Abbiamo qualcosa in comune?
Un acceso dibattito in tutto l'Occidente apre una domanda: «Può la politica non ridursi a servire l'interesse particolare di pochi e al contempo non difendere astrattamente quelli generali?». Un contributo di Javier Prades dal giornale spagnolo ABCLe ultime consultazioni elettorali negli Stati Uniti e in Europa hanno rinfocolato il dibattito tra politiche che sostengono «movimenti identitari» e politiche che rivendicano la «cittadinanza». Le prime favoriscono gli interessi di gruppi specifici, le seconde privilegiano gli aspetti formali del metodo democratico, come garanzia di uguaglianza nella società civile. Il dibattito giuridico e politico appare complesso, ma mette in luce qualcosa che riguarda gli attori della vita sociale: come favorire il fatto che la politica non si riduca alla difesa di interessi particolari – a volte attraverso lobbies molto potenti – o a una protezione astratta dell’interesse generale?
La risposta va oltre gli stretti limiti della politica e interroga ognuno di noi. Abbiamo bisogno di voci da tutti i settori della società, che si assumano la responsabilità di far emergere quello che abbiamo in comune tutti noi che viviamo in Spagna. Potremmo accettare che esista una sorta di «noi» nel momento in cui, per esempio, mettessimo intorno a un tavolo rappresentanti di tutti i partiti del Parlamento? E se riunissimo spagnoli radicati in questa nazione da secoli con emigranti appena arrivati, o castigliani con catalani? O se ci sedessimo a un tavolo, noi credenti insieme ad agnostici o atei?
In questo tempo appare più semplice reclamare ciò che è «nostro» rispetto a quello che è «degli altri». Facciamo fatica ad accettare la sfida non facile di identificare un «noi» che non escluda nessuno, se possibile. A ben guardare, non possiamo eludere il compito di affermare in qualche modo un «noi». Lo facciamo in continuazione. Per questo è opportuno guardare come ciò accade.
Si tratta di tornare a riflettere sulle caratteristiche dell’umano in quanto tale. La cosa più delicata è stabilire il criterio con cui si identificano le caratteristiche comuni, nel momento in cui vediamo le difficoltà in cui versano le categorie classiche della legge naturale o del bene comune sul terreno morale e giuridico. Qualcosa di simile si può affermare sul recente dibattito tra multiculturalismo, «movimenti identitari» e «cittadinanza», con tutte le loro varianti. Che strada è più utile seguire?
Un primo passo consiste nell’ammettere che le differenze non possono giungere sino al punto di negare ciò che è comune. Pensatori come Husserl o Wittgenstein, Lévinas o Derrida, ci ricordano che l’estraneità o l’incomprensibilità sono possibili solo in un contesto di comprensibilità. Senza di questo non si potrà nemmeno accorgersi dell’estraneo. Siamo diversi, ma non radicalmente estranei: vi è tra di noi, tra gli esseri umani, una identità più profonda di tutte le differenze, ed è questa identità che mi consente di percepire l’altro come diverso da me. Infatti, chi è «l’altro»? È sempre un alter ego, è un «altro come me, ma che non è me». Se l’«altro» non è percepito come un «io», si cancella la sua alterità umana, e con essa la sua dignità fondamentale.
Se questa impostazione è valida, è urgente trovare un metodo per giungere a questa accettazione condivisa. Dopo la critica alle ideologie nel XX secolo, non basterà applicare un certo sistema di idee. Occorrerà iniziare da un «riconoscimento»: dovremo sorprendere – per così dire, in atto – le caratteristiche umane che sono in gioco. Un bambino non si accontenta di sapere che generalmente le mamme amano i loro figli, ma ha bisogno dell’esperienza dell’essere amato concretamente da sua madre. Partendo dall’amore concreto di sua madre il bambino comprenderà le affermazioni di valore universale sull’amore delle madri per i figli.
Dobbiamo iniziare un paziente processo di osservazione della vita sociale, così come si manifesta nelle sfide quotidiane e nell’opinione pubblica. L’educazione e la cultura saranno tali se ci permetteranno di identificare ciò che Luigi Giussani chiama la nostra «esperienza elementare». Con questo termine si riferisce al nucleo di evidenze ed esigenze che costituisce il cuore della persona nel suo rapporto con la realtà. Nell’usare il concetto di esperienza egli ci indica che non si tratta tanto di elaborare a priori una teoria sull’uomo e in seguito applicarla, quanto di osservare la sua situazione concreta nella storia, che è sempre aperta a una realizzazione più piena. Le diverse manifestazioni della bellezza, del bene, della verità, della giustizia… appaiono come una promessa in attesa di un compimento, che non riusciamo a dare da soli. È come se ciascuno vivesse in una costante «sproporzione» tra ciò che è e ciò che desidera essere, tra ciò che effettivamente conosce e ciò che vuole raggiungere, senza tregua. Nel momento in cui appare davanti ai suoi occhi ciò che desidera, lo può riconoscere ed accogliere: «È questo!»; e nello stesso tempo si ritrova rimandato «più in là». A partire dalla circostanza concreta si spalanca l’orizzonte infinito della persona. È un’inquietudine che ci risulta familiare.
Aiutiamoci a far emergere gli aspetti elementari dell’umano che abbiamo in comune. Quando il co-pilota di Germanwings guidò volontariamente il suo aereo a schiantarsi sulle Alpi, tutti soffrimmo un grande dolore per le vittime, e provammo un brivido rendendoci conto di cosa accade nella società quando è tradito l’indispensabile rapporto di fiducia. Abbiamo potuto comprendere nell’evento concreto che la fiducia è un valore irrinunciabile. Quando la madre di Gabriel ci ha chiesto di non alimentare il rancore e l’odio in nome del suo Pescaíto (pesciolino), atrocemente assassinato (Si riferisce a un fatto della recente cronaca spagnola, l’assassinio di un bambino di otto anni da parte della matrigna, ndt), e di essere grati per il bene della sua vita, abbiamo trovato una pace che non potevano darci le richieste furiose di vendetta. Abbiamo visto nel concreto che bene per la società sono la gratitudine e la non violenza nella ricerca della giustizia. Mentre constatiamo ciò che comporta la diffusione di fake news, e le loro conseguenze che inveleniscono la convivenza a tutti i livelli, siamo vicini a quanti rivendicano l’esigenza di libertà e di giustizia per proteggere la comunicazione sociale. Grazie a Dio, la lista di questi esempi è più lunga.
Così, passo dopo passo, sarà più facile guardare insieme la nostra esperienza umana elementare, ciò che ci unisce. E la politica potrà articolare meglio la protezione dei diritti o interessi particolari con la tutela di quello che davvero tutti abbiamo in comune. La democrazia spagnola ne trarrà beneficio.
* Rettore della Universidad Eclesíastica San Dámaso di Madrid
da ABC, 30 aprile 2018