Terzo Settore: «Buona partenza, ma attenti ai decreti»

Dopo il Senato, toccherà alla Camera, in maggio, dire la sua sulla revisione della disciplina del non profit in Italia. Poi la palla passerà al Governo per l'attuazione. Ma cosa c'è sul piatto? E cosa si può attendere (e sperare) per il futuro?
Monica Poletto*

Il 30 Marzo scorso l'assemblea del Senato ha approvato il ddl di riforma del Terzo Settore. Il provvedimento dovrà tornare alla commissione Affari sociali della Camera e poi alla Camera, in maggio, per l'approvazione definitiva. Dal momento dell'approvazione, il Governo avrà dodici mesi per l'emanazione dei decreti che daranno attuazione alla riforma.

L'attuale disciplina del non profit in Italia ha tanti limiti. A fronte di un Codice Civile datato, che non prevede la possibilità per associazioni e fondazioni di esercitare attività di impresa, si sono succedute tante norme che disciplinano aspetti della vita degli enti, istituiscono particolari categorie di soggetti non profit - cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, organizzazioni di volontariato, organizzazioni non governative, associazioni sportive dilettantistiche, onlus - attribuiscono agevolazioni fiscali, stabiliscono adempimenti. Sono leggi mal coordinate tra loro, che condizionano la vita di soggetti che avrebbero invece un grandissimo bisogno di semplicità e di leggi chiare e uniformi.

Allo stesso tempo, le nostre disposizioni mal dialogano con l'impianto normativo Ue, che a fronte di un generale divieto di concorrenza prevede ampie deroghe per i soggetti che prestano servizi di interesse economico generale, conosciuti come i Sieg. E questa difficoltà di dialogo è balzata agli onori delle cronache in occasione dell'indagine della Commissione Europea sulle agevolazioni ICI agli enti ecclesiastici, considerate aiuti di Stato.

Questo impianto normativo non ha impedito al Terzo Settore di continuare a crescere, come dimostra il "Censimento delle organizzazioni non profit" presentato dall'Istat nel 2014. È un settore che genera occupazione, che interviene positivamente nel rispondere a bisogni nuovi e crescenti; in tanti casi le organizzazioni non profit costituiscono, in un contesto sociale sempre più parcellizzato, il punto aggregativo di intere comunità.

Dunque, per approcciare la riforma e tentarne un giudizio, a mio avviso è importante provare a capire se essa possa costituire il punto di partenza per una reale semplificazione, in modo che le energie positive presenti nella nostra società possano essere liberate e non ulteriormente incatenate. Con la giusta attenzione al fatto che di energie positive si tratti, e dunque con la previsione di controlli congrui, ma soprattutto efficaci. Purtroppo l'attuale mole di adempimenti di carattere puramente documentale a cui attualmente deve attenersi chiunque intraprenda - profit o non profit che sia - oltre ad essere dispendiosa è inefficace.

Il testo della riforma parte bene, indicando come proprio principio generale il «riconoscere, favorire e garantire il più ampio esercizio del diritto di associazione e il valore delle formazioni sociali liberamente costituite, ove si svolge la personalità dei singoli, quale strumento di promozione e di attuazione dei princìpi di partecipazione democratica, solidarietà, sussidiarietà e pluralismo, ai sensi degli articoli 2, 3, 18 e 118 della Costituzione».

Viene poi prevista una revisione del libro I del Codice Civile, relativo ad associazioni e fondazioni, con una semplificazione del procedimento di attribuzione della personalità giuridica e la previsione, per gli enti che esercitano stabilmente e prevalentemente attività di impresa, l'applicazione delle norme civilistiche relative alle società.

Il punto che, a mio avviso, dovrà essere trattato con molta attenzione in sede di stesura dei decreti è quello relativo alla disciplina degli enti del Terzo Settore. Infatti, non tutte le associazioni e le fondazioni saranno considerate enti del Terzo Settore, ma solo quelle che avranno alcune caratteristiche - sulla carta abbastanza invasive - e potranno pertanto accedere ad agevolazioni, soprattutto fiscali.

Il dato positivo è che viene esplicitato un principio ormai diventato parte del vissuto di molti: pur essendo soggetti privati svolgeranno attività di interesse generale. I decreti dovranno però definire «forme e modalità di organizzazione, amministrazione e controllo degli enti ispirate ai principi di democrazia, eguaglianza, pari opportunità, partecipazione degli associati e dei lavoratori nonché ai principi di efficacia, di efficienza, di trasparenza, di correttezza e di economicità della gestione degli enti, prevedendo strumenti idonei a garantire il rispetto dei diritti degli associati e dei lavoratori» al fine poter accedere alla qualifica di "Ente del Terzo Settore". Chiaramente basta poco, in sede di redazione dei decreti, per farsi scappare un po' la mano e stabilire criteri che inibiscono la libertà di azione e di espressione, con una delega così scritta.

Dunque è questo un punto su cui si dovrà essere molto attenti. Come si dovrà essere attenti sul fatto che l'attribuzione di qualifica di ente del Terzo Settore sia facoltativa. La libera iniziativa deve essere salvaguardata, qualsiasi forma voglia assumere, purché attuata per scopi e con modalità lecite. Pertanto, ogni ente deve poter decidere di stare fuori dal registro del Terzo Settore, evidentemente rinunciando alle relative agevolazioni. L'attuale stesura della norma lascia alcuni dubbi in proposito.

Un punto importante, seppur attenuato rispetto alla stesura originaria del testo, è la previsione di «criteri e modalità per la verifica dei risultati in termini di qualità e di efficacia delle prestazioni». A me sembra che qui stia la reale possibilità di controllo: che le azioni intraprese servano allo scopo dichiarato. L'utilità di valutare le proprie azioni, anche per la sanità della vita dell'opera, è una consapevolezza che tanti stanno maturando e il fatto che ne venga fatta esplicita previsione nella Legge è certamente un passo in avanti.

La riforma vede tra i suoi punti centrali il rilancio dell'impresa sociale, definita quale soggetto che svolge attività di impresa nell'ambito di attività di interesse generale e, in via prioritaria, non distribuisce utili. Viene prevista la possibilità di ampliare l'attuale elenco di attività previste per l'impresa sociale e la definizione di lavoratore svantaggiato, uniformandola a quella più ampia prevista dall'Unione Europea. Anche in questo caso non è chiaro quanto l'assunzione della qualifica di impresa sociale sia libera e, anche in questo caso, a mio avviso, è di fondamentale importanza che lo sia.

Per quanto riguarda la disciplina fiscale, è positivo che la definizione di ente non commerciale sia legata alle finalità perseguite dall'ente e non sia appiattita sulle attività svolte. Per intenderci, tra una pizzeria che vende pizze a domicilio e distribuisce gli utili conseguiti tra i propri soci e una pizzeria che ha quale scopo l'inserimento lavorativo di persone con disabilità e non distribuisce utili, la differenza non sta nell'attività: sempre di pizze si tratta. Ma le finalità sono diverse, e nel momento in cui le seconde vengano considerate di interesse generale, devono essere giustamente agevolate. È positiva anche la previsione di una razionalizzazione delle norme in materia di deducibilità delle erogazioni liberali, che attualmente sono spesso così complicate da disincentivare la donazione. Specialmente per quanto riguarda le donazioni in natura.

Per quanto riguarda le onlus, viene fatto solo un breve cenno in relazione alla necessità di migliorare la definizione di attività istituzionali e connesse. Per un fenomeno tanto importante, un accenno solo marginale. Questa veduta d'insieme del ddl mi porta a dire che molte cose possono ancora succedere. I decreti avranno un importante ruolo nel ridurre gli spazi di libertà o nell'ampliarli. Come avranno la possibilità di andare verso una reale semplificazione o introdurre ulteriori complicazioni.

Certamente c'è un problema di conoscenza puntuale del settore necessaria ad ogni semplificazione - sappiamo quanti danni abbiano provocato le semplificazioni attuate senza una conoscenza di tutti i fattori in gioco, in ogni campo; ma ancora di più c'è da fare una scelta di fondo e rispondere a questa domanda: ci si può fidare di questo impeto che porta le persone a intraprendere, a rispondere ai bisogni, a donare il proprio tempo per uno scopo più grande di sé? Certamente, verificando l'impatto sociale di quanto viene realizzato, legando le agevolazioni alla realizzazioni di impatti positivi.

Ma resta la domanda: ci si può fidare? Io credo che tutta la nostra storia e la straordinaria tenuta sociale che il nostro Paese ha dimostrato nell'attuale crisi, facciano dire di sì. Facciano guardare con stupore a questa capacità che ci appartiene come popolo di ricreare la comunità dal basso, e dal basso di rispondere ai bisogni. Speriamo che chi dovrà mettere mano ai decreti abbia negli occhi questa straordinaria ricchezza e abbia a cuore la sua valorizzazione, in dialogo con i suoi protagonisti.

*presidente CdO Opere Sociali