Si può ancora restare in "A"

Migliaia di iscritti in meno. I poli del Sud in crisi. La fuga di cervelli. Tutto qui il panorama degli Atenei italiani? Mentre gli studenti votano, fotografia di una realtà vitale per il Paese che ancora compete nel mondo. Ma che ha bisogno di aiuto
Paolo Perego

Atenei in subbuglio a maggio. Gli universitari da un lato, il 18 e 19 maggio, con elezioni dei vari organi accademici in alcune facoltà e con le votazioni per il Cnsu, l'organo formato da studenti e ricercatori di tutto il Paese chiamato a collaborare con il Ministero. E poi è periodo di "classifiche", quelle che finiscono sui giornali e che ogni polo universitario del mondo vorrebbe scalare, portando prestigio e blasoni a rettori e docenti. E a interi Paesi.

Per molti, questi ranking lasciano il tempo che trovano, ma, dati alla mano, la fotografia dell'università italiana di oggi mostra dettagli che non lasciano tranquilli.

In dieci anni la lista degli immatricolati ha perso migliaia di righe, soprattutto al Sud. Sempre più laureati scelgono l'estero, per dottorati o lavoro. «E, soprattutto, si è fatta una riforma, pur buona sotto alcuni aspetti, che dal 2008 ha tagliato molte risorse all'intero sistema, quasi il 12%», dice Stefano Paleari, ingegnere, 51 anni, ex rettore dell'Università di Bergamo e fino al settembre scorso guida della Crui, la conferenza dei rettori italiani. Oggi è tornato a insegnare e a fare ricerca nella sua materia, Analisi e sistemi finanziari. Con un occhio sempre attento alla salute dell'università italiana.

E se pure è vero che il ministro Stefania Giannini, poche settimane fa, ha anticipato un piano di interventi che prevede assunzioni e iniezioni di fondi per la ricerca (si parla di 2 miliardi e mezzo e seimila ricercatori in più in tre anni), rimane il quadro di una situazione piena di ombre: «Ben vengano interventi così. Non bastano le promesse e, se arriveranno, ne vedremo i risultati. Ma i problemi sono anche altri». E, scava scava, riguardano una concezione di università e, più in generale, «l'idea che abbiamo dei giovani e del futuro del Paese», commenta Paleari.

Così, oggi, l'allarme che suonava da tempo si è fatto assordante. Anche davanti ai parametri chiesti dall'Europa per far fronte alla crisi. Un esempio? L'obiettivo del 40% di laureati tra i 30 e i 35 anni, fermo a poco più del 23%; un valore che in Francia è più che doppio e che in Germania supera il 33%. Si può crescere? La realtà deve fare i conti con i sempre meno iscritti: nel 2014/15 erano 65mila in meno rispetto ai 335mila di dieci anni prima. Un dato ancora più significativo se incrociato con la percentuale di chi, finite le superiori, si presenta nelle segreterie per immatricolarsi: meno della metà dei diplomati, contro il 73% del 2004.

«Una curva discendente ancora più ripida al Sud», dice Paleari. Oltre 35mila dei non iscritti si registrano nel Meridione. Non c'è solo chi interrompe gli studi: molti preferiscono le università del Nord o del Centro Italia, con almeno un ragazzo su quattro che sceglie una sede lontana da casa.

«Con la riforma si sono migliorate molte cose in questi anni. Penso all'elezione dei rettori per un solo mandato, all'introduzione della valutazione degli atenei e della ricerca per non distribuire più i fondi a pioggia ma premiando chi lavora davvero. O l'introduzione del costo standard per studente. E l'università ha reagito bene».

La prova è nel fatto che la qualità dell'insegnamento e della ricerca rimane alta e stimata anche all'estero. Come ha indicato la Crui in un documento programmatico indirizzato al Governo, «l'Italia è all'ottavo posto tra i Paesi Ocse e davanti alla Cina per quantità e qualità di produzione scientifica». Tanti laureati italiani trovano facilmente sbocchi all'estero. In più, alcuni studi mostrano come le famose classifiche in cui l'Italia occupa posizioni molto basse, prendono un'altra fisionomia se rapportate alla spesa. Ovvero: «Facciamo bene, anche con poco. Che cosa accadrebbe se potessimo fare di più?». Ancora, se è vero che l'anno scorso all'estero c'erano poco meno di 50mila italiani, contano anche i quasi 80mila stranieri tra i nostri chiostri: «Rimaniamo, soprattutto su alcuni poli, un sistema di eccellenze che attrae. E collaboriamo senza complessi di inferiorità con i più grandi atenei del mondo. Tra pochi giorni partirà uno scambio di studenti tra la mia università e Harvard (che da sola riceve fondi equivalenti al 44% dell'intera spesa italiana per l'università, ndr.). Oppure, penso a un progetto avviato con l'Università Bicocca e quella del Surrey, in Inghilterra, per una scuola di Medicina internazionale», chiosa Paleari. E se "smontiamo" i 65mila immatricolati in meno in dieci anni, si vede chiaramente che sono quasi tutti concentrati nelle aree umanistiche e sociali. L'area scientifica mediamente, ha aumentato gli iscritti, dal 6% di Ingegneria all'oltre 46% di Chimica. Insomma, ombre sì, ma anche molte luci.

Eppure l'allarme rimane. Come siamo arrivati fin qui? «Certo ci sono più fattori. Compresi il calo demografico e la crisi economica coi suoi effetti sul reddito delle famiglie che non possono permettersi di far studiare i figli. Ma ci sono anche delle colpe, soprattutto alle voci "diritto allo studio" e "ricerca". E questo riguarda l'idea di università che il nostro Paese porta avanti», aggiunge, indicando gli 800 milioni in meno destinati ai fondi per l'università dal Governo negli ultimi otto anni: «Non pochi, rispetto ai 7 miliardi che arrivano dallo Stato. Anche qui, i numeri. In Italia circa il 20% degli aventi diritto non percepisce una borsa di studio. E, ancora una volta, al Sud, dove i redditi sono fisiologicamente più bassi, le percentuali aumentano, sfiorando il 50%. E i ricercatori? Diminuiti, con un turnover che vede 5-6 nuovi entrati ogni dieci professori che chiudono la carriera, con pensioni che sono molto più alte di quanto un "nuovo" può aspirare a guadagnare in futuro. Questo è guardare ai giovani?».

Oggi l'Italia investe per l'università circa 110 euro per abitante. Meno dell'Inghilterra, che pur fa pagare 9mila euro l'istruzione universitaria. E molto meno di Francia e Germania, che spendono tre volte tanto: «Tutto questo spiega anche perché tanti cercano occasioni migliori andando all'estero dopo la laurea, magari. Noi li formiamo e poi li lasciamo andare via...».

Quello che sta accadendo chiama in causa anche la responsabilità degli studenti che oggi si avvicinano alle urne: «Non è inutile. Nei miei anni alla Crui abbiamo lavorato molto con loro. Certa stampa ha perfino titolato sensazionalmente sul fatto che rettori e studenti avessero interessi comuni. Ma questo è normale. Si costruisce la stessa cosa». Basta leggere poche righe del rapporto sulla condizione degli universitari redatto dal Cnsu l'anno scorso, dove si parla di «scarsi finanziamenti» e di una visione politica tutta volta a guardare il «costo del presente» e non l'«investimento sul futuro».

«Insomma, la questione a mio avviso è molto chiara. Siamo in serie A e per rimanerci, se mi è concesso un paragone calcistico, occorre un budget adeguato. Ma come detto, dipende anche dall'idea di università che si vuole perseguire», spiega ancora l'ex rettore: «In Russia, Putin ha come obiettivo fare entrare almeno cinque atenei tra i primi cento al mondo entro il 2020. Si può decidere di investire tutto su quello. Puntare solo sulle eccellenze, lasciando a piedi gli altri. Ma così si rischia un danno enorme sul futuro dei giovani e del Paese. Invece, credo che per l'università valga, da ingegnere, il paragone con i treni ad alta velocità. Dici: "Da Milano a Roma in tre ore". Ma per chi la fai? Solo per chi viaggia in business class? No, c'è anche la seconda classe, e dai a tutti la possibilità di arrivare a Roma in tre ore. E tutti ci guadagnano». Così per gli atenei: «Non basta portare in palmo di mano i "migliori". È necessario, per il Paese, che anche gli altri funzionino bene». Serve una politica diversa, dice ancora Paleari, che guardi ai giovani e valorizzi, come da Costituzione, i capaci e meritevoli: «Se i 500 euro ai diciottenni fossero stati investiti per il diritto allo studio? Io credo che sia necessario iniziare a guardare ai giovani come un motore per il Paese. Un motore da riavviare, insieme a quello della produzione industriale che in dieci anni è calata del 25% senza che nessuno battesse ciglio. E le due cose vanno di pari passo. L'unica questione, ora, è che chi governa non metta cerotti, ma guardi seriamente al futuro».