Io vivo in Università

In un contesto che cambia faccia, la presenza cristiana tra aule e lezioni. I compagni di studio, il tirocinio, la tesi, il futuro... I giovani di CL raccontano cosa succede quando la vita «incontra» una proposta (da Tracce, gennaio 2017)
Davide Perillo

«Ma tu non hai paura?». Glielo ha chiesto così, a bruciapelo. L’aveva cercata per parlarle nei chiostri della Cattolica, dove entrambi studiano Lettere. Ma quando il dialogo ha preso quota, Margherita si è ritrovata davanti a una domanda che non si aspettava. «Non ci pensi a cosa potrebbe accadere dopo la laurea? Non ci sarà più l’università, le cose che facciamo, gli amici...». Dopo un istante di silenzio lei ha risposto: «Ci penso, sì. E sento una vertigine, perché non so cosa accadrà. Ma non ho paura. Tutto quello che mi è successo finora non lo avrei mai immaginato, ma è la strada che mi sta rendendo me stessa». Gli ha raccontato di sé, della fede, dell’incontro «con le persone che mi hanno cambiato la vita e il modo di guardare». E si è sentita rispondere: «Ecco, un incontro così io non l’ho ancora fatto. Ma lo sto aspettando».

Un pomeriggio al bar, come tanti. Si può partire da qui, per un piccolo viaggio che faccia capire un po’ di più cosa può dire la fede a un ragazzo che fa l’università oggi, quale forma può prendere una presenza cristiana tra aule e lezioni. Perché in quel dialogo, in fondo, c’è quasi tutto. Ci sono le incertezze di chi è di fronte a un momento chiave. C’è l’attesa infinita svelata da quelle domande: il desiderio di essere felici. E c’è la grande questione che infiamma il cuore di un ragazzo di vent’anni, ma non solo: si può incontrare qualcosa - qualcuno - che risponda a questa attesa? Che aiuti a vivere, aprendo una strada alla certezza?

È una domanda che ha attraversato generazioni di studenti - letteralmente - da quando l’università è diventata, come si dice, un fenomeno “di massa”. Ma si gioca in un contesto che si evolve molto in fretta, e bisogna tenerlo presente. «L’università negli ultimi anni ha cambiato faccia», spiega Carmine Di Martino, docente di Filosofia teoretica alla Statale di Milano e responsabile del Clu (gli universitari di CL) insieme a don Stefano Alberto, docente di Teologia all’Università Cattolica: «Con la riforma e il “3 più 2” ci sono quasi dappertutto i semestri, si frequenta di più, ci sono meno fuori corso. Le persone non stanno più negli atenei per tanti anni». In più, il calo dei finanziamenti statali e l’introduzione delle griglie per valutare i corsi ha acuito le differenze. «È aumentato il divario tra università grandi e piccole e tra Nord e Sud». Risultato: certi atenei si sono svuotati, soprattutto sotto Roma. «In Sicilia, Calabria o in Puglia ci sono tanti maturati che vanno direttamente a iscriversi in Piemonte o Lombardia, comunque da Bologna in su». La vita tra chiostri e aule ha un’altra fisionomia. Ci sono meno gruppi, meno cose organizzate. Anche comunità cristiane più piccole, rispetto a una decina d’anni fa.



Fatto che si somma ad un altro grande cambiamento: la riduzione all’osso delle presenze “politiche” - almeno quelle di una volta, con un riferimento ideologico marcato. «Nessuno si mobilita più per quello», prosegue Di Martino: «Lo scheletro esterno che sosteneva la vita di tanti giovani si è sbriciolato. Non ci si può appoggiare a nient’altro, se non a qualcosa che incroci direttamente la problematica personale». Ai ragazzi interessa solo quello che può servire a vivere. E questo, per la fede, ha un risvolto che sa di sfida: «Niente conta di più che il soggetto, e la sua consapevolezza».

La persona. È qui che si gioca la partita. Questione eterna, ma da rimettere a fuoco. Perché emerge con forza, tra i giovani. E indica altre forme alla presenza cristiana. Una presenza fatta anche di azione negli organi studenteschi, di banchetti matricole, di gruppi di studio - tutte cose che ci sono e proseguono -, ma centrata su quella che Di Martino chiama «l’esperienza personale». E quindi giocata in grandissima parte negli «incontri» che si realizzano nei mille rivoli del quotidiano: i dialoghi a lezione, la vita in appartamento, lo studio...

Come è successo a Giuseppe, studente di Ingegneria a Bologna, che al corso si ritrova un professore che attacca una lezione sulle risorse umane dicendo che «per affrontare il problema della gestione del personale in azienda bisogna partire dalla conoscenza dell’uomo». «Quella frase ha attirato subito la mia attenzione», racconta lui: «Avevamo appena iniziato a lavorare su Il senso religioso e sono andato a rileggermi la prima premessa». Da lì il desiderio di parlarne con quel prof, l’inizio di un dialogo sul libro («quando ne abbiamo parlato mi ha detto: “Sai come dicono gli americani? You made my day, mi hai riempito la giornata. Grazie, è quello che voglio dal mio lavoro”»), la scoperta inattesa, per sé, di poter essere «strumento di corrispondenza e stupore per il cuore di un altro». E la sorpresa quando questo altro ti dice: «Guarda, io sono agnostico, ma quello che c’è scritto lì è vero. Vai da tutti in questo modo, perché una mossa come la tua è una scintilla che mette in azione il motore umano. È questo che può cambiare l’università».



Parole simili a quelle che Alessandro, anche lui a Bologna, si è sentito dire da un’altra docente, invitata a Scuola di comunità (l’incontro settimanale degli studenti di CL): «Le ho raccontato quello che facciamo. E lei mi ha detto che è contenta che ci sia qualcuno come noi in università e che dobbiamo andare da tutti a dire quello che viviamo, perché un’amicizia così non è scontato trovarla».

O a Chiara, che fa il tirocinio in una farmacia di Chieti e all’inizio resta sulle sue (soprattutto quando il discorso cade su CL e lei scopre che per il movimento non c’è molta stima...), ma poi, quando torna da una vacanza del Clu, non riesce più a trattenersi e comincia a raccontare, «perché non volevo tenere per me tutte le cose belle che avevo visto». Da lì sfide, domande, confronti. E una sorpresa, bella: «Dire chi ero veramente mi aveva reso più interessante ai loro occhi. Mi prendevano più sul serio». Fino a quella frase strana: «Tu sei diversa dalle persone di Chiesa che ho incontrato: vivi la fede in una maniera nuova, che mi interessa».

Una diversità che colpisce non tanto - non solo - perché si dicono altre parole rispetto alle solite, ma perché vi si percepisce un altro modo di vivere le cose normali, quotidiane. Come una cena in un appartamento della Ringhiera (la cooperativa che offre sistemazioni ai fuori sede) in cui una matricola, invitata, resta sorpresa: «Ah, ma voi vi aspettate per mangiare insieme? E mentre uno parla gli altri lo ascoltano tutti?».

«Non so come fare, a chi porre le mie domande. Ma ho incontrato te e il tuo modo di affrontare le cose mi dà una speranza che non ho mai visto»

Sempre a Bologna, facoltà di Medicina, ad Erica è capitato un altro dialogo al bar, con una compagna di corso: «Erica, non mi basta niente». Voti eccellenti, famiglia splendida, ragazzo stabile. «Niente. Non so come fare, a chi porre le mie domande. Ma ho incontrato te e il tuo modo di affrontare le cose mi dà una speranza che non ho mai visto». Testuale. La risposta? «Le ho proposto di stare con me. E quindi l’ho invitata ai gesti del movimento. Ma già uscendo dal bar non ci potevo credere: sta parlando a me? Con tutti i miei limiti, le incoerenze...». L’amica ha iniziato a seguire l’esperienza del Clu. L’altro giorno le ha spedito un messaggio: «Posso partecipare anch’io al fondo comune? Quando vedo una cosa che mi corrisponde, mi ci devo buttare...».

Corrispondenza. Una parola chiave per capire se il cristianesimo può fare presa oggi, se può tornare ad essere interessante. Se c’entra qualcosa con il desiderio di questi ragazzi. «In un momento come quello attuale, dove non ci sono più i punti di partenza educativi, lo zoccolo duro dell’educazione familiare o le idealità forti, tutto deve essere scoperto dall’interno della propria esperienza», osserva ancora Di Martino: «Tu non puoi dire “Dio”, come non puoi dire nessun’altra cosa, se non si rende evidente all’interno della tua esperienza. E se il movimento non fosse una proposta come la stiamo vivendo oggi, come ci viene testimoniata e offerta con insistenza appassionata da chi ci guida, da Carrón - una proposta diretta all’io, che ciascuno può, anzi deve verificare, sottoponendola al giudizio della sua ragione affettivamente impegnata con la vita -, non verrebbe neanche raccolta. Non interesserebbe».

Così, seguendo il filo dei fatti, si vede affiorare un po’ alla volta un’altra forma di presenza. E di testimonianza. Federica sta finendo Lettere alla Statale di Milano, con una tesi su Leopardi. Era partita armata di buone intenzioni, per dimostrare il profondo senso religioso del poeta, altro che nichilismo... E si è scoperta, all’inizio, tutta preoccupata di «testimoniare ciò in cui credo». Poi parte il giro delle correzioni. Le osservazioni del relatore: «Passo troppo esplicito», «non condivido questa idea», «giudizio troppo personale»... «Ero infastidita. Mi sono detta: bene, ha capito che sono cristiana e vuole obiettare». Finché arriva all’ultima annotazione, scritta dal professore accanto al cuore della sua tesi: «Sono d’accordo!». «Sono rimasta allibita», ammette Federica: «Non ero “la buona” contro “il cattivo che ce l’ha con me”: ho capito che lui aveva a cuore il mio lavoro più di quanto ci tenessi io». Non solo «correggere quelle pagine è stato il lavoro più bello», ma per lei è emerso «il valore della testimonianza: non è tanto nella forza con cui, pur nel bene, cerchiamo di esprimere ciò in cui crediamo, ma nel lasciare che la bellezza di uno sguardo sulla vita (e su Leopardi) emerga dal di dentro di quello che affrontiamo, senza la preoccupazione di difendere nulla».

Non è solo quello, chiaro. Ma è importante cogliere la sfumatura. «A volte si sente dire che adesso “manca la presenza”», osserva ancora Di Martino: «Non è vero. Secondo me la presenza, anche culturalmente, si è arricchita e approfondita oggi». Perché? «Perché da questa centratura sulla persona è fiorito un ventaglio di iniziative anche culturali che non hanno lo scopo di convalidare delle idee, ma danno sviluppo a interessi che nascono da un’esperienza vissuta da soggetti concreti, con nomi e cognomi, e la verificano». Esempi? Esperimenti danteschi, gli studenti appassionati di Dante che organizzano letture, incontri, convegni. Aletheia, gruppo di studenti che da qualche anno fanno altrettanto con i filosofi. Lucerna Juris, stessa cosa in campo giuridico... Tutto nato dal basso, «senza targhe o bollini». E tutto molto capillare, diffuso, personale e pubblico al tempo stesso.

Un’altra faccia della “presenza” cristiana. Ma altrettanto chiara. Qualcosa che obbliga a chiedersi che cosa la genera. Pietro, che studia Scienze politiche a Bari, racconta di un compagno che «l’altro giorno mi diceva di come la vita gli sembrasse desolatamente piatta. Non lo soddisfaceva nulla. Ma invece di dirgli frasi fatte o un semplice “mi dispiace”, mi sono ritrovato a invitarlo a Scuola di comunità». Quello, ateo, è andato. «E alla fine mi ha confessato che anche se per lui è difficile credere in Cristo, ha capito che non ci raduniamo per routine o perché ce lo comanda un responsabile, ma perché ci unisce “qualcosa” o “qualcuno” di più grande».



È così che tante volte Cristo torna ad essere interessante, a intercettare il desiderio - magari confuso - dei ragazzi. Nelle pagine che seguono trovate il racconto degli Esercizi spirituali proposti da CL agli universitari, il mese scorso, tenuti proprio da Julián Carrón. Erano in quattromila, molti lì per la prima volta. Una dei “nuovi”, la prima sera, diceva: «Sono tutte cose vere, non si può negare: ma io queste cose non le dico neanche alla mia migliore amica». E il giorno dopo, davanti alla lezione in cui emergeva che è Cristo a salvare il desiderio, a chi obiettava «per me non è così», lei ha risposto: «Non so. Però mentre sentivo Carrón, pensavo: lui deve vivere una risposta. Altrimenti non potrebbe parlare così della paura, dell’insicurezza, dei desideri, non potrebbe essere com’è. Ma questo si capisce anche da voi, da come vivete voi». “Voi” erano i ragazzi che l’avevano invitata. Giovani come lei, magari confusi, incasinati, ma certi, grazie ad un’esperienza vissuta.

Come Marta, Matematica a Milano, che ha perso da poco la mamma, eppure due giorni dopo si è ritrovata a fare l’esame in programma. Perché aveva in mente sua madre, «come è sempre entrata nella realtà, come era lieta nel vivere la malattia e come affrontava le domande che aveva, sempre rivolta a Lui». E suo fratello, identico: «Il professore si è sorpreso che volessi fare l’esame. Mi ha detto che vedeva in me una certezza del futuro».

Eccola, la strada della certezza. Affiora così, poco a poco, nella vita. E sa sfidare il vero e grande ostacolo che si para davanti ai cuori di questi ragazzi: «L’emozionometro», lo chiama Di Martino: «Si misura tutto con la moneta delle emozioni. Vero è emozione ad alto livello. Falso è emozione a basso livello. C’è un uso della ragione che va riscoperto, perché la si applica agli esami, ma non alla vita. E, di conseguenza, c’è una paura di legarsi, di compromettersi. O la proposta cristiana fa leva lì, oppure...».

Martino fa Medicina a Milano. A un amico, giorni fa, raccontava: «Frequentando il reparto, mi trovo a seguire due medici molto giovani, con tante domande ma anche figli di questo cambiamento d’epoca». La pensano come il mainstream, insomma. Soprattutto sulle questioni scottanti: vita e morte. «Nei primi tempi, quando si affacciavano questi discorsi, buttavo lì una risposta “giusta”: loro non erano persuasi, io non ero contento». Poi? «Nel tempo mi sono accorto che ci guadagnavo di più a guardare davvero le loro domande: senza la preoccupazione di chiudere subito, ma per la limatura di vero che anche loro avevano in tasca». Anche da lì, una svolta: dialoghi reali. Ma soprattutto una scoperta: «Stando con loro, capisco più chi sono io. Da dove viene la mia incertezza quando li tratto per meno di quello che sono. E da dove nasce una certezza».