Donald Trump e Hillary Clinton.

La caduta sulla terra

Mancano pochi giorni al voto americano. I due candidati più impopolari di sempre disorientano tutti. Anche i cattolici. Come giudicare? In uno scenario dominato dalla paura, la questione diventa più profonda del «chi votare». Da "Tracce" di ottobre
Mattia Ferraresi

Ormai ci siamo: si vota l’8 novembre, e la Casa Bianca è contesa dai due candidati più impopolari di sempre. I sondaggi più clementi dicono che oltre il cinquanta per cento degli elettori americani disapprova, o addirittura disprezza, sia Donald Trump che Hillary Clinton. La fiducia nelle capacità della politica di rispondere ai bisogni della società è ai minimi storici, e lo dimostra il fatto che un outsider ha vinto la nomination prendendo in ostaggio il partito di Abraham Lincoln e riducendo in macerie antiche strutture che si pensavano infrangibili, mentre l’altra ha faticato enormemente a sconfiggere alle primarie Bernie Sanders, un avversario semisconosciuto che è stato in grado di mobilitare milioni di giovani con la promessa di una “rivoluzione politica” per depurare il sistema dalle iniquità.

Le forze che hanno solleticato gli istinti antisistema sono state ricompensate. A dominare la campagna elettorale non sono i programmi politici, i desideri del popolo né le titaniche promesse delle ideologie novecentesche, ma la paura. Paura degli immigrati e dei terroristi, dei processi della globalizzazione, della classe dirigente fanfarona, paura dell’altro, che sia l’automobilista che viene fermato da un agente di polizia oppure l’avversario politico che viene demonizzato o ridotto al ridicolo, disprezzando la “banda di miserabili” che lo sostiene. È il rovesciamento esatto di quello che affermava sant’Ambrogio parlando dell’ideale dell’uomo politico: «Quello che fa l’amore, non potrà mai farlo la paura. Niente è così utile come farsi amare».

In questo scenario da «cambiamento d’epoca», come dice papa Francesco, dominato dalla frammentazione e dalla paura e dove i rumori di fondo prevalgono sui contenuti del dibattito, uno scenario in cui anche le certezze della più grande democrazia del mondo si sgretolano, la domanda più urgente non è quella resa celebre da Lenin - che fare? -, ma una più autenticamente rivoluzionaria: come giudicare?





















Occorre, innanzitutto, una premessa. Comunque vada il voto, l’America della politica impopolare e populista subirà un colpo al «culto bipartisan della Presidenza», per usare l’espressione dell’editorialista Ross Douthat, che è un tratto dominante della democrazia americana. Il ruolo del Presidente è rivestito da un’aura quasi mistica, è una figura sacrale che incarna virtù universali, i volti dei Presidenti vengono scolpiti nel marmo per essere consegnati all’eternità. Lungi dall’essere un realista cercatore di compromessi, il Presidente americano è l’incarnazione di un ideale, tanto che le campagne elettorali sono il trionfo della personalizzazione: dei candidati si giudicano la personalità, l’eloquio, il tratto umano, la credibilità, il temperamento, la presenza. Si valuta se sono, come appunto si dice, “presidenziali”, ovvero compatibili con un ruolo che ha una gravitas quasi religiosa. Ciò che dicono, le proposte che avanzano, vengono in seconda battuta.

Questi sono tutti segni di una smisurata fiducia nel potere della democrazia, che nel grande «progetto della modernità» che è l’America, come la definisce il teologo Stanley Hauerwas, è l’alfa e l’omega di ogni azione, l’ambito in cui ogni domanda dell’uomo può trovare risposta. È singolare, dunque, che a contendersi un così alto ufficio siano due candidati tanto impopolari e così poco ispirati.

Il teologo David Schindler, decano emerito dell’Istituto Giovanni Paolo II di Washington, lo spiega così: «Trump e Clinton rivelano la fine della democrazia liberale, cioè il punto in cui si incaglia la sua logica interna. Trump è la sua versione ottusa, Clinton la versione più sistemica e venale. Entrambe hanno, in un certo senso, un’anima democratica. Credono, cioè, che il chiacchiericcio manipolatorio unito alla capacità tecnica (politica, scientifica) sia il mezzo adeguato per perseguire fini preferenziali, ovvero in contrasto con i fini naturali».


















La dottrina sociale della Chiesa insiste sul fatto che la democrazia è «un ordinamento, e come tale uno strumento e non un fine» e il suo «carattere morale non è automatico». Secondo quest’ottica realista che de-sacralizza la democrazia - una logica inaccettabile per chi, specialmente dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ha teorizzato l’affermazione globale del modello democratico e liberale come destino necessario dell’umanità -, la caduta sulla terra della figura del Presidente americano dal suo piedistallo celeste offre la possibilità di rimettere le cose nel loro ordine naturale.

Questa premessa permette di puntare i piedi sul terreno per gettarsi, senza timori né ricatti, nell’avventura del giudizio nel merito politico. Le differenze fra le vision di Trump e Clinton sono numerosissime e vaste, ma R.R. Reno, direttore della rivista cristiana First Things, prova a metterne a fuoco il nucleo sintetico: «Questa strana tornata elettorale è la presa di coscienza che l’assetto del mondo stabilito nel Dopoguerra sta finendo, e questo fatto sta cambiando la nostra concezione politica. Lo scontro fra destra e sinistra sta lasciando il posto a quello fra establishment e anti-establishment, e il dibattito riguarda la tensione fra la prospettiva nazionalista e quella globalista». Con le sue posizioni intransigenti contro l’immigrazione clandestina e a favore di misure protezioniste per difendere l’economia americana, Trump «è il campione nazionalista che trova consenso fra chi si sente escluso e tradito dai progetti di globalizzazione».

Nello spiegare, come nel caso della democrazia, che la globalizzazione non è un bene in sé, la dottrina sociale parla di una tensione fra “nuove speranze” e “inquietanti interrogativi” che questo processo ha ingenerato: la retorica di Trump fa presa sugli americani che sono inquietati dagli interrogativi e si sentono traditi dalle speranze. Sono gli elettori disillusi rispetto alle prospettive di progresso globale a trazione americana che Clinton incarna.

La politica estera è l’ambito in cui la visione dei due candidati emerge più chiaramente. Trump aderisce alla cosiddetta scuola realista delle relazioni internazionali, concepisce i rapporti fra Stati in termini bilaterali, non mette precondizioni al dialogo con gli altri stati sovrani - dalla Russia alla Corea del Nord - perché rifiuta l’idea dell’“eccezionalismo americano”: l’America non è per lui la nazione universale incaricata dalla Storia, con la “s” maiuscola, di illuminare il cammino dell’umanità verso la democrazia e il capitalismo (concezione che per generazioni ha informato tanto il partito repubblicano quanto quello democratico), ma è una superpotenza che deve innanzitutto occuparsi di quello che succede dentro i propri confini. La postura dell’America che Trump immagina poggia sul disimpegno e l’isolamento.

Al contrario, Clinton è la paladina della prospettiva eccezionalista e della concezione della storia che questa sottende: non è solo per disprezzo della personalità di Trump, ma anche per sincera affinità di vedute con Hillary che il repubblicano George H.W. Bush, fautore della visione globalista, e molti intellettuali che hanno ispirato la “guerra al terrore” di George W. Bush hanno cambiato partito.




















«La Chiesa è dalla parte della nazione o dei globalisti?», si domanda Reno, che rileva un «momento di disorientamento del mondo che coinvolge anche noi cattolici. I principi di solidarietà, sussidiarietà e dignità umana per la ricerca del bene comune hanno, io credo, ancora un’incredibile originalità: le prospettive politiche che non ammettono una dimensione ulteriore, una mano non esclusivamente umana che agisce nella storia, non hanno nulla di simile, se non dei surrogati. La sfida è declinare quei principi in un modo che sia adeguato a questa fase della modernità», dice Reno.

Una delle questioni cruciali, in particolare per i cattolici americani, è il posizionamento dei candidati su vita e famiglia. Generazioni di cattolici hanno votato seguendo la bandiera dell’attivismo pro-life, ma oggi anche quello schema è saltato. E non soltanto perché, come ammette Reno, «le battaglie culturali le abbiamo largamente perse», ma anche perché nemmeno il candidato repubblicano mette aborto, famiglia e gender al centro della sua agenda politica. Ha professato una generica ortodossia conservatrice in materia all’inizio della campagna e poi ha largamente ignorato la questione.

Così, a conti fatti, per i cattolici la questione diventa molto più profonda - e affascinante - del “chi votare”. «A me sembra che questo contesto sia un invito, per noi, a vivere nuove forme di testimonianza, cercare nuovi spazi di dialogo e offrire nuove idee per il bene di tutti», spiega Reno. Il volantino della comunità americana di CL, intitolato “Protagonisti della nostra storia”, segna questo passaggio d’epoca: un invito al risveglio della persona quando tutte le strutture, le burocrazie, gli slogan e le candidature mostrano la loro umanissima fragilità.