Julian de la Morena

Tempo di imparare

PRIMO PIANO - JULIÁN DE LA MORENA
Alessandra Stoppa

La Chiesa «in uscita». Il Figliol prodigo. Gli «incontri impossibili». JULIÁN DE LA MORENA, responsabile di CL in America Latina, racconta cosa sta cambiando la sua vita e quella dei suoi amici

«La verità dell’America Latina è che Cristo c’è». Di schianto, è la prima cosa che don Julián de la Morena dice sul «Nuovo Mondo», così lo chiama, mentre si prepara a passare la Settimana Santa nel carcere femminile di Belo Horizonte. Spagnolo, vive in Sud America dal 2002. È missionario della Fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo e da sei anni guida le comunità di Comunione e Liberazione sparse in tutto il continente.
Il centro dei gesuiti dove si è svolta l’Assemblea responsabili del movimento, l’Espaço Anhanguera a San Paolo del Brasile, è uno dei posti in cui si radunava il Partito dei lavoratori dell’ex presidente brasiliano Lula, che passo a passo «ha lasciato Cristo per la lotta sociale». La coincidenza lo colpisce. «È la stessa alternativa, sempre, per la Chiesa e per ciascuno di noi».

Che cosa pensi guardando, oggi, l’America Latina?
Ci sono problemi molto grandi. C’è il narcotraffico, c’è la violenza, la crisi. Ma quello che vedo di più sono dei fatti che mostrano come Cristo continua ad essere presente. Come ha detto di recente il papa emerito Benedetto XVI:?«Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza».

Quali fatti vedi?
La cosa più importante è che papa Francesco è molto presente in Sudamerica. Lo è come Pastore universale. E sta iniziando, sta offrendo una pacificazione del continente. Meglio, lui è il cuore di una «conversione pastorale» della Chiesa in America Latina. Questa è la parola fondamentale: conversione pastorale.

Cosa significa?
È una conversione molto concreta e che provoca resistenze da parte di una certa mentalità tradizionalista. Anche nella stessa Chiesa, tra noi cattolici. Francesco non vuole identificare la proposta politica “più nemica o più amica”, elimina gli schemi e le categorie. Lui cerca l’essenziale della fede, con un desiderio forte di incontrare tutti, di creare un mondo nuovo, di pace. Apre dialoghi con uomini lontani, ideologicamente, dalla Chiesa. Prendiamo l’esempio dei sistemi economici: lui non si identifica nella guerra tra liberalisti e populisti. La Chiesa è un’altra cosa. Non è nata per cambiare i Governi. Allora, quello che vedo in Francesco è che sta puntando il nostro sguardo sul fatto che la Chiesa è nata perché Cristo sia di tutti. Cristo è di tutti.

In che senso «Cristo è di tutti»? E cosa ci sta chiedendo il Papa?
Cristo ha parlato a tutti. Ed è morto per tutti. Questo significa che c’è un seme nell’altro, un seme che noi dobbiamo imparare a conoscere e di cui abbiamo bisogno. Che cos’ha l’altro di buono per me? Il fatto che vedi in lui che Cristo lo cerca. Chiunque sia, qualunque cosa abbia fatto. Perché dovrei restare colpito e lasciarmi cambiare da uno che sta in carcere? Perché vedo un uomo cercato da Cristo. La redenzione è questa. Quello che ci è chiesto è di non “chiudere” l’Incarnazione, cioè Cristo che cerca l’altro. E questo può favorirlo solo una Chiesa in uscita, che comporta un cambiamento. La forza della “prima” Chiesa, della Chiesa degli inizi, è stata non rimanere a Gerusalemme. Avere chiaro che la propria missione era per tutto il mondo. Quegli uomini, quegli apostoli, che amavano il Portico di Salomone, potevano dire: rimaniamo a difendere Gerusalemme. Invece hanno detto: qui sono solo pietre. Nel primo secolo erano in Spagna. E di lì in India... La difesa è debole, perché chiude l’Incarnazione. Questa è la proposta del Papa. E anche del movimento.

Puoi fare degli esempi?
Mi è successo un fatto, l’altro giorno, che mi ha aiutato a capire. Ero sull’aereo tra il Sudamerica e l’Italia. Una hostess, che ha reincontrato il cristianesimo da poco tempo, in una pausa del suo lavoro mi ha detto: «Posso raccontarti il percorso di fede che sto facendo?». Siamo stati a parlare ed è stato il più bel viaggio che ho fatto in questi anni. Mentre quasi tutti gli altri passeggeri dormivano, ad undicimila metri sopra l’Oceano Atlantico, a 60 gradi sotto zero, quella voce, amica, ha avuto la forza di svegliarmi, dicendomi la cosa più grande del mondo, perché tutta definita dalla misericordia di Gesù. Questa è la Chiesa: una bella donna, fragile, non perfetta, come tutti, ma che accompagna gli uomini da un posto all’altro, offrendo un bicchiere d’acqua a chi lo chiede, e la cui vita porta una testimonianza: un punto fermo per il mondo, per l’uomo di oggi, che ha bisogno della misericordia ma che senza un incontro vivo dorme. Come avrei dormito anch’io, senza di lei.

E cosa hai capito di più?
Il mondo ferito siamo noi. Non sono gli “altri”. Noi, i nostri amici, le nostre famiglie, i nostri preti. Non c’è nessuno che non sia ferito. Per questo in Messico Francesco ha fatto testimoniare famiglie travagliate. È la testimonianza del Figliol prodigo. Ma noi rischiamo di essere i fratelli maggiori. Per questo ci viene paura se il Papa apre a tutti. Per questo, Julián Carrón insiste tanto - come nell’Assemblea che abbiamo vissuto in Brasile - sul fatto che dobbiamo imparare di nuovo cos’è il cristianesimo. La verità non l’apprendi con una formula precisa, ma la impari quando la individui in una circostanza, quando sai vederla in quello che accade. E l’unico luogo in cui s’impara la verità in tutto il suo valore è la misericordia. Non è una cosa che applichi, ma che arriva, che Dio ti dà. Se non attendi di imparare quello che già sapevi, non sperimenti la verità. Ed è evidente che questo deve accadere tutti i giorni.

Come si reimpara tutti i giorni?
Mi rendo conto che noi possiamo arrivare a fine giornata e dire: «Oggi è andata bene. È andata bene perché non ho avuto bisogno». Come se dicessimo: «Oggi, Gesù, puoi stare tranquillo con me, lavora per gli altri». Ma quel giorno in cui io non ho bisogno della misericordia, non ho bisogno di Te, Cristo. Abbiamo un patrimonio in banca per noi, la misericordia di Dio, e pensiamo di non averne bisogno. Non abbiamo ancora capito questa parola. La realtà che il mondo ci offre, in tutto, ci aiuta proprio in questo: ad andare fino in fondo al Mistero che Cristo è. Come ci ha insegnato Giussani: dopo che abbiamo tutto chiaro, Cristo è di più. È sempre di più.

Dici che il mondo ci aiuta a conoscere quello che ancora non sappiamo di Cristo?
Sì. Per questo il metodo è quello della Chiesa “in uscita”. È la nostra unica possibilità.

Questo come sta cambiando l’America Latina?
Il Nuovo Mondo sta diventando un luogo di incontri impossibili. Chi poteva pensare che Castro, un uomo che dice «Dio è l’oppio dei popoli», offrisse l’unico aeroporto comunista del Sudamerica per un incontro che dopo mille anni favorisce l’unità della Chiesa? L’unità, ovvero quella che sarebbe la testimonianza più grande di Cristo risorto! Al posto di favorire la divisione. Quindi, l’America Latina vive la sfida di mostrare, come dicevamo, qualcosa di Cristo che ancora la Chiesa non conosce. Questo avviene attraverso processi che si aprono, che iniziano. La Chiesa è il luogo dei processi. E ha scelto Cuba, un posto che è sempre stato un problema, guardandolo come possibilità. La pacificazione di Cuba significa pacificazione di tutto il continente, perché, se pur piccola, è strategica.

Qual è, quindi, la novità che la Chiesa sta portando in America Latina?
La pazienza nella storia. La pazienza che serve per risolvere un problema. La misericordia non è qualcosa che resta intimo, incide nella costruzione sociale: è pastorale. Lo sguardo di Gesù cambia il mondo, apre un dialogo tra due nemici (mentre parliamo Barack Obama è a Cuba; ndr.) e mostra che il problema non è accusare l’altro. Tutti noi siamo più sicuri se c’è qualcuno che è “cattivo”, ma questo non offre niente all’uomo perché possa cambiare. Mentre è evidente che la Chiesa, ben prima di Francesco, ha sempre lavorato per creare un ponte, in un mondo dove identifichiamo solo il limite, quello che manca. Questo non vuol dire che non ci sia il male, l’errore: la Chiesa non è ingenua, ma guarda all’uomo, non al “delitto”, perché per lei esiste una forza più grande, un valore più grande.

Come vedi l’esperienza del movimento in Sudamerica oggi?
Dove le persone fanno un lavoro sulla propria esperienza, diventano un faro, in ogni posto. Sono piccole luci in un continente immenso, ma sono stelle nella notte: ti orientano. Seguendo la posizione delle stelle nell’oscurità, posso camminare. È la vittoria di Cristo. Se penso ai nostri in Venezuela...

Nella grande crisi che vivono?
Sì. Soprattutto nei posti dove certi Governi sono più devastanti, il movimento si è salvato da una posizione reattiva. Gli amici del Venezuela hanno visto che c’era una possibilità più grande che essere contro il Governo. Due di loro - due professori universitari - mi raccontavano che non hanno più la possibilità di mangiare carne, pesce, eccetera, e sono tornati alle patate: «Dobbiamo essere creativi con le patate!», mi hanno detto. Questo mi commuove. Tu puoi passare la vita lamentandoti o diventando sempre più attento alla realtà per trovare soluzioni. C’è una signora, benestante, che si fa da sola la biancheria intima; amici che si danno l’un l’altro quello di cui hanno bisogno, togliendolo a sé; i più giovani che scoprono la caritativa, fino ad offrirsi per lavare la madre anziana di uno di loro. E poi vedo tanta sete. Di ogni parola chiedono, e vogliono capire, approfondire.

Cosa ti ha colpito delle presentazioni dell’edizione spagnola della biografia di don Giussani, in Argentina e in Paraguay?
La cosa per me più interessante è che ci sono nuovi lettori di Giussani, gente che non c’entra con il mondo della Chiesa, che ci offrono uno sguardo su di lui molto essenziale. Non incontrano la sua opera, i suoi argomenti, il suo pensiero. Ma la sua persona. Giussani è molto poco conosciuto qui, e chi lo conosce lo conosce come un buon ideologo. È come se uno leggesse il Vangelo, ma non pensasse mai a Cristo. La biografia è un’occasione per un incontro con la sua persona. Ed è la scoperta che il suo cammino è un aiuto all’uomo di oggi per essere se stesso. Un ospite ha detto: «È un grande esploratore del cuore umano, del mio cuore». Ed un altro: «Ah, ma il cristianesimo è questo?». Era così stupito. Non lo sapeva. Poi, è stato molto bello vedere come le comunità si sono coinvolte per realizzare questi incontri. Non avevo mai visto una mossa così. Anche tra i più giovani: per loro Giussani sarebbe un uomo del passato. Non potrebbe infiammare la vita. Invece no, è più vivo che mai: solo un’esperienza che accade, ora, ti fa desiderare e vivere così.