corrispondenti doveri). La stepchild adoption riguarda, invece, un altro settore della vita dell’ordinamento, quello relativo alla filiazione adottiva. Si tratta di una normativa che si basa su principi molto diversi da quelli tipici dello status personae proprio del matrimonio (o unione civile). Nonostante quello che spesso di pensa, l’adozione non serve a dare un figlio a chi non ce l’ha, ma a dare un contesto familiare a chi ne sia privo; in particolare, non esiste nell’ordinamento il cosiddetto “diritto al figlio” (o “diritto a diventare genitore”), né potrebbe esistere fondandosi sulla disciplina dell’adozione, che vive di vita propria, profondamente diversa da quella inerente ai diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Nel primo caso infatti (adozione), i pubblici poteri compiono molti accertamenti per verificare la capacità (psicologica e anche finanziaria) della coppia di adottare, accertamenti che sarebbero impensabili nella logica dei diritti, i quali si basano su obblighi di astensione del potere pubblico rispetto alla sfera di libertà che il diritto protegge.


Una valutazione complessiva

Oltre a quanto detto, va ricordato che il progetto è fallito per i motivi politici detti sopra e, almeno contingentemente, non per altre forme di opposizione, che pure possono avere influito ma la cui influenza è molto difficile da dimostrare. Il progetto originario è stato fermato da una contingenza politica dall’apparenza casuale, che mostra - più di ogni altra - come le maggioranze parlamentari in questo momento siano mobili e non coincidono con gli schieramenti ideologici tradizionali né con la tradizionale distinzione tra maggioranza e opposizione.

Ciò comporta che, in presenza di questioni moralmente sensibili, alleanze strategiche devono o possono essere fatte indipendentemente dalle concezioni che certe forze politiche hanno e che per bloccare un progetto “immorale” si può ricorrere a qualunque mezzo? Ovviamente no e sarebbe miope dire, come si è sentito, che occorre ringraziare il Movimento 5 stelle.

Si può leggere invece questa paradossale situazione, che è nuova sul piano delle dinamiche istituzionali proprie della democrazia, come richiamo a guardare con un certo disincanto a guerre fatte per affermare principi. Si è rivelata cruciale, invece, la pressione costante di parte della maggioranza che sostiene il Governo a modificare il disegno di legge Cirinnà offrendo al Governo stesso, in un momento di difficoltà, la sponda per arrivare al risultato da molti voluto. In altre parole, è stato utile che vi siano state delle persone, dentro e fuori i partiti di maggioranza, che avevano fin dall’inizio puntato ad ottenere un livello di “compromesso” legislativo: questo ha aiutato a giungere al risultato che oggi pare ottenuto, un risultato minimale ma non insignificante.

Siamo in una fase in cui, forse, è più utile cercare di migliorare i processi di produzione normativa, senza aspettarsi dalla legge quello che essa non può più dare, cioè rispecchiare, in modo speculare, le proprie visioni moralmente connotate, come del resto fu il caso della legge 40 sulla fecondazione assistita.


Alcune riflessioni

Volendo trarre da questa vicenda politica contingente qualche spunto per un giudizio più ampio (forse anche di tipo “culturale”), va detto che il momento presente sembra all’insegna di una sorta di crollo degli steccati a tutti i livelli della vita politica e sociale o, forse - più radicalmente - del venir meno della logica che porta a interpretare il confronto tra diversi come contrapposizione ideologicamente connotata, tanto cara ai media, ai talk show e al populismo crescente. Essa fa sì che si eviti un approfondimento delle tematiche in discussione per fermarsi alla superficie, senza fare la fatica di scendere in profondità alla ricerca di punti comuni di incontro (sul piano del pensiero, ma soprattutto sul piano dell’esperienza concreta) quali sono i desideri ultimi del cuore umano, comuni a tutti, da dettagliare - ovviamente - anche rispetto all’esperienza e alla cultura degli interlocutori. Sarebbe interessante mettere in atto tentativi che documentino queste tensioni di ricerca e non fermarsi, anche noi, a pensare e ad agire come se le barriere ideologiche fossero reali e non frutto di un potere cui fa comodo dividere (ed imperare).

Rischiamo così di “annacquare” il messaggio cristiano e scendere a compromessi, morali o di semplice comunicazione del messaggio stesso? Non c’è momento storico né posizione culturale che siano esenti da questo rischio e anche da altri rischi. La verifica nell’esperienza e il tempo diranno se il mondo cattolico italiano ha “perso” di più giocando certe carte piuttosto che altre, posto che si possano fare questi bilanci (ultimamente strategici e non di sostanza).

Personalmente, mi pare di rilevare, per il contesto lavorativo in cui passo molto del mio tempo, che oggi - caduti gli steccati - siamo nel pieno di relazioni sociali completamente “liquefatte”, che si compongono e scompongono in modo così svariato da apparire totalmente casuali. Siccome occorre necessariamente entrare in queste relazioni (e, in un certo senso, è anche molto interessante farlo), è importante che tale accesso non sia dettato né da uno schema né da una “ragione” determinata dallo schieramento di appartenenza, ma unicamente dal tentativo (ironico, perché libero dal ricatto dei risultati) di cogliere gli attimi di verità che ciascuno non può esimersi dall’avere, e da questi partire per una costruzione i cui esiti si vedranno solo a distanza. Spesso, per esperienza diretta, mi pare di poter dire che la convinzione morale si comunichi meglio non per dialettica ma per osmosi, per uno sguardo che sia positivo verso l’interlocutore; o almeno questo è quello su cui - ultimamente ed esistenzialmente - puntare.


*docente di Diritto costituzionale all'Università degli Studi di Milano