Gli Esercizi spirituali degli adulti di CL a Rimini, dal 12 al 14 maggio (foto di Pino Franchino)

«Alzati!», è la realtà che bussa

Migliaia di persone da tutta Italia per gli Esercizi spirituali degli adulti di CL. Da Pinocchio a Zaccheo, poi i canti, il silenzio e la testimonianza di un padre: un viaggio «al cuore del nostro cuore». Ecco cosa è successo a Rimini
Paolo Perego

Bisogna ripartire dalla Galilea: «Là mi rivedrete», ha detto Gesù risorto ai suoi. «È un invito: andiamo all’origine, dove tutto è cominciato, prima che la vita, per i limiti, per i peccati, si ingarbugliasse», ha fatto eco don Eugenio Nembrini davanti a oltre 8.500 partecipanti agli Esercizi spirituali degli adulti di Comunione e Liberazione a Rimini, lo scorso weekend. «Ma cosa ci ha fatto muovere a venire qui?», chiede ancora al salone gremito il venerdì sera: «È lì che dobbiamo andare: alla radice di quel bisogno che siamo e che ci ha mossi. Il cuore dell’uomo ha un desiderio di bene indelebile, di pienezza. Allora chiediamoci: mi interessa davvero una pienezza di vita?».

Le carte sono scoperte subito: sì o no. Non c’è via di mezzo. Ed è un brivido quello che attraversa tutti. «Alzati! È il grido di Gesù nel Vangelo. Al paralitico, alla bimba morta… “Talita Kum, alzati fanciulla”». Un Altro ti fa alzare, ti salva. «Lasciamo indietro tutti i nostri tentativi, buoni o cattivi: non parlo della salvezza che posso provare a realizzare. Pensate a Pinocchio, nella sua avventura per diventare un uomo, un io vero. Quanti tentativi, quanti sbagli», dice don Eugenio: «L'unica condizione perché questo bene, questa pienezza diventi mia è la libertà. La libertà non è lo scopo della vita, ma è la condizione che rende possibile per ciascuno la salvezza: Dio dice: “Voglio un amore corrisposto”».

«Ok, ci sto: cosa devo fare?», viene da pensare. Ma è già un’altra idea, un altro “tentativo”. Nembrini lo fa fuori subito: «Il punto è dire: a me la salvezza interessa. Tante volte incolpiamo la realtà, quando il nostro tentativo fallisce. Ma le circostanze esistono solo per essere segno di qualcosa di grande, di misterioso, con il compito di provocare il nostro io». Quindi? «“Alzati!” È la realtà che bussa».

Don Eugenio Nembrini

Riparte da qui la lezione del sabato mattina. Da una “strada” annunciata, da un lavoro indicato come metodo, chiamato “povertà”. E l’attesa di addentrarsi nel percorso che don Eugenio ha preparato è palpabile. Si aspetta tesi, tra la musica, i canti, in silenzio. Sullo schermo i mosaici di Ravenna, e quella frase che detta il passo alla tre giorni: «Il mio cuore è lieto perché tu, Cristo, vivi». Vince l’accorgersi di essere tra tanti, ma davanti a qualcosa che è tutto per sé.

«Benché io non sia pieno, non sono vuoto», le parole di Fire of Time, di David Ramirez, introducono con altri canti la lezione. «C’è il cuore! E nessuna lontananza, dimenticanza, anche se siamo “l’uomo cattivo” dell’altra canzone che abbiamo cantato, può sconfiggerlo», attacca don Eugenio. Ci vuole tutti, Gesù. Con la nostra libertà, anche nell’errore. Ma allora qual è la strada, il lavoro? «Si chiama povertà. Non sto parlando della povertà materiale, ma della struttura del nostro cuore». E rincara: «Il cuore è un’anfora vuota: tutto domanda, di tutto è bisognoso. È tutto attesa di infinito che neanche il più grande gesto di condivisione sarebbe in grado di compiere».



C’è anche Bruno, in salone, con i suoi baffoni. Don Eugenio parla di lui, di quando lo ha conosciuto in carcere. E del suo “buco dentro”. Quello che provava a riempire con donne e bella vita. Si era trovato a raccontarlo proprio a Nembrini che era andato a incontrare lui e altri in carcere. Un «buco», aveva chiamato la sua insoddisfazione. E più lui provava a riempirlo, più si ingrandiva. Per quello era finito “dentro”, «perché per riempire quel buco in quel modo ci vogliono soldi», e Bruno si era messo a rubare nella banca in cui lavorava. A don Eugenio, quella volta, la prima che lo vedeva, aveva chiesto: «Adesso sono in galera e mi mancano le cose belle, ma ho ancora quel buco. Ma se non è stato riempito da nulla, e c’è ancora, non è che la grandezza dell’uomo è stare davanti con serietà a questo buco?». «Questo è l’uomo religioso, cioè l’uomo che riconosce chi è», chiosa Nembrini. È nel reale, nell’esperienza che viene messo alla prova il bisogno. «E se lo diminuisco, perdo tutto me stesso».

È una nostalgia dell’assoluto, sfondo di tutta la vita, come ne parla lo scrittore argentino Ernesto Sabato. Le parole, gli esempi si imprimono su taccuini, agende o tablet appoggiati a migliaia di gambe in salone. «È la sete della samaritana. E questa povertà è la cosa più cara che da oggi dobbiamo guardare. Perché è la sete che ci fa cogliere l'accento della Sua voce. Se non è viva la povertà, non ne riconosco la risposta», dice don Eugenio.



«Il nostro vivere quotidiano ci prende a sberle in faccia. Quanta insofferenza, quanto dolore, quanta incapacità, quanti errori! Siamo testardi. Abbiamo bisogno del perdono». Non è una accusa quella di don Eugenio. È una tenerezza che è difficile non sentirsi addosso in quel padiglione della Fiera di Rimini. Siamo così a casa, al lavoro, in ogni piega della vita: «Quell'uomo cattivo sono io e non riesco a sopportare tutto il mio male. Vorrei ma non ce la faccio. Non siamo capaci nemmeno di guardarci con stima». E come fuga, allora, si scarica tutto sulle circostanze: la moglie, il capo, le cose brutte…

«Vi radunerò da ogni terrà, vi condurrò sul vostro suolo. Vi purificherò…». Uno ha detto queste cose. «Ma chi non lo desidera uno sguardo così su di sé?», chiede don Eugenio. Torna ancora quella tenerezza tra migliaia di facce, mentre parla della «carezza di Cristo sul mio peccato, una misericordia sorprendente di fronte ad uno che conosce i miei tradimenti e mi stima, mi chiama di nuovo, crede in me, mi attende. Ti viene solo da piangere». E quando uno riconosce una presenza che risponde al bisogno non può che legarsi: «Non lo mollo più. Qual è la mia responsabilità se non amare quel pezzo di realtà, quei volti attraverso cui Gesù ha preso la mia vita?».

È accaduto a Zaccheo, «uno come noi», riprende Nembrini al pomeriggio del sabato. La Gerico di Gesù potrebbe essere Trescore, Roma, la Brianza... Per un’ora tutti si immaginano al posto di Zaccheo, pieni di desiderio di vedere quell’uomo, col «cuore pieno benché vuoto», con errori, limiti, tentativi falliti… Talmente bassi da non riuscire neppure a vederlo, costretti salire su quel sicomoro. Ottomila persone, a Rimini come in Palestina. «Ma a te, interessa davvero una vita piena? Ti metti a correre, a scattare, per vederlo, per cercarlo?», chiede don Eugenio. Da quell’albero, con lo sguardo teso. E gli occhi di Gesù che si alzano. Vuole un cuore così, Gesù: «Scendi, vengo a casa tua». Quell’«alzati!», che torna ancora. «Gesù risponde a quella povertà, a quel cuore», commenta don Eugenio. Basta quello, e di schianto cambia la vita. Fino a dar via metà delle ricchezze, e restituire a chi ha rubato quattro volte tanto, come Zaccheo.

Davide Prosperi, don Eugenio Nembrini ed Enrico Craighero

Non è roba di duemila anni fa. Basta ascoltare Enrico, marito e padre di tre figli, per capirlo, la domenica mattina, durante la sua testimonianza. «La vita è come un campo da gioco. E tu vorresti poter giocare su un bel manto erboso, e invece a volte è pieno di sassi». Paolo e Lele, i due maschi, hanno trentasei anni e sono affetti da gravi handicap dalla nascita. Ed Enrico racconta di quel “campo di sassi” nei primi tempi: «Avevo sfidato da subito il buon Dio: “Bene, adesso voglio vedere come te la cavi qui dentro”», ovvero, come mi permetterai di amarti anche qui, come potrò essere felice come mi prometti… Quattro anni, quasi a sopportare, fino a una sera come le altre, mentre con la moglie danno la pappa ai piccoli: «Ma quella volta ho alzato gli occhi e ho incrociato quelli di Angela. Erano lieti. Facevamo la stessa fatica, ma lei aveva uno sguardo diverso. Lo volevo anche io». Cambia marcia, Enrico. Ma senza mai staccarsi da lì, dalla corrispondenza di quello che aveva visto. Nell’incontro con don Eugenio in Kazakistan, durante un viaggio di lavoro, nelle avventure con i figli, nella vita quotidiana. O nel dramma della figlia, che perde il fidanzato in un incidente. Ogni passo una scoperta, un dono. E una tenerezza - ancora – su di sé per tutti. Si può giocare anche in quel campo. «È un’inversione di mentalità», commenta Davide Prosperi, vicepresidente della Fraternità di CL sul palco con Enrico e don Eugenio: «La strada la fa un altro per noi. Quello che dobbiamo decidere è se vogliamo seguirla o no».