C'è una terra più in là
L'Assemblea dei responsabili di CL con Julián Carrón. In trecento da venti Paesi di tutto il Continente. La loro amicizia. E i dialoghi senza sconti, dalle crisi politiche al gender. «La fede non basta, se non sappiamo cos'è la fede»«Non plus ultra». Sono le tre parole che la tradizione vuole inscritte sulle colonne d’Ercole, il limite estremo del mondo. Nella facciata della cattedrale di Santo Domingo, la prima delle Americhe, sono scolpite, ma senza il “non”: «Plus ultra», perché ciò che era impensabile esiste. C’è qualcosa - e molto - al di là del conosciuto.
Nel Continente dove la fede è arrivata a rompere i limiti del prevedibile, quel motto è stampato sulle maglie dei volontari e sui trecento libretti dell’Assemblea responsabili di CL dell'America Latina (Aral), che compie dieci anni. Il logo scelto non è un'evocazione poetica, è sapere che c’è una navigazione ancora più audace: l’ideale della vita è un sogno o si tocca, esiste? Non c’è niente di ovvio nei tre giorni di dialogo (17-19 marzo) tra Julián Carrón e gli amici arrivati a San Paolo da venti Paesi, dopo viaggi a volte più lunghi del soggiorno.
È passato un anno di cammino e le condizioni di vita in molti posti sono più pressanti, ridurrebbero in cenere ogni desiderio. Per alcuni, invece, no. «Amo di più la vita ora di prima». Jenny è una giovane mamma di El Tocuyo, un paesino rurale ai piedi delle Ande, al Nord del Venezuela, dove la crisi non risparmia nessuno: con gli amici ha creato una rete di distribuzione del cibo per le famiglie più bisognose. È troppo felice di poterlo fare. «È troppo quello che ho ricevuto», precisa lei: «Incontrare Cristo è una grazia così grande che per ringraziare abbracci la vita come viene».
Ogni giorno si fanno i conti con il travaglio sociale del proprio Paese. O con il proprio male. Con la perdita del lavoro, della fiducia, o con la paura di perdere tua figlia che ha deciso di volersi de-battezzare, come racconta Juan José, argentino, che di schianto dopo trent’anni di CL si è accorto di non saper amare la libertà. Di non sapere nemmeno cos’è quella «libertà pura» su cui Giussani ha scommesso tutto. Però intravvede qualcosa: il modo in cui due amici, don Eduardo e padre Leo, trattano sua figlia, e lei si apre, mentre con lui è uno scontro continuo, dove anche gli insegnamenti del movimento diventano un’arma. «Dio ti risponde nella realtà con quegli amici», suggerisce Carrón, «rompe il tuo incastro e ti fa chiedere: se con me si scontra, io cosa devo imparare?».
In Uruguay i giornali raccontano di una ragazza, decisa ad abortire, e del suo fidanzato, che va in tribunale perché vuole tenere il bambino. Inaspettatamente, il giudice dà ragione a lui e il Paese si spacca in due. «Nei dibattiti che si sono scatenati, le opinioni sono uno tsunami», racconta Agustín: «Io ho chiaro il giudizio, non ho dubbi sulla cosa, eppure mi sembra di non trasmettere il vero. È come se partissi da una certezza per finire a difendermi, in un’insicurezza». «Questo è decisivo», dice Carrón: «Perché passiamo dalla certezza alla insicurezza?». La domanda resta aperta.
I problemi politici e sociali non tormentano solo l’opinione pubblica, ma famiglie e amicizie. Ernesto è un ragazzo venezuelano: «Leggevo la Scuola di comunità sulla “posizione” a cui la Chiesa ti educa e non capivo. Poi è successo un fatto. Nella mia famiglia ci sono divisioni forti. Un giorno mi trovo davanti due miei zii: uno chavista e l’altro anti-chavista. Entrambi mi chiedono del movimento, vogliono sapere, ed io racconto. Restano affascinati, e come loro anche mia cugina, che qualche tempo dopo mi dice: “Sentendoti parlare così della fede, ho chiesto al mio ragazzo di andare in chiesa”. Con lei sta nascendo un’amicizia bellissima». «Perché tu puoi essere interessante per chi è di posizioni opposte? Per l'appartenenza a un'esperienza che ti libera, che spezza il meccanismo azione-reazione. Comunque amici, la situazione del Venezuela è molto drammatica», continua Carrón: «Un ragazzo che la vive con letizia non è un aneddoto. Che cos’è?». Altra domanda che si apre, e sono tante in questi giorni, come chiedersi il perché esista un’affezione, un’unità così potente, tra persone che non si vedono mai. O la gratuità degli amici brasiliani e dei volontari, che servono il gesto e i bisogni di chiunque, a qualsiasi ora.
Gianni in Cile ha un’officina meccanica. Un suo dipendente gli chiede un permesso: deve accompagnare la ragazza ad abortire. Non può rimanere in silenzio per il dolore, cerca di parlargli. Giorni dopo, il ragazzo gli comunica che non ha più bisogno del permesso, perché hanno cambiato idea: «Non è per quello che mi hai detto. Ma per come me lo hai detto». Poi racconta di tre ragazzi che arrivano per l’apprendistato. Lui crede molto nell’importanza di trasmettere il lavoro ed è sempre contento di accogliere i giovani. Li riceve per il colloquio, li ha davanti tutti e tre. Parte il primo: «Mi chiamo Paula». Anche il secondo si presenta come una femmina. Il terzo no, ha un nome maschile. «L’impatto è stato drammatico», racconta: «E tutto ciò che ho fatto è stato dargli il lavoro. Perché io sono stato guardato per la verità di me. Cosa posso dire per ora? Che sono meravigliato, lo siamo tutti in officina, per come lavorano. Sono bravissimi, uno spettacolo». «Questa è ambiguità?», provocherà Carrón: «È mancanza di certezza? Noi pensiamo che la certezza sia intransigenza. È il contrario. Chi è più fragile, è più rigido».
Si vede in modo imponente nella testimonianza della prima sera: Valdeci Antônio Ferreira, il presidente della Federazione delle Apac, le prigioni senza polizia né armi (troverete un’intervista su Tracce di aprile). Valdeci racconta la rivoluzione giudiziaria e sociale di un’opera che «non è mia, non è nostra, è il sogno di Dio davanti all’abbandono dell’uomo». È Valdeci ad aver deciso di dare le chiavi dell’Apac in mano a José, il detenuto che era scappato dodici volte dalle carceri comuni, e che rispondendo alla domanda di un giornalista ha dato un nome a questa rivoluzione: «Perché da qui non fuggi?». «Perché dall’amore nessuno fugge».
«Che cosa possiamo fare per noi, per i nostri amici, per i nostri figli, per i nostri Paesi?», chiede Carrón il giorno dopo. Le grandi mani che abbracciano il figliol prodigo di Rembrandt campeggiano dietro il palco: «Quel padre non lo ha costretto, non ha dato risposte a domande che non c’erano, e ha rispettato la libertà senza abbandonarla: ha continuato a costruire la casa che potesse accoglierlo, mostrando, semplicemente, che una possibilità di vita diversa esiste».
Oliveiro è messicano. Cinque anni fa si è presentata nella sua pasticceria la madre di un amico di gioventù, chiedendogli aiuto, perché il figlio era depresso e alcolizzato. «Mi ha colpito innanzitutto lei», racconta Oliveiro: «Aveva la certezza di potersi fidare, per un minimo di fede che ha visto. Io ho cercato suo figlio e in questi anni è nata un’amicizia». Finché un giorno l’amico lo chiama, gli chiede di andare a casa sua, e di non scandalizzarsi. Si è fatto dei tagli sulle braccia e ai polsi. Gli dice: «Io ho 35 anni, non ho mai lavorato, ho una ragazza e non so cosa darle, bevo… Ma tu, perché in questi cinque anni non mi hai mai detto nulla?». «Io ho la tua fragilità. Ma ho incontrato altro». E gli racconta. Una settimana dopo, l’amico va da lui e lo guarda negli occhi, cosa molto rara: «Ti voglio ringraziare. Per l'abbraccio dell'altro giorno. Ho deciso che voglio vivere quello che vivi tu». «Questo è quello che chiedo, per me e per lui», conclude Oliveiro: «Riconoscere il luogo in cui sono guardato in modo vero, in cui trovo tutta la mia dignità umana».
La verità di cui tanto si ha bisogno non si impone, si svela in un incontro, dove la libertà si apre. Solo così è illuminato «il lato costruibile» di ogni situazione, personale e sociale. Verità e libertà. Questo, che è il cuore della Bellezza disarmata, tradotta in spagnolo e in portoghese, non è un problema europeo, ma sfida il passato e il presente ovunque.
Lo si vede nel dialogo in cui Carrón risponde alle domande di Victor Vorrath, giornalista messicano, di Juan Sebastian Vargas, imprenditore colombiano, e di Horacio Morel, avvocato di Buenos Aires, a partire dai tre fatti che segnano il volto del Sudamerica oggi: il muro di Trump, il processo di pace con le Farc e la riconciliazione in Argentina dopo il regime militare. Perché optare per la testimonianza come presenza e non come militanza? Che cos’è il vero dialogo? Come si fa ad uscire dallo scetticismo che la fede possa davvero incidere nelle situazioni? Dalla crisi migratoria alla teoria gender, sembra che la fede non basti.
Carrón dice: «La fede non basta, se non sappiamo cos’è la fede. La fede non è un equilibrio tra “entrare nel merito” delle cose o “starne fuori”. Noi, per difendere i valori più sacri, la prima cosa che diciamo è: “Queste non sono questioni confessionali, queste sono cose che tutti riconoscono”. No! Non è così. E pensarlo ancora è il nostro primo sbaglio. Manca l'origine». Riprende il Concilio Vaticano II e la grande alternativa tra una fede ridotta ad etica e la vera natura del cristianesimo: «Tutto quello che accade è perché possiamo riscoprire che la chiave di volta, la risposta più concreta a tutto, è l’incontro che hanno fatto Giovanni e Andrea. E che abbiamo fatto noi».
Insiste su questo anche nella seconda serata, nel dialogo a cuore aperto con quattro educatori da Argentina, Brasile, Messico e Cile e un suo ex allievo di Madrid, che racconta: «Eravamo nella scuola più laica della città. E lui ci sfidava sempre. Per esempio, il venerdì ci diceva: “Vi auguro che si avverino tutte le cose che desiderate per il weekend”. Così avremmo potuto intuire il bisogno infinito che abbiamo dentro».
La stessa spinta a guardare l’esperienza che ha caratterizzato l’incontro con gli universitari, il primo giorno di Aral. Un botta e risposta dove niente è assodato. Guillermo di Belo Horizonte racconta la sua caritativa con le donne in carcere e il desiderio di trasmettere loro il valore infinito che hanno. «Perché dici che queste donne hanno un valore infinito?». Silenzio. «Come lo sai? Perché tu hai un valore infinito? Se sei un poveretto come me, se nasciamo e moriamo, dove è questo valore infinito? Lo ripeti come un mantra?», incalza Carrón. Lui risponde di averlo visto in Rose Busingye, dall’Uganda, quando è venuta a Rio de Janeiro: «Desidero avere la sua stessa coscienza di questo». «Lo hai visto. Ecco perché lo sai, anche prima di capirlo», continua Carrón: «Come i discepoli con Gesù, che prima di comprendere il valore infinito della vita hanno capito che il rapporto con quell'uomo era essenziale alla vita. E tu ne avrai coscienza sempre più e lo trasmetterai sempre più, se ti lasci generare dal luogo in cui hai iniziato a intuirlo. E sarà una scoperta molto più grande di quello che hai immaginato». Esiste una terra più in là.
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