A chi serve il mio lavoro?

Crisi. Precarietà. Disoccupazione. Lo scenario cambia in fretta, la battaglia per trovare il proprio posto apre domande anche in chi un impiego ce l’ha. Che cosa si può imparare da questa sfida? Parla Giorgio Vittadini (da Tracce, febbraio 2017)
Paolo Perego

Quali sono i criteri per scegliere un lavoro? Cosa fare quando non si è soddisfatti del proprio posto? Si può accettare un impiego che non piace? Per quanto? E aspirazioni, desideri e ambizioni, quanto contano? Come conciliare famiglia e carriera? «Sono domande che mi sento spesso rivolgere dai giovani, ma che toccano tutti, anche chi lavora da anni: sono la spia di una situazione che si fa sempre più stringente», dice Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e professore di Statistica metodologica all’Università di Milano Bicocca, con all’attivo anni di ricerche sul tema. La realtà parla di precarietà diffusa, di stipendi ridotti, di grande competitività, di sottoccupazione e disoccupazione preoccupanti. Ma anche di sempre più tempo dedicato al lavoro. E poi ci sono i numeri di una crisi che non smette di farsi sentire dal 2008, con una disoccupazione al 12% che sale al 30% nella fascia tra i 18 e i 29 anni (o al 40% se si considera il range 15-24). E un futuro nebbioso davanti. «In un panorama del genere, in continuo mutamento e pieno di incertezze, il rischio più grande è quello di rimanere schiacciati».

Partiamo da questo contesto, allora. Lei ha fatto degli studi sul capitale umano e sui cambiamenti che hanno investito il rapporto tra il lavoro e la persona (vedi Tracce di gennaio). Cosa c’è in gioco?
Una concezione, innanzitutto. Meglio, l’inizio di una battaglia tra due concezioni. La prima concepisce il lavoro come qualcosa di onnicomprensivo, che ha in sé il suo significato, per cui tu sei il lavoro, la tua carriera, senza una tua identità, appiattito e funzionale all’azienda. E senza ideali, determinato solo a raggiungere un guadagno individuale. Prima della crisi, sembrava che il benessere collettivo potesse nascere soltanto da questa mancanza di valori, da questo egoismo del singolo, come nella favola settecentesca delle api di Bernard de Mandeville. Si è visto nella crisi finanziaria come, invece, questo porti spesso a effetti perversi, anche per la persona normale, che ha avuto successo. Magari si sacrifica tutto per la carriera, ma quando questa si rivela matrigna e lo molla, uno a quaranta-cinquant’anni si sente finito, depresso perché è andato avanti convinto che vale solo chi riesce.

Ma molti sembrano fuggire dal lavoro, lavorano male...
È la stessa concezione, alla rovescia. Pensare che la vita sia da un’altra parte, fuori dal lavoro. Cedere a questa logica vuol dire chiudersi nella parrocchia, in un sindacato, in famiglia, negli hobbies, in altro. Pensando che l’azienda sia una sorta di vacca da mungere: porto fuori lo stipendio, viaggio al minimo, «mia cara azienda, il tuo destino non è il mio». Anche in questo caso si è disumani, divisi, alienati come chi concepisce la carriera come unico ideale.

Giorgio Vittadini

Qual è, allora, la concezione alternativa?
Ci sono sempre più evidenze empiriche che mostrano come sia necessario recuperare nel lavoro aspetti legati alla persona nella sua originalità, di cui parlavo in quell’articolo su Tracce: stabilità emotiva, amicalità, apertura all’esperienza, per dirne alcune. Molti esperti di risorse umane ed economisti, in primis James Heckman, Premio Nobel per l’Economia, si sono accorti che persino la produttività sul lavoro spesso si coniuga con questi aspetti. Qualche giorno fa, un docente di Finanza di Denver mi ha scritto a questo proposito, dicendomi che ultimamente iniziano a trovare spazio, in maniera inedita, teorie che mostrano come il background educativo e culturale, l’età e i tratti del carattere, contribuiscano a spiegare alcune variabili anche nel suo mondo. La domanda, allora, è se la “persona” c’entra o meno con un risultato economico, se fa la differenza.

E lei cosa risponde?
Che c’entra, eccome. E ce ne stiamo accorgendo sempre di più. Si è cominciato a riscoprire che perfino i grandi imprenditori non sono pescecani ammalati di successo, ma persone che partono da “qualcosa d’altro”.

Per esempio?
Pensiamo al mito laico di Steve Jobs. Che va a Stanford con le infradito, che non si laurea e studia solo calligrafia. Il suo grande contributo, più che di tipo informatico, è stato di tipo comunicativo: ha intuito che davanti allo schermo c’era una persona, nella gran parte dei casi con poche conoscenze tecniche. Lui si è immedesimato con questa persona e si è inventato oggetti semplici da usare come Mac, iPhone e iPad. Tutti i grandi geni imprenditoriali sono persone così. Un manager può accontentarsi di gestire, ma un imprenditore che inventa e sviluppa un nuovo prodotto deve avere una genialità umana, una capacità di intuire il bisogno delle persone, di capire quali possano essere punti di fuga positivi della realtà. Il “genio dell’umano” è anche all’origine dello sviluppo economico. Un’espressione di Saint-Exupéry dice che per costruire la nave non basta mettere insieme manovali, materiali, progetto: devi avere il senso dell’infinito del mare. La ricerca sui character skills, a cui abbiamo accennato, ci fa riflettere su questi aspetti. Purtroppo, anche tanti tra quelli che cominciano a riconoscere gli effetti positivi sul lavoro dei non cognitive skills, pensano che siano solo nuovi meccanismi dell’uomo.

In che senso?
Pensi all’idea del team building, la nuova tecnica di formazione manageriale. Si crede che per formare la creatività di una persona e renderla capace di essere pronta al cambiamento, la si debba porre in condizioni estreme in cui possa sviluppare reazioni altrettanto estreme: ritrovare l’albergo di notte in un bosco, fare rafting... Invece occorre che riscopra il suo cuore, la sua ragione, la sua capacità di leggere la realtà, il gusto per la sua libertà, il desiderio di una felicità piena e integrale. È “qualcosa d’altro” che non può essere indotto attraverso nuove procedure. “Qualcosa che viene prima” del lavoro, che “nasce” fuori dall’azienda, che non appartiene all’azienda. E questo spesso è uno scandalo.

Perché?
Come dicevamo prima, normalmente prevale il pensiero che nessuno può esserti utile se non ne sei padrone. Invece è l’opposto. Proprio perché uno è libero, può servirti meglio. Sotto l’Impero romano, i primi cristiani non hanno mai messo in discussione il potere. Semplicemente dicevano: «Io non ti appartengo». Potevano essere soldati, ma senza incensare l’Imperatore. Santi come Nabore, Felice, Gervaso e Protaso, che si sono fatti ammazzare per questo. Qui è la stessa cosa. La sfida è che io servo l’azienda, ti aiuto e lavoro, proprio se mi lasci libero prima. Mentre ti viene detto: «No, io voglio tutto».

Ma cos’è questo “qualcosa che viene prima”?
È il cuore della persona. È ciò che fa desiderare qualcuno o qualcosa che risponda al tuo bisogno di felicità, di giustizia, di bellezza. È ciò che ti fa desiderare un senso in quel che fai, è il tuo character, la tua personalità nella sua origine profonda.

Che cos’è questa origine?
Il cuore del lavoro è un amore a ciò che si ha davanti, alla condizione di lavoro, anche difficile. Come Vincenzina della canzone di Enzo Jannacci. Perché ci sono persone che fanno lavori umili e sono sempre contente? Innanzitutto perché sanno che, con il loro lavoro, con lo stipendio che prendono, permettono a qualcuno che amano di vivere. Penso a chi emigrava per andare in miniera, gente che amava la famiglia e che, magari, la lasciava per andare all’estero. Tutti i giorni sottoterra per chilometri. Una vita pericolosa per mandare a casa i soldi. L’affezione dava ragione a tutto questo. E poi il gusto di contribuire con la propria fatica al benessere del proprio popolo. E ancora, la percezione, anche in un lavoro umile, che si sta trasformando la realtà per renderla migliore.

Allora il problema è che non c’è più questa consapevolezza?
Dire così è difensivo. Si fa presto a dire che non c’è più niente. Bisogna andare a cercare questi esempi. Vederli. Gente di buona volontà, che senza avere un “prima” o un “dopo”, magari non sa perché, ma quel pezzo di realtà che ha davanti lo prende seriamente. Quante badanti lavorano tantissimo per mandare i soldi alla famiglia? Vogliono bene a qualcuno e con questo voler bene danno ragione di quello che fanno. Lo stesso vale per tanti immigrati. La sera di Natale ho incontrato un ragazzo che vende fiori per strada. Fa fatica a fare quel lavoro, difficile vivere di quello; risparmia sul cibo perché mantiene i suoi in Bangladesh. Aveva un lavoro fisso che ha perso, ma guardarlo vendere i fiori dà un’idea di amore al lavoro, perché è legato a un’affezione. È una priorità diversa, che però cambia la circostanza.

Ma sono casi limite, questi...
No, tanta gente ama il proprio lavoro. Ragazzi che vogliono incidere sulla realtà e costruire un futuro per sé, per la nazione a cui appartengono, o magari emigrando. Mamme che vogliono curare la famiglia e lavorare. Insegnanti che continuano a educare in scuole degradate. Gente che ha gusto nell’imparare un mestiere o nello scoprire le opportunità - non contro, ma per l’uomo - delle nuovissime tecnologie, come quelle dell’industria “4.0”. Lavoratori e imprenditori che fanno di tutto per salvare una fabbrica o creare nuova occupazione. Gente che lavora con passione anche se ha contratti precari.

Come si fa a vivere in modo umano il lavoro?
Penso che occorra ricordarsi i tre criteri di cui parla don Giussani a proposito della vocazione. Innanzitutto, uno non può che partire dal suo cuore, dal suo desiderio, dalle sue aspirazioni, dalle sue passioni, dai suoi talenti. Oggi spesso non si guarda a questo perché non ci si fida di se stessi, non ci si accorge di avere un cuore in cui c’è qualcosa di bello. L’inclinazione personale, invece, è un dono. Per capire se queste inclinazioni si possono realizzare c’è solo un modo, che è il secondo criterio: verificare dai segni del reale se si possono realizzare così come sono o se debbono modificarsi in base ai suggerimenti della realtà. Scoprendo inoltre che questi mutamenti di rotta non sono un di meno per la realizzazione di sé, ma solo una precisazione della strada. Anni fa c’erano ragazze che, magari dopo la morte dei genitori, non si sposavano, smettevano di studiare e andavano a lavorare per accudire i fratellini. Questo può avvenire tante volte nella vita, anche nelle circostanze più complicate. E, terzo, non bisogna demonizzare ma valorizzare chi guardando quel che capita intorno a sé, vuole mettersi a disposizione per servire la realtà nei suoi bisogni più evidenti: per cui può, ad esempio, fare il medico o l’infermiere per alleviare i bisogni dei malati, o voler istruire, o dedicarsi ai poveri... E fare questi mestieri se riesce.

Tutt’altro che una questione di bilancia o calcolatrice, quindi.
Sì. Occorre educare a riconoscere le proprie inclinazioni, a obbedire alla realtà, a muoversi con gratuità. Può avvenire solo attraverso esempi adulti che accompagnino e indichino la strada. Ho in mente esempi come Galdus a Milano, Cometa a Como, Piazza dei Mestieri a Torino e altre realtà che hanno rilanciato la possibilità di imparare un mestiere: pasticcere, estetista, falegname... Non come ripiego per ragazzi il più delle volte a rischio di dispersione scolastica. Cosa fanno i giovani in questi ambienti? Guidati, mettono le mani in pasta, provano. E iniziano a scoprire che possono amare quello che fanno. Non solo insegnando loro la tecnica, ma facendoli appassionare. Serve qualcuno che dica: «Prova, guarda, fai, disfa». Che ti faccia scoprire il tuo cuore. Il lavoro si “perde” perché uno ha perso il cuore. E quindi quella capacità di costruire che ha dentro. Se tu recuperi il cuore, recuperi una pista per lavorare.

Insomma, occorrono testimoni. Ma chi?
C’è bisogno di persone che danno la vita perché un altro viva. «Non c’è sacrificio più grande che dare la vita per l’opera di un altro». Gente che nel lavoro quotidiano abbia gusto e lo faccia venire ad altri, insegnando tecniche e voglia di lavorare qualunque sia la condizione in cui ci si trova.

E la fede, cosa aggiunge?
Quando ho iniziato io a lavorare, mi hanno mostrato un quadro e, nascosta dietro, una croce. Come dire: «Vedi? Nessuno la toglie, ma qui non si deve vedere». Di fronte all’obiezione che per essere lì dovevo essere “solo università”, ho percepito che per me la fede non era un’appartenenza ideologica da nascondere od ostentare. Era Uno che mi faceva compagnia, lo stesso che aveva fatto il carpentiere duemila anni prima. Lui ha dialogato con il mio cuore, come presenza invisibile sempre vicino a me, scolpito nei volti della comunità cristiana in cui si è incarnato e che mi hanno corretto, ispirato, confortato, consigliato e, soprattutto, insegnato a riconoscerlo con me. Che aiuto a vivere il lavoro in modo più umano!