Il segreto del fiore

I diritti umani e l’errore dell’Illuminismo. La paura di perdere e la sfiducia nel dare. L’antropologo spagnolo Mikel Azurmendi guarda la crisi dell’Unione e spiega cosa c’è da imparare dai «maestri giardinieri» (da Tracce, giugno 2016)
Fernando de Haro

Mikel Azurmendi è una rara avis: antropologo laico, nel mirino delle forze terroriste dell’Eta, in prima linea contro il nazionalismo xenofobo, ha studiato a fondo il fenomeno dell’immigrazione in Francia e in Spagna. Una delle menti più lucide del panorama intellettuale spagnolo, conserva una capacità di sorprendere e una freschezza rare a incontrarsi.
In questa conversazione con Tracce si sofferma sui tratti del momento che l’Europa sta attraversando: l’«esaurirsi del progetto illuminista», la sfida dello jihadismo, la crisi dei rifugiati, il valore pubblico dell’esperienza religiosa. E, naturalmente, l’intervento di papa Francesco alla consegna del Premio Carlo Magno, con quella domanda che vista ora, dopo il referendum che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, pesa ancora di più: «Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà?».

Quali echi suscita in lei questa domanda?
È risuonata ai miei orecchi come un lamento profetico. Questa Europa, che si è gravemente mutilata da sola in due successive Guerre mondiali, mostra ovunque sintomi inquietanti di nazionalismo, relativismo e nichilismo che fanno considerare con timore la possibilità che possa verificarsi qualche nuova catastrofe. È come se questi nostri valori fossero solamente un guscio che non contiene più una vita, una vita buona, quella che si ottiene donandosi agli altri. Ciò che è europeo lo vogliamo solo per noi. L’Europa, ormai, non è più capace di infondere la vita a se stessa, perché non sa infonderla agli altri; non lo ha saputo fare nella guerra dei Balcani, né tantomeno in quella ucraina. E ora sembra non farsi nemmeno scalfire dall’esplosiva situazione umanitaria in Siria e Iraq. Sì, povera Europa, sembra dire il Papa in maniera molto simile a quel lucido lamento intellettuale di Stefan Zweig ne Il mondo di ieri.

A me pare che molto di questa crisi sia legato a quello che lei, tempo fa, ha definito: «L’esaurirsi del progetto illuminista». Negli ultimi due secoli e mezzo, abbiamo lottato per mantenere viva una serie di valori e siamo giunti alla conclusione che la tutela dei diritti è ciò che può rendere stabile la nostra convivenza. Ma lei ritiene che sia insufficiente: perché?
I diritti umani sono una cosa buona, anche se sono arrivati troppo tardi (1948) e sono stati spiegati molto male. Ma l’elasticità con cui sono concepiti è tale che ci sta portando a reclamare diritti in nome dei nostri desideri. È sempre più chiaro che quello dei “diritti umani” è un concetto creato per effettuare un’operazione di cosmesi a molti dei nostri sensi di vergogna umana dopo le due Guerre mondiali, per far passare attraverso il lavacro della compassione i nostri desideri e ritrovarli purificati. Tuttavia questa invenzione giuridica, così contemporanea, si fonda esclusivamente su un concetto, ovvero che l’autonomia del soggetto debba essere sempre più messa in primo piano: l’individuo è un’isola difesa da ogni lato, ed è una gran fortuna che intorno ci sia solo il mare! Credere nei diritti è un modo semplice per chiedere di essere lasciato in pace: io non ce l’ho con nessuno, e nessuno ce l’abbia con me. Nello stesso tempo è un modo di esigere dallo Stato ciò di cui ho voglia, sempre che mi convenga. Anche se vengono camuffati sotto una certa apparenza di legge naturale, o come misteriosa emanazione dell’essere umano, i diritti si godono solamente quando sono garantiti da uno Stato di diritto. A che giova la finzione di dire che sono universali, se nessuno Stato di diritto interverrà in Iraq o in Siria, in Nigeria, in Pakistan per difendere le migliaia di persone i cui diritti sono ogni giorno calpestati? Questa dei “diritti” è l’ennesima, l’ultima espressione dell’esaurirsi del progetto illuminista, che ha separato le regole morali dai principi metafisici da cui derivano. Da allora in poi, difendiamo le nostre regole morali a partire dal punto che ciascuno ritiene valido: dai propri desideri o dai propri sentimenti personali, o dai valori che ciascuno ha scelto come validi per sé.

Una delle fonti dello sconcerto con cui noi europei ci troviamo a fare i conti è lo jihadismo nato nei nostri Paesi. Lei ha studiato a fondo il problema dell’integrazione in Francia e in Spagna. Che rapporto c’è fra questo jihadismo e la mancanza di integrazione? Olivier Roy ha sostenuto che si tratta di un nichilismo tipico dei migranti di seconda generazione. È d’accordo?
È un fatto che la seconda e terza generazione di immigrati in Francia e Belgio - in particolare maghrebini e turchi - chiedono allo Stato ciò che i loro padri non hanno mai chiesto, pieni com’erano di riconoscenza verso il Paese che li aveva accolti. I figli hanno imparato a chiedere diritti, giustamente, dove i padri chiedevano solo lavoro e un trattamento dignitoso. Perché non cercano di uscire tutti dalle Zup, le Zone prioritarie di urbanizzazione, e dai grandi quartieri suburbani? Rimangono lì per stare di più in famiglia e all’interno di una comunità culturale, e per risparmiare. Ma le conseguenze le pagano i loro figli. In primo luogo a scuola, perché non seguono il percorso scolare con la regolarità degli altri, e poi sul lavoro, per una certa diffidenza europea ad accettare l’uguaglianza di condizioni e carriera sul posto di lavoro. Molti di questi giovani dei sobborghi dubitano a ragione dei cosiddetti “diritti umani”, e molti altri si abbandonano a cercare una vita facile e finiscono col delinquere. Sembra che i jihadisti di seconda o terza generazione di immigrati musulmani si trovino in questo ambiente della delinquenza, nelle carceri o nei sobborghi, o del “dolce far niente” o dello spaccio. Olivier Roy è giunto a formulare l’ipotesi che il perno dello jihadismo non è la radicalizzazione dell’islam, ma l’islamizzazione del radicalismo: un radicalismo giovanile non integrato nel nostro sistema, che finisce per volgersi verso l’islamismo, radicalizzandolo. Roy ha certamente ragione, ma la questione è perché finiscono proprio nel jihad e non in una qualsiasi mafia, o non diventano rasta o sufi o che so io. A me sembra che diventino jihadisti perché vi è un fattore culturale preliminare e incontestabile, che è l’islamizzazione della cultura musulmana, ossia una ideologizzazione a livello mondiale che viene prima.

E come si può rispondere a questo?
Il nichilismo di cui parla Roy riferendosi ai francesi o belgi immigrati di seconda o terza generazione non integrati socialmente mi pare complementare al volontarismo dei diritti umani degli europei ben integrati nella buona società. Il nichilista rompe la trattativa che il volontarista si è inventato. Né l’uno né l’altro credono in questa trattativa. Ma una cosa è certa: essa non servirà per combattere il jihad. Avremo bisogno di un’altra arma morale che nasca dalla convinzione fornitaci da alcuni valori inalienabili e positivi che prendano forma in pratiche di vita buona. Vedremo.

L’integrazione ci porta a riconsiderare la questione del significato. Vi è un modo di concepire la società che privatizza le domande sul senso della vita, sulla morte o sulla ragione ultima per stare insieme. Ma è evidente che l’immagine di una società secolarista è un’illusione. Il fattore del significato - senza rinunciare alla grande conquista della separazione tra Chiesa e Stato - può essere una risorsa per migliorare la democrazia delle società plurali? Può aiutare a superare il fallimento di alcune formule multiculturaliste?
Anch’io credo che la laicità (quella francese per antonomasia, che fissa per le persone i valori della République) si sia costruita a partire da quell’errore iniziale dell’Illuminismo europeo che separò l’ambito privato da quello pubblico e tolse valore alle argomentazioni che valevano per giustificare il bene di un singolo rispetto a quelle che potessero valere per il bene di un Paese nel suo complesso. Per il singolo aveva valore ciò che egli decideva per sé; il bene comune, al contrario, si doveva reggere su principi di efficienza organizzativa e gestionale. L’etica non ha nulla a che fare con l’amministrazione pubblica, cioè con la politica; qui sta il fondamento della laicità. Credo che il recente Manifesto per una Primavera della Repubblica (presentato il 20 marzo 2016, ndr.), al quale hanno aderito centinaia di intellettuali francesi di sinistra, sbagli quando indica che il male principale della Francia proviene dalla «irruzione del fatto religioso nella scuola». Ed anche quando rivendica che il dibattito sui valori del buon vivere debba essere escluso dalla scuola pubblica. Sbaglia ancora quando implicitamente sostiene che il bene comune non ha niente a che vedere con il bene personale. Io difendo a spada tratta la democrazia, e vedo che solo da essa sarà possibile porre una critica ragionevole del nostro attuale ethos. Non si possono aprire le scuole al mercatino delle religioni, ma si possono aprire alla religione, a quel fatto culturale ineliminabile che ci ha fatto essere ciò che siamo e ci ha fatto riconoscere gli errori fatti e come sia possibile rimediarvi. Guai se non si potesse indagare sin da bambini sul senso della vita anche solo a partire dalla nostra letteratura occidentale, cominciando da Omero ed Esiodo e proseguendo con la Bibbia e il Gilgamesh! Come sarebbe ricca la formazione dei bambini se leggessero i romanzi o i testi teatrali considerando la presenza dell’altro nella nostra vita, l’esistenza di un prossimo che ti guarda e ti chiede «non uccidermi», come diceva Lévinas.

Quale crede sia l’origine dell’atteggiamento ondivago dell’Europa di fronte all’arrivo dei rifugiati?
Non lo so, forse la paura. La paura di perdere ciò che possediamo, la nostra sfiducia nel dare, lo scetticismo verso la carità. Non pensiamo più che la vita che abbiamo è puro dono. Oggi non facciamo più figli, come possiamo accogliere in casa degli stranieri che non hanno niente? Io sono stato un rifugiato politico in Francia, dal 1967 al ’76. Devo tutto ai miei genitori e ai miei maestri, ma senza l’accoglienza della Francia non sarei quello che sono. Mi diede un lavoro e la possibilità di andare all’università. Mi diede amici e libertà. Ho potuto viaggiare liberamente, pensare, scrivere. Mio figlio è nato a Parigi. Un rifugiato politico iracheno, siriano o di un altro Paese è uno come me, e ha figli come li ho io. La nostra comunità civile non si è ancora resa conto che vive di un dono, in un banchetto che non ha meritato.

Nel dibattiti pubblici, si ha la sensazione che il progetto comune sia stato sostituito da un tecnicismo economico.
È così. La tecnolatria mattutina dell’economista di turno o del sociologo di guardia, li fa sprizzare gioia all’idea di poter inondare le reti. Si sentono tante cose stupide. Del resto, quando ci muore un figlio impazziamo, perché non sappiamo cosa significa morire. Ma quando vengono rasi al suolo interi Paesi del Terzo Mondo, con i bambini e le loro madri dissanguati, giochiamo in Borsa o scriviamo articoli pieni di tabelle... Perché non sappiamo cosa significa vivere.

Lei ha dichiarato che «l’Europa ha bisogno di chiamare di nuovo il giardiniere perché possiamo recuperare il segreto di quel fiore». Può spiegare cosa intende?
Una volta, un intervistatore volle sapere che cosa pensassi io della Chiesa, la cui azione era stata così utile perché la nostra civiltà giungesse a un certo livello di autocoscienza. Una volta che il suo messaggio fosse stato recepito, avrebbe dovuto essere eliminata? Riconosco che gli risposi in maniera piuttosto criptica. Dissi più o meno che se un giardiniere creasse una specie di fiore meravigliosa e la facesse fiorire in un terreno abbandonato, nessun uomo di normale buon senso, stupito dal fiore, caccerebbe il giardiniere dal giardino. Per questo aggiungevo che l’Europa ha bisogno di chiamare di nuovo il giardiniere perché possiamo recuperare il segreto di quel fiore. Significa che la Chiesa oggi è cosciente di coltivare fiori molto più di quando creò quella prima specie, perché ha migliorato la sua tecnica di coltivazione. Se quel fiore significava l’autocoscienza - la valorizzazione della persona per se stessa - era perché la persona apporta al mondo qualcosa che non esisterebbe senza di essa; se la verità dell’autocoscienza è la vita stessa, è ognuna delle vite umane, una per una, allora dovremmo riconoscere alla Chiesa questa autorevolezza. E quindi dovremmo imparare a dialogare con i maestri giardinieri del passato della Chiesa, con quelli che sperimentarono diverse procedure e specie sino a creare quel meraviglioso esemplare di fiore. Volevo dire che è sciocco tagliare il legame con la tradizione che ci ha “tratti” sin qui (“tradizione” viene dal latino tradere, consegnare, mettere nelle mani di altri). Sarebbe molto più opportuno indagare su come operavano quei maestri. E che cosa li faceva lavorare il giardino in un modo piuttosto che in un altro.