Cattarina sui giovani: «La cifra della vita non è l'ombra»
Ogni anno all'Imprevisto di Pesaro, vengono festeggiati da amici, parenti e autorità i ragazzi che hanno terminato il cammino di recupero. Quest'anno erano 11, il 2 dicembre. Tra spettacoli e testimonianze, l'intervento di Silvio Cattarina, il fondatoreNon conosciamo il nostro cuore. Noi adulti non conosciamo davvero il nostro cuore; i ragazzi non conoscono il cuore che gli batte in petto. Tutto quanto di bello, di buono, di vero gli scoppia dentro, i giovani non sanno dirlo, non sanno spiegarlo, non riescono a gridarlo. Ce lo fanno capire tanti ragazzi al termine del loro percorso quando affermano: «Ho scoperto cose di me che pensavo di non avere, possibilità, capacità, sentimenti…».
Cosicché costatiamo che i ragazzi sono caratterizzati e determinati da grande impaccio, chiusura, che sono esistenzialmente bloccati. Questo colpisce più della droga, più di tante manifestazioni del malessere “moderno”. Non è timidezza, non è impossibilità. È incapacità, diseducazione, è trascuratezza, è povertà dell’anima. Per le nostre contrade vaga dunque un esercito di ragazzi muti, sordi, ciechi perché non conoscono quello che vibra nel loro cuore, quello che vorrebbe prepotentemente scoppiare verso la vita, verso la vita vita.
Questo forse è il dramma più grande, l’emergenza più evidente. Persona, vuol dire, per-sòna, “che grida tramite, attraverso”… Ma i giovani non sanno cosa chiedere, quello di cui hanno bisogno, quello che il cuore implora. La più grande ricchezza del mondo è il cuore di ogni persona, e il mondo non lo sa, non lo sfrutta, non sa farlo fecondare.
Così lo stesso mondo contrae e crea un grande problema - più grande della crisi, della povertà, dell’emigrazione, della mancanza di risorse - quello che i giovani non sanno quello che c’è nel loro cuore. Ma i ragazzi non sono banali. Nel loro cuore hanno tutto - hanno tutto soprattutto quelli che hanno sofferto -. La verità dei giovani è che sono belli, intelligenti e profondi, sono più seri di tanti adulti, ma occorre farli parlare, ascoltarli. Occorre insegnargli a parlare, ad essere, a dire, ad esprimersi, a raccontare, a capire, a giudicare. Come fanno altrimenti a porsi nel mondo, ad entrarvi prontamente, felicemente, come di schianto, a piombare coraggiosamente sulla scena del mondo? Ecco cosa facciamo in Comunità, insieme alle regole, ai lavori, allo sport, alle varie attività…
Ci vuole un grande lavoro, ci vuole una educazione, due incontri al giorno, i “punti”, i tanti dialoghi. Anche il pranzo e la cena, dove si parla uno per volta, per approfondire, per capire tutto, tanto… Un cammino di giudizio, di conoscenza con ciascun ragazzo, per imparare cosa è la vita, per insegnare cosa è la vita. Cosa vuol dire e come si fa ad amare, a rapportarsi, a stare con il piccolo, a stare con il grande, a lavorare insieme... Ripartire dall’abicì. Occorre ricominciare, riiniziare da capo.
Come questa attività, così bella ed esemplare, della recitazione delle ragazze con Lucia Ferrati, del teatro dei ragazzi con Gilberto Santini. Abbiamo visto come parlano, come si pongono, come si innalzano, si ergono verso la vita, verso l’altro, verso gli altri? Occorre sapere cosa chiedere, cosa chiedere alla vita, agli altri, a se stessi, cosa gridare: occorre dare un nome alle cose.
Come mi diceva un giorno un ragazzo: «Pensa che ingiustizia nei nostri confronti! Tutti ci dicono che il nostro problema sono le famiglie in cui siamo nati. Ma cosa ci potevamo fare, potevamo forse scegliere? Ma forse una qualche ragione c’è in questa affermazione, nel senso che nelle nostre famiglie un giorno sì e l’altro pure succedeva qualcosa di grosso, ma io ero lasciato in un angolo, senza nessuno che mi si avvicinasse, che mi chiedesse cosa pensavo, che mi spiegasse, che mi aiutasse a capire, a giudicare quello che era successo, che mi aiutasse ad immaginare come sarebbe proseguito il tutto, a dare un nome alle cose… A dare un nome alle cose». Che bello quando i genitori, dopo diversi mesi, dicono dei figli: «Adesso parla, ora torna a casa e parla. Dice, racconta, non si alza più dal tavolo, non scappa via come faceva un tempo».
Parlare vuol dire che si ha voglia di vivere. Che qualcosa e qualcuno si ama, si vuole amare, si vuole abbracciare! Quale immenso valore ha la parola detta da un ragazzo che rinasce, che risorge, che ricomincia a vivere! Quanto è utile, feconda, costruttiva la parola che sgorga da una vita ritrovata. Ogni ragazzo ha un insopprimibile desiderio di dire quello che vede e sente.
Gianfranco Sabbatini, il grande amico de l’Imprevisto, quando partecipava ai nostri incontri, alle nostre feste mi diceva: «Non li far parlare, i ragazzi. Parla tu, che sei tanto bravo…». Si commuoveva, non voleva che i ragazzi soffrissero. Ma dopo, prima di ritornare a casa, il giorno dopo, appena rientrato in ufficio, mi telefonava per dirmi: «Che bello, che storia! Parlano, e come parlano, come spiegano le cose: che profondità. Come è possibile che si esprimano in questo modo, adeguato, calzante, incisivo?».
Quanti ragazzi non hanno niente, ma possono dare molto. Sono poveri, ma sono ricchi di parola, armati della parola, capaci di usare la parola se guardati, se investiti di una grande cosa, se chiamati dentro un’avventura di bene, di bellezza, di coraggio. Se ti fermi per strada e vedi un sasso, se lo guardi bene, se lo guardi forte, parla anche quello: riesce a parlare anche quel sasso! Tanto più un ragazzo, i nostri ragazzi! Capaci di capire, di dare un giudizio.
Imparare a capire, a sapere. Sapere non per sapere: questo non porta da nessuna parte. Ma sapere per abbracciare, sapere per amare, sapere per perdonare. Questo è grandioso, è miracoloso. Questo è il cambiamento. Atrimenti l’esistenza rimane buia, oscura: rimane un dramma popolato di fantasmi. No, facciamo tutto per capire ciò che la vita vuole da noi, per capire quale e quanta è l’attesa, il desiderio che si dimena dentro di noi. Insomma, partiamo dal male del mondo, iniziamo dalla miseria dei corpi e delle anime, e vediamo che la vita esplode, che la gioia ritorna, che la battaglia ci trova pieni di coraggio e di forza.
Ciò che fa parlare è una chiamata, è uno sguardo, la profondità di uno sguardo, l’immensità di uno sguardo. Anch’io, a pensarci bene, ho cominciato a parlare da quando sono stato guardato, da quando mi sono sentito chiamato. Dal nascondimento, dall’eremitaggio tipico di quest’ora dei giovani, dall’isolamento, dall’esilio in cui sono stati cacciati i nostri giovani, al grido, al grido per diventare pronti, svegli, vigili, per lasciarsi ferire, accendere e bruciare dai tantissimi doni che la vita sicuramente ci porta.
Anche se, sappiamo bene, non è dal dolore che nasce la riscossa, ma dall’aver incontrato una luce, un lampo di bellezza. È la luce che fiotta dentro, che irrompe, che si diffonde e colora di sé, che colma, tiene e sostiene la sorpresa, l’imprevisto della vita. La cifra della vita non è l’ombra. L’ombra c’è perché c’è la luce. L’ombra non è il centro. È la luce la grande presenza.