Alfie Evans

Alfie e la misura della vita

Lo hanno staccato dal respiratore. E lui ha continuato a vivere per qualche giorno, sparigliando le carte della battaglia legale tra l'ospedale e la famiglia. Ma, soprattutto, rimettendoci davanti a una serie di domande che non si possono evitare

C’è un fatto incontestabile nella vicenda di Alfie Evans, il bambino di Liverpool al centro della battaglia legale di cui parla tutto il mondo: quando gli hanno staccato il respiratore per dare corso al “protocollo di fine vita”, ha continuato a respirare da solo. Per dieci ore, fino a quando i medici non si sono decisi a ridargli l’ossigeno. Alfie non parla, non si lamenta, ma - macchine o no, sentenze o meno - respira. Vive.

È un fatto che va ostinatamente, tenacemente al di là delle decisioni legali contraddittorie, dei tanti commenti sui giornali e delle migliaia di parole spese in un dibattito che per certi versi resta inestricabile, come succede quando si intrecciano una malattia degenerativa che per i medici è incurabile e la sofferenza, le attese e la speranza di chi quella malattia la vive - soprattutto se è un bimbo di neanche due anni con la sua famiglia.

In questi casi, se è quasi impossibile tracciare confini certi (“fino a qui è terapia, oltre è accanimento...”), diventa difficile anche parlare, dire qualcosa che vada oltre il pur necessario ribadire le verità di fondo di cui si è smarrita l’evidenza - la vita è e deve restare inviolabile - per essere adeguato al dolore infinito dei genitori o all’impotenza sperimentata da chi quel bambino vorrebbe aiutarlo, e non può.

Ma se invece provassimo ad ascoltare? Alfie è lì, tenace, ostinato. Respira. Cosa ci dice quel respiro?

È davvero strano, per noi, il metodo di Dio. Sceglie qualcuno di infinitamente piccolo, impotente, addirittura inerme, per metterci tutti di fronte alle questioni più decisive della vita. Per risvegliare in tutti noi domande acute sul bene e il male, sulla giustizia e l’amore, sul dolore innocente. E per farci vedere, con chiarezza, che la vita ha una portata infinitamente più ampia e profonda del metro con cui la misuriamo di solito.

Alfie dal suo letto ci è compagno di strada, semplicemente respirando, essendoci. Lo è perché ci spinge, quasi ci obbliga, a stare davanti a queste domande. E lo è per chiunque sia coinvolto nella vicenda: i genitori e i medici, il giudice e gli avvocati, chi si è mobilitato per lui e chi partecipa al suo dramma da lontano. Questo, se possibile, ce lo rende ancora più caro e prezioso. Fa moltiplicare gli sforzi per aiutarlo in tutto, fino in fondo - come sta chiedendo di continuo anche papa Francesco, che si è mosso in prima persona. Per domandare e per sperare.

Basterebbe prendere atto di questo fatto - di questa compagnia che ci sta facendo Alfie - per sbaragliare le idee che normalmente abbiamo sulla consistenza della nostra vita, su dove stia la sua vera utilità: in quello che facciamo o nel semplice fatto di esserci, di essere misteriosamente voluti e amati da qualcuno che ci fa, ora?

E per aprire un varco nel dolore. Non per spiegarlo, per darne ragione, ma aprire un varco, spalancare all’ipotesi che se Dio permette tanta sofferenza, non è per nulla, perché tutto finisca in nulla. A uno dei bambini abbandonati di Bucarest ricevuti in udienza a gennaio, che lo interrogava sulla sua sofferenza, il Papa ha risposto: «Il tuo perché è uno di quelli che non hanno una risposta umana, ma solo divina. Non sappiamo il perchénel senso del motivo, ma sappiamo il perché nel senso del fine che Dio vuole dare alla tua sorte. E il fine è la guarigione, la vita».

Meno di un anno fa abbiamo pubblicato una lettera che riguardava un altro bambino, Charlie Gard, e una situazione molto simile. Si chiudeva con queste righe. Le riproponiamo perché ci sembrano di aiuto, più di tante altre parole.

«Quello che sta accadendo forse ci chiede di entrare un po’ più in profondità nella concezione che abbiamo dell’utilità del vivere, smascherando la nostra incapacità di rispondervi a riguardo della nostra stessa vita: quando una vita è “utile”? Cosa la rende utile e, soprattutto, utile per chi? Ci basta vivere per noi stessi? Ci basta non soffrire? Ma, in fondo, è veramente possibile non soffrire?

Per non soffrire occorrerebbe non amare.

Nel giudizio sulla vicenda di Charlie si mette spesso a tema quale sia il suo bene. Ma proprio questo bene può essere slegato dal riconoscimento, così poco evidente ai nostri occhi, del significato, e quindi dell’utilità, di questa vita?

C’è qualcuno che lo vuole e lo ama così com’è, ora, e per questo è disposto a sacrificarsi. Non può essere che per questo bambino la sua vita, ora, sia sentita utile per questo, e per questo degna di essere vissuta in questo modo? Cosa lo rende profondamente umano nel suo desiderio di felicità, esattamente come noi che stiamo scrivendo? Quello che desideriamo noi, quello per cui la nostra vita merita di essere vissuta è che c’è qualcuno che ci vuole ora, per cui la nostra vita vale, per il quale merita di essere data e vissuta come ci viene data. I genitori di Charlie sono questo, e in questo loro amore sono la promessa vivente di quell’amore per cui il suo cuore, piccolo e malandato, sta ancora battendo».