Palazzo Montecitorio.

Dopo il Referendum, la costruzione continua

A un mese dal voto, cosa resta? Di riforme non si parla più, ma l’urgenza storica è la stessa. Davide Prosperi, vicepresidente della Fraternità, guarda al giudizio speso da CL. E al compito che ci attende (da Tracce, gennaio 2017)
Davide Perillo

È passato appena un mese, ma sembra un secolo. Il referendum è stato archiviato, ha vinto il no, il governo Renzi ha lasciato il posto all’erede Gentiloni. Ma di riforme e Costituzione, fateci caso, non parla più nessuno. Zero. Eppure si era andati avanti per settimane a dividersi accanitamente sul 4 dicembre, come se fosse una specie di “giorno del giudizio”. Possibile che di quell’occasione storica, del tentativo di rispondere a un bisogno che in Italia vedono proprio tutti, anche i 19 milioni che hanno votato “no” - cambiare le regole della convivenza civile, rendere il Parlamento più efficiente, dare stabilità -, non sia rimasto nulla? E che ne è dell’appello a «recuperare il senso del vivere insieme» diffuso prima del voto in un documento di Comunione e Liberazione? Quel giudizio ha retto alla prova dei fatti? È stato utile?
«Direi assolutamente di sì», risponde Davide Prosperi, docente di Biochimica alla Bicocca di Milano e vicepresidente della Fraternità di CL. «Quel testo era nato da una discussione anche accesa tra di noi, perché volevamo formulare una proposta rivolta a tutti, non solo al “popolo di CL”. Abbiamo cercato di dare un giudizio che fosse davvero pertinente alla situazione del Paese e il meno parziale possibile. E la situazione non è cambiata, anzi. Anche i giornali ora insistono molto sulla necessità di ricucire un dialogo, di tornare a parlarsi...».

Quando quel documento è uscito qualcuno, anche dentro CL, lo ha ritenuto debole perché non diceva chiaramente “sì” o “no”...
Era chiaro da subito che non c’erano elementi sufficienti per identificarci completamente con l’una o l’altra posizione. Ma l’idea di fondo, la necessità di un cambiamento e l’urgenza di stabilità del Paese, ci è sembrato un fattore importante su cui prendere posizione. Si è scelto comunque di intervenire per il valore della circostanza. Dal Meeting in poi, abbiamo sottolineato l’importanza storica che questo momento poteva avere. Almeno all’inizio, la percezione era che in gioco ci fosse davvero la possibilità di esprimere una posizione di novità su alcuni elementi del dettato costituzionale.

E poi, invece?
Il dibattito ha preso in fretta un’altra piega. Fa un po’ sorridere pensare che a neanche un mese dal voto nessuno parli più di riforme... È diventato chiaro che per molti dei contendenti la vera battaglia era puramente politica: Renzi sì, Renzi no, o quali alternative seguire. Noi, invece, abbiamo creduto in questa cosa. Prima ancora che nello scegliere tra un “sì” o un “no”, abbiamo marcato un’urgenza storica. E lo crediamo ancora. Il valore fondamentale che in questo momento vogliamo mettere davanti agli occhi di tutti è la difesa del bene comune.

«In questo momento» vuol dire, appunto, ora, anche a referendum archiviato...
Esatto. Perché quell’urgenza rimane. Mentre la discussione nei termini precedenti è crollata, e non si parla più di tante cose tirate in ballo anche a sproposito prima del voto, l’idea che occorra riscoprire l’altro come un bene e che si debba tornare a lavorare insieme oggi la ritroviamo come preoccupazione diffusa, anche in molti osservatori.

Il passaggio di consegne tra Renzi e Gentiloni

Ma secondo te, cosa abbiamo imparato da questa vicenda?
Anzitutto, una questione di metodo. Invece di assumere una posizione reattiva, basata magari su elementi giusti da considerare, ma ridotta a “sì, perché...” o “no, perché...”, ci siamo richiamati all’origine della nostra esperienza. E non essendo reattivi, partendo da un’altra origine, il giudizio diventa più largo. Ha come orizzonte non solo l’identificazione dei problemi o di cosa vorremmo eliminare, perché non funziona, ma che cosa pensiamo si possa costruire. A guardare bene, questo modo di fare nasce profondamente dalla nostra storia: la preoccupazione di fondo, per noi, è sempre cercare di capire dove si può cominciare a costruire.

E nel merito, invece?
Abbiamo capito meglio che dire “l’altro è un bene” non è recitare uno slogan buonista e un po’ moralistico, una specie di “non litighiamo”, come è stato ridotto anche da qualcuno di noi. No: è un giudizio di fondo, che pone un crinale. Qualcosa su cui davvero scommettiamo tutto. È il riconoscimento che ciò che compie la mia vita è una presenza. Non “qualcosa di diverso da me che prima o poi dovrà diventare come voglio io”, ma un’alterità. Qualcuno che è dato e con cui devi fare i conti per il tuo cammino al compimento del destino umano. Non è che “l’altro è un bene” perché mi va bene o mi piace: è un bene perché c’è. Mi sfida continuamente a mettere in gioco la mia identità e la mia appartenenza.

Ma il dialogo che si invocava tu lo hai visto in atto? E dove?
Per esempio, nei due incontri organizzati dal Centro culturale di Milano e dalla Fondazione per la Sussidiarietà (quello con Luciano Violante e Antonio Polito e l’altro con Gaetano Quagliariello, Lorenza Violini e Giorgio D’Atena, ndr). O in tanti momenti nati dalla CdO, o dai centri culturali di tutta Italia. Con gente che viene da storie diverse dalla nostra, ma che ha aiutato a capire i termini del problema, senza pregiudizi. E questo ha colpito chi abbiamo incontrato, ma anche noi. Vedere una stima e un rispetto da mondi anche molto diversi è stata una bella sorpresa. È un sentirsi insieme che va al di là della scadenza del referendum.

La Camera dei Deputati

Perché?
Molti di questi soggetti - penso a Violante, ma non solo - sentono come noi l’urgenza di continuare il confronto cominciato su questa riforma per costruirne una migliore. Credo sia un punto in cui dobbiamo sentirci tutti coinvolti, soprattutto chi ha votato “no”. Perché chi lo ha fatto non è che non avvertisse il bisogno di un cambiamento: non era d’accordo con questa riforma, con ragioni che possono essere anche comprensibili. Ma se ora il lavoro può andare avanti, è perché un inizio di dialogo c’è stato.

Dopo il voto e la crisi è capitato di vedere anche tra chi ha votato “no” gente preoccupata dall’esito: «E adesso? Che succede?». Non ti sembra un dato strano? Come lo giudichi?
Diciamo che in genere mi sembra prevalere il discorso detto prima: “È andata così (bene, male...), ora guardiamo avanti”. Però è vero, questo genere di domande l’ho sentito anche io. Credo nascano da due posizioni di fondo. C’è chi ha spostato subito la questione sulla politica, e per loro chiedersi «e adesso?» voleva dire: «Chi ci governerà? Che maggioranze si possono mettere insieme?», eccetera, che peraltro c’entra poco con le ragioni per cui hanno votato “no”. Altri con cui ho parlato erano proprio smarriti. Ma forse dipende anche dal contesto che stiamo vivendo.

In che senso?
Lo smarrimento non è limitato al referendum, né all’Italia. Lo vediamo ovunque. Nel Regno Unito che ha votato la Brexit, nell’elezione di Trump in America... Anche lì, il giorno dopo c’era gente che si chiedeva: «E adesso?». In ogni caso, quello che emerge è un pessimismo di fondo, il venir meno di una reale speranza nel popolo. È la nota che mi sembra caratterizzare questo momento.

Be’, qualche ragione ce l’ha...
Certo. Il pessimismo non è astratto: è alimentato molto dall’incertezza. Ci sono tutti i problemi che vediamo: la povertà che cresce, l’assenza di riferimenti anche nella società civile; l’assenza di proposte popolari, cioè capaci di incidere nella vita reale delle persone, nei bisogni di chi ha una famiglia o cerca un lavoro... Fino alla mancanza di iniziativa sui problemi più seri come l’immigrazione - che è sempre più drammatica - o il debito pubblico. Insomma, c’è un’incertezza legata anche a una disistima di fondo, a una sfiducia nelle istituzioni. E in questo contesto, il rischio è che prevalga un “non giudizio”, una reattività. L’idea di demolire chi è al potere, perché gli si attribuiscono le cose che non vanno bene. Ma non si capisce chi, invece, dovrebbe occuparsi di costruire. Mentre quello di cui oggi c’è più urgenza è di soggetti che possano - nel piccolo o nel grande - fare delle proposte credibili.

Da dove si riparte per costruire?
Dal basso e dall’inizio. Cioè dall’edificazione dell’io. Per questo il punto su cui scommettere oggi, anche se sembra il più lontano dai problemi avvertiti come urgenti, è l’educazione. Lo abbiamo sempre detto, e oggi lo ribadiamo, più che mai. E questo ha implicazioni concretissime. Vuol dire investire sulla scuola, sulla formazione... Poi, sul lavoro. Inteso non solo come recupero di posti e di opportunità, ma anche - su questo papa Francesco insiste molto - come necessità di reimparare cosa vuol dire lavorare, su cosa vale la pena investire le proprie energie per il bene di tutti. Perché questo è il lavoro: non solo profitto, ma capire come quello che facciamo possa servire alla totalità. Dal canto loro, le istituzioni dovrebbe ricominciare a sostenere una fiducia. La crisi che ha attraversato tutta la Seconda Repubblica deriva da una cultura del sospetto che si è generata nel sentire comune all’inizio degli anni Novanta, con la vicenda di Mani pulite. Senza recuperare una fiducia nel tentativo umano, diventa difficile ricostruire.

E che cosa serve per questa educazione?
Dei soggetti che vivano un’appartenenza ideale, gente per cui i criteri e i giudizi che fondano le scelte - e quindi anche le proposte pubbliche - siano dentro una storia. Il nostro Paese ha sempre avuto questa caratteristica: è nato dall’incontro tra realtà che avevano idee e storie diverse, magari si confrontavano pure in maniera accanita, ma erano, appunto, soggetti con delle proposte, che hanno contribuito a costruire il nostro Paese in un momento difficile come il Dopoguerra. C’è bisogno di tornare lì, come livello. Gente che crede in ciò che vive ed è disposto a scommettere su questa proposta per tutti.

Il volantino di CL in vista del Referendum

Che compito abbiamo noi, adesso?
Andare a fondo della nostra esperienza. E intercettare gli altri soggetti che stanno compiendo lo stesso percorso, per lavorarci insieme. Anzi, per certi versi questi due aspetti coincidono. Fa proprio parte del nostro Dna: il modo in cui approfondiamo la coscienza di noi stessi è nell’incontro con chiunque. Non è in un’autoriflessione: è nel giocare pubblicamente la nostra identità e la nostra appartenenza con tutti. Questo può anche talvolta produrre qualche ostilità, non solo degli amici. Ma certamente ci aiuta a riconoscere chi ha lo stesso desiderio nostro, magari espresso in forme diverse, che all’inizio potrebbero apparire distanti... Ma è sempre stato così: quante volte don Giussani ha avvicinato gente anche molto lontana, ma in cui vedeva questo impeto di verità comune?

Perché parlavi di «qualche ostilità»?
Per noi il problema non è mai cercare il consenso, ma fare il nostro cammino alla verità dentro la storia. Lasceremo una traccia nella misura in cui questo cammino è vero, e non ideologico. Per questo non abbiamo paura di sbagliare, ma non abbiamo paura neanche di chi può non riconoscere e magari anche contestare una presenza così. Il criterio per giudicare la nostra presenza non è il consenso, ma se noi cresciamo come consapevolezza del nostro compito nella storia, che è la gloria umana di Cristo. Che Cristo sia conosciuto, sia riconosciuto come il senso dell’uomo e della storia.

Come si prosegue, allora?
Sarà molto importante nei prossimi mesi che ci aiutiamo a identificare esempi di tentativi che costruiscono. Perché l’educazione si fa soprattutto attraverso dei tentativi. Non è che uno “sa già” e poi insegna agli altri: mentre educhi, sei educato. Si va per forza per tentativi, che magari richiedono correzioni. Per questo è fondamentale individuare chi ha il coraggio di rischiare su un’idea giusta. Noi dobbiamo avere la libertà di scommettere nell’indicare i tentativi che ci appaiono più veri, che nascano da noi o fuori di noi. È il primo aiuto che ci possiamo dare. Perché oggi c’è bisogno di speranza. E la speranza la dai solo se c’è una presenza certa, esempi che incarnano un tentativo buono di realizzare ciò che si desidera, fanno vedere che è possibile. Oggi il Paese ha bisogno soprattutto di indicare esempi così, di sostenerli. E di correggersi, dove si vede che le cose non vanno in questo senso.

Ma tu che esempi vedi in atto?
Per dire, in quello che ha fatto il Governo passato non è tutto da buttare. Alcune cose sulla scuola sono state fatte, e ci si è arrivati con un lavoro comune, come ricordava Gabriele Toccafondi proprio in un’intervista a Tracce.it. O sul tema del lavoro: ho in mente tante realtà anche poco strutturate, nate dal basso e coinvolgendo esperienze diverse, che aiutano la gente a ritrovare un posto e, soprattutto, a riscoprire il valore del lavoro. Parlo dell’idea che il frutto di quello che faccio non è soltanto ciò che mi viene in tasca, ma la costruzione di qualcosa di più grande, che possa durare e possa essere anche per altri. E della consapevolezza che questo è un vantaggio per me.

Si torna al documento: “L’altro è un bene per me”...
Sì. È quindi bisogna che nel Paese riparta un senso condiviso del fare insieme, per costruire qualcosa di più grande e duraturo del proprio tornaconto.