Violante, Bersanelli, Carrón all'incontro del Centro Culturale di Milano (foto di Pino Franchino)

La ragione, il divano e l'alleanza

La crisi del mondo nato dall'Illuminismo. L'educazione, la libertà. E l'importanza di «parlare con chi è diverso da noi». Cronaca e video integrale del dialogo tra Luciano Violante e Julián Carrón sulle domande nate dall'intervista a "Jotdown"
Alessandra Stoppa

«Ma cosa c’entra lei con Violante?». «E cosa c’entra lei con don Carrón?». Se lo sentono chiedere entrambi dalla giornalista Rai che li intervista prima dell'incontro, i due ospiti di ieri sera al Teatro Dal Verme di Milano, strapieno. Cosa tiene insieme il Presidente emerito della Camera dei Deputati e la guida di CL? La risposta la esplicita don Julián Carrón a un certo punto: «Ci tiene insieme la nostra esperienza. Ci accompagniamo, per capire cosa sta accadendo. E così provare ad offrire una risposta». Questa serietà di tentativo darà intensità a tutta la serata, peraltro molto densa di spunti e prospettive, dalle nuove tecnologie alla politica, al rapporto tra generazioni.

È stato lo stesso Luciano Violante a suggerire che l’intervista di Carrón al magazine spagnolo Jotdown fosse oggetto di un dialogo pubblico, per non perderne la portata. È stato tra i primi a cogliere la provocazione di quella lettura del cambiamento d’epoca, che «ha suscitato dibattiti anche in alcune scuole e in università. Studenti e insegnanti si sono trovati a leggerla insieme», spiega l’astrofisico Marco Bersanelli, moderatore, che racconta come è nato l’incontro del Centro Culturale di Milano: «Sono emerse così tante domande da questo lavoro tra i ragazzi, che abbiamo voluto raccoglierne alcune». Sono le domande che scandiscono la serata, fatte da studenti, liceali e universitari, un insegnante e un genitore. La prima è di Bersanelli, che chiede a Violante che cosa l'abbia colpito della riflessione di Carrón.



La stessa mattina in cui è stata pubblicata l’intervista, Violante aveva inviato a L’Osservatore Romano una riflessione parallela, proprio sulla crisi del mondo nato dall’Illuminismo ("Come gattini ciechi"). «Questo mi ha colpito», dice: «Che avessimo avuto la stessa impressione da posizioni diverse». La riassume così: «Si tratta di ripensare il peso della ragione. A prevalere oggi è l’emozione. Siamo di fronte a una riedizione del Romanticismo». E dei suoi temi tipici: la Patria contrapposta all’Universo, il popolo come detentore della verità, l’eroe solitario… «E l’altro aspetto che mi ha molto colpito», continua, «è la novità di lettura sull’altro: non ci crea problemi, ma svela i problemi che abbiamo. Pone domande a noi». Un esempio quotidiano: «Mi trovo davanti a una persona handicappata, o ad un immigrato, ed io sono in difficoltà. Il problema è mio, non suo. Il problema è come capisco - o non capisco - il vero valore della persona, il riconoscere o no che l’altro mi permette di scoprire me stesso».

Carrón dice che per temperamento ama guardare le cose in faccia: «Ho cercato di capire di più le sfide che stiamo affrontando. Se non le comprendiamo non possiamo affrontarle. Ma c’è bisogno del tempo per capire». Per lui la chiave, che «forse non esaurisce tutto ma è illuminante», è stata la riflessione di Benedetto XVI sull’Illuminismo, uno sguardo pieno di positività che ha visto in quegli uomini «il tentativo di salvare i valori fondamentali del vivere, dopo le guerre di religione». Il problema è stato «aver pensato che quei valori fossero un’evidenza che sarebbe durata nel tempo. Invece è fallita. E questo spiega anche lo spaesamento di oggi». Divisioni su questioni che qualche decennio fa non erano nemmeno messe in discussione; i grandi valori che hanno plasmato i diritti, le legislazioni delle nazioni, e che non resistono più. «Se non capiamo veramente cosa accade, proponiamo risposte che si sono già rivelate fallimentari».



Si entra nel vivo. Michele (quarta liceo Classico) chiede se, nel cercare basi solide su cui fondare la società, siamo destinati a un ciclo: «Ad arrivare in cima per ricadere in basso e ripartire da zero». «Credo che non siamo destinati a questo», risponde Violante: «Siamo destinati a riflettere su come abbiamo usato la ragione. Ho l’impressione che ci siamo seduti sulla ragione, come fosse un comodo divano, non l’abbiamo utilizzata come uno strumento di costruzione, ma come strumento di identità propria». Pensa a tutti i problemi che abbiamo allontanato ritenendoli fastidiosi - quel complesso di comportamenti che è il “politicamente corretto” - e pensa ai “dimenticati dalla ragione”: se non uso bene la ragione, inevitabilmente dimentico un pezzo di società, perché non affronto i problemi in tutta la loro ampiezza, ma cerco solo di apparire bene. E questo porta al conflitto sociale. Fa riferimento alla campagna elettorale americana o all'anziano che lo ha fermato per strada, in un paesino della Calabria, e gli ha chiesto di spiegargli perché gli immigrati ricevono due euro al giorno e suo figlio disoccupato no.

«La ragione è uno strumento difficile, anche doloroso», affonda Violante: «Ti rivela i tuoi limiti, la fallacia delle tue interpretazioni. Ci siamo sdraiati sulla ragione, al posto di usarla come uno strumento - passatemi il termine - di lotta, di impegno, di lettura, di trasformazione». Sdraiarsi sulla ragione vuol dire essersi abbandonati all’idea che «comunque avevamo ragione, che eravamo quelli che avevano interpretato bene la realtà». È un tema che riprende spesso lungo la serata: la difficoltà di mettere in discussione se stessi. «Per questo il rapporto con l’altro lo evitiamo, rifugiandoci nel cellulare, negli sms o in ben altro. Lo evitiamo perché è impegnativo verso noi stessi».

Su uno stesso filo si gioca per lui la vita personale come la vita democratica: «Finiamo per relegare l’intelligenza nell’artificiale e l’emozione nell’umano, mentre la ragione deve essere interna alle nostre vite. L’emozione è cattiva consigliera. Le difficoltà in cui si trovano le democrazie dipendono da questo non affrontare in modo ragionevole i problemi».

Carrón prende il testimone e continua la corsa, arrivando al punto più sensibile, dove converge il resto: la libertà. «Siamo abituati al progresso materiale, tecnologico, che si sviluppa sempre più veloce e non torna mai indietro. Pensiamo valga lo stesso nel campo della vita umana, ovvero in tutto ciò in cui entra in gioco la libertà. Allora siamo spiazzati: com’è possibile che certe cose, riconosciute dalla ragione così palesi in un dato momento, possano poi non essere più evidenti? Perché la libertà dell’uomo è sempre nuova! È come in una famiglia: i genitori possono fare tutto il possibile per trasmettere una concezione delle cose, ma il figlio non è un loro prolungamento. È lo stesso per i valori fondamentali, per come mi rapporto con lo straniero che arriva a casa, con chi è alla fine della vita… Abbiamo un tesoro davanti, si può accoglierlo o rifiutarlo». Chi promette il "mondo migliore" fa una promessa falsa: «Falsa perché ignora la libertà. Le strutture buone aiutano, ma non bastano», continua Carrón riprendendo Benedetto XVI, «perché l’uomo non può mai essere redento semplicemente dall'esterno». Questa è la sua grandezza, questo è il grande rischio.



Uno dei punti di unità più evidente tra i due ospiti è il vedere, in tutto quanto accade, una possibilità di protagonismo assoluto per ciascuno di noi. «Lo scontro tra il bene e il male non è già risolto. Per questo ha senso vivere», spiazza Violante rispondendo alla domanda di uno studente su come ristabilire nuovi valori: «La vita ci impegna continuamente a trovare il modo di affermare i valori. O aspettiamo che qualcuno ci confezioni un mondo, o siamo chiamati a farlo noi. Vediamo che l’emozione non è uno strumento d’ordine, ma la battaglia della ragione è tutt’altro che perduta. La vita perde senso per coloro che smettono di impegnarsi». Poi precisa: «A volte il dolore, la fatica, sono troppo grandi e bisogna avere comprensione per chi vive questo, ma la vita è un impegno oppure è un lasciarsi vivere».

E invita a conoscere, conoscere, conoscere: «Il 2007 è stato un anno di innovazioni che hanno cambiato radicalmente la nostra vita». Fa un elenco, dall’iPhone all’accesso ai Big data, da AirBnB al superamento del silicio nei microprocessori. «E quando a una conferenza sentiamo dire che una poesia di Montale in realtà è prodotta da un algoritmo, la prima reazione è: "Queste cose mi fanno paura…". Abbiamo paura di ciò che non conosciamo».



«Spesso vediamo che un’esperienza di bellezza, di attrattiva non porta a un impegno etico duraturo. È possibile educare la libertà?», chiede Melissa, studentessa di Medicina. «Se l’uomo aderisse al bene automaticamente, si pagherebbe un prezzo troppo alto», ricentra Carrón: «Il prezzo della libertà stessa. Dice Péguy: a chi interesserebbe una salvezza che non fosse libera? Un mondo più umano è un modo di uomini liberi. Ma sappiamo che generare uomini liberi significa creare spazio alla possibilità del male, che fa soffrire noi e gli altri. Come educare la libertà? Sfidandola continuamente con un’attrattiva, testimoniando che la vita può essere più umana, più accogliente. Come una madre che per far sorridere il bambino continua a sorridergli, continua, non cambia metodo, anche se deve aspettare».

Proprio sui legami è la domanda di Bernardo, studente di Lettere: come si può sperare quando a essere instabili sono i rapporti fondanti, come quello con i genitori? Violante prende spunto da come la tecnologia, ormai fattore esistenziale a pieno titolo, abbia invertito i rapporti: «I padri, i nonni, i “grandi” non sono più depositari di saperi che i giovani non hanno. È quasi il contrario. Mio nipote ha una sapienza che io non ho. Eppure io devo educarlo a utilizzare quel che sa. Bisogna ricreare l’alleanza. È fondamentale la questione delle relazioni: avere legami è un fatto di libertà. Il legame ti rende più libero, perché ti cambia, trasforma il tuo modo di vedere la realtà, ti corregge, ti fa scoprire cose di te, ti rende più ricco». Sottolinea con passione una cosa: «L’importanza del confronto con chi è diverso da noi e non la pensa allo stesso modo».



Fa l’esempio lampante delle degenerazioni della politica, del suo primo giorno in Parlamento accanto a un sindacalista che insulta gli avversari non appena intervengono e del Segretario d’Aula che gli si avvicina: «Siamo qui per parlare con chi non la pensa come noi». O dell’Italia all’inizio degli anni Novanta, in cui secondo lui si è consumata una rottura: «Il clima che si è creato screditava tutto quello che c’era, e non si è passato il tesoro da una generazione all’altra». È un «rapporto da saldare», ben lontano dall’odierno “mettiamo un giovane”, pur giusto, «ma il giovane non può essere lasciato a se stesso né usato strumentalmente».

Carrón riprende una recente riflessione di un progetto della Silicon Valley contro le fake news: «Bisogna mettere al centro la persona», legge dal Corriere della Sera, «per allenarla a guardare il mondo con i propri occhi e pensare con la propria testa, sviluppando quello spirito critico che la renderà più attrice e meno spettatrice, più leader e meno follower, più cittadina e meno suddita». Allora c’è qualcosa che nessun algoritmo può sostituire. «E noi non abbiamo sfida più affascinante di questa», dice rispondendo a Gianni, insegnante, che chiede come si possa ridestare i giovani davanti al vuoto che vivono: «Far sì che la persona torni ad essere persona. E offrire un reale più affascinante del virtuale».



L’«umanizzazione della vita». Usa queste parole Violante per sintetizzare l’urgenza che sente. Anche di fronte all’equivoco con cui «confondiamo il problema dei valori con quello dell’identità», dice ad Alberto, il papà che racconta di come, nel rapporto con il figlio, i valori lo portano a chiudersi anziché aprirsi. «Pensiamo di difendere dei valori», continua Violante, «ma il valore non esiste in solitaria. L’altro deve fa parte del valore, se no non è valore!». E aggiunge: «Dobbiamo decidere che vita condurre. Se stare chiusi nel bozzolo dei nostri convincimenti. Ma non è una vita ricca. È una vita superba, arrogante». Poco dopo dirà: «Vivere è difficile. È una continua messa in discussione di sé. Non è una passeggiata. E di certo ha momenti di cadute, ricadute. Ma non è un problema. L'importante ogni volta è ricostruire l'alleanza, ogni volta riaffermare il bene nel conflitto. Sapendo che c'è uno scopo». Si fa più serio e commosso: «Non è facile, ma questo permette di vivere veramente, di dire alla fine: ho vissuto. Ho combattuto, fino in fondo, la battaglia. Poi, il Signore deciderà cosa fare con me».

C’è un attimo di silenzio, e poi un lungo applauso. Di gratitudine, come dice Bersanelli: «Per questa testimonianza. Per aver visto come l’identità diversa non impedisce il dialogo». Precisa Carrón: «Lo permette».