Nella memoria di un cuore vivente
La presentazione della nuova edizione del libro di Giussani "Dalla liturgia vissuta. Una testimonianza", nella Capitale. Da una provocazione di don Carrón, il dialogo con monsignor Pierangelo Sequeri e il curatore, don Francesco Braschi«Ricorda lo stile di Romano Guardini, una teologia che riesce a caricare di potenza l'elementare. Ci riporta sull'asse di questioni importanti, di affermazioni basilari nella loro incandescenza, troppo spesso lontane dalla nostra attenzione, troppo spesso percepite come remote».
Pierangelo Sequeri sta parlando del volume Dalla liturgia vissuta - Una testimonianza, scritto da don Luigi Giussani nel 1973 e di nuovo in libreria con un ampio apparato di note curato da monsignor Francesco Braschi. Il libro è stato presentato il 12 dicembre scorso nell'Aula Magna “con vista” dell'Urbaniana, la Pontificia Università che si affaccia su Roma dal colle del Gianicolo, un luogo dove anche i muri parlano del nesso misterioso che lega verità e bellezza. In senso letterale, non solo metaforico.
Oltre a Sequeri, musicista, musicologo, teologo e preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, c'erano anche don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, e il curatore del libro, presidente dell'associazione Russia Cristiana e direttore della classe di slavistica della Biblioteca Ambrosiana. Una grande targa di marmo alle spalle dei relatori ribadisce il concetto riportando parole pronunciate da Pio XI negli anni Trenta del Novecento, ma mai così attuali: «L'armonia architettonica di un edificio non è un accessorio superfluo o un lusso di cui si può fare a meno ma un antidoto alla distrazione, un costante richiamo alla grandezza della vocazione di chi lo abita, un suggerimento da custodire “in memoria cordis”». Nella memoria di un cuore vivente.
Come la liturgia, «l'evidenza più solida di cui disponiamo», esordisce Sequeri rispondendo alla provocazione iniziale di Carrón («Ha ancora senso pubblicare libri sul cristianesimo? Ci interessa ancora il cristianesimo?»). Un'evidenza solida e un test semplice ma efficace per capire che cosa effettivamente è passato in una comunità della novità radicale portata da Gesù, «dove la Parola è diventata mimica, carne e sangue».
Il mistero resta mistero, ma le immagini per comunicarlo diventano quotidiane e familiari, quando si passa dal Vecchio al Nuovo Testamento. «Dal modo di guardare genitori e figli capiscono tutto. Anche lo sguardo ha la sua musica, che gli esseri umani sono in grado di decifrare. Poi ci sono le cose capite e quelle non capite, apprese, assimilate o meno. Ma veramente decisivo è solo lo sguardo».
La liturgia è un momento prezioso, è «un piccolo fiato sospeso» nel respiro della giornata, della settimana, dell'avvicendarsi dei mesi dell'anno e delle stagioni. Per far capire la maestà di questo gesto, dell'incontro fisico tra l'uomo e Dio, Sequeri ha citato la musica contemporanea, minimalista e solenne di Sofia Gubaidulina e il Riccardo III di Shakespeare, con le sue promesse “da filibustiere” ai peones che avena trascinato in guerra, strappandoli ai loro campi e alle loro case. Ai suoi uomini più smarriti e sprovveduti, prima della battaglia dice: «Un giorno anche i pari del regno avranno il capo chino e il fiato sospeso davanti a voi».
È l'unico gesto decisivo, la liturgia, spiega Sequeri, «l'unica vera icona della qualità del nostro cristianesimo». E il rapporto con Dio non si costruisce altrimenti che con l'adorazione. Tutti gli altri gesti possono essere in maggiore o minore misura ambivalenti, ma nel caso delle celebrazioni liturgiche la Chiesa ferma se stessa, anche le opere buone, per lasciare lo spazio a qualcosa di più importante ancora. La comunità si riunisce ma apparentemente è inoperosa. «Se non fosse il Signore a parlare le nostre sarebbero parole vane, anche quelle mosse dalle migliori intenzioni» ha ribadito Sequeri: «Dio si può e si deve toccare. Bisogna essere “parlati”, toccati, guariti, lavati da lui. Se ci si limita a interpretare quello che Dio secondo noi dovrebbe dire o fare non andiamo da nessuna parte. La liturgia è un gesto in antifrasi, la comunità diventa inoperosa per meglio accogliere Chi sta arrivando. È un momento non ossessionato dal rendimento, dal fare. Un estraniamento bello, un tempo parallelo; è l'anti-storia, apparentemente irrilevante, che invece fa davvero la storia».
Non serve escogitare modi per «tenere la scena» dietro l'altare, spiega monsignor Braschi, raccontando la sua esperienza di sacerdote, e come l'incontro con il rito bizantino lo ha aiutato a prenderne coscienza. La preoccupazione di personalizzare la celebrazione per renderla più attraente per i fedeli è un falso problema. Basterebbe ricordarsi che la liturgia è una scuola di realtà, è il luogo dell'incontro personale, concreto, fisico con Dio. E che la transustanziazione, per un usare un termine tecnico della teologia, non termina nell'eucarestia, ma nella trasformazione di chi la riceve.
Per questo non può passare di moda. Anche nel nostro tempo, così indaffarato a riempire ogni spazio, a intercettare ogni bisogno per impedirgli di diventare domanda vera, autentica, decisiva per la vita, come ha sottolineato Julián Carrón nel suo intervento iniziale. Perfino nella nostra società liquida, dissolta nei suoi legami strutturali, corrosa da una competizione indiscriminata e miope, resta la voragine del cuore da colmare, il desiderio di infinito di ogni singolo essere umano. La risposta alla nostra stanchezza e alla nostra delusione, ha ripetuto Carrón, «non può essere una strategia un po' più scaltra del solito, uno sforzo della volontà più risoluto e determinato del solito, ma qualcosa di totalmente altro rispetto a noi, capace di spaccare ogni misura e di spazzare via in un attimo ogni prevedibile, rassicurante, soffocante comfort-zone». La liturgia ci ricorda qual è il metodo di Dio: entra nella nostra giornata e cambia tutto. Il segreto della sua efficacia è l'oggettività di una Presenza, molto più reale del nostro stato d'animo, dei nostri pensieri, delle nostre valutazioni più o meno morali o moralistiche di noi stessi. Obbedire a questo metodo significa, semplicemente, fargli spazio.
«A Dio dovremmo dedicare molte chiese in adorazione» ha concluso Sequeri: «E a Lui dovremmo riservare il silenzio migliore, la musica migliore, la poesia migliore. A volte mi chiedo perché abbiamo studiato la liturgia se questo non succede nelle nostre parrocchie».