La gita sulle Dolomiti

Corvara. Ciò che regge l'urto del tempo

Erano in 270 per l'Assemblea internazionale dei responsabili di CL. I racconti dal Venezuela e dall'Uganda. La voce di Giussani in una lezione del 1968. Lo stupore dell'ex militante dell'Eta. Per riscoprire come la fede può cambiare la vita di tutti
Luca Fiore

«Perché bisogna bene che termini un periodo e ne incominci un altro: il definitivo, il maturo. Questa parola sta all’origine del nostro cristianesimo maturo, quello che può tenere l’urto del tempo, anzi, l’urto di tutta la storia, perché quell’annuncio…». La voce di un Luigi Giussani quarantaseienne arriva graffiata dai segni che la storia ha lasciato sul nastro magnetico inciso nel novembre 1968. Sono passati cinquant’anni e nella sala dell’Hotel Greif di Corvara risuona l’introduzione degli Esercizi spirituali tenuti per quel resto d’Israele che era il Centro Culturale Peguy, gli amici rimasti dopo la tormenta della contestazione che si era abbattuta su Gioventù studentesca.
È questo il centro, emotivo e di contenuto, attorno al quale hanno gravitato i giorni di convivenza (25-29 agosto) dei 270 arrivati sulle Dolomiti da cinquanta Paesi per l’Assemblea internazionale dei responsabili di Comunione e Liberazione. L’urto del tempo, la difficoltà delle circostanze, il dolore, la morte. Come fa la fede a restare viva? È con questa domanda che don Julián Carrón apre l’assemblea, mentre fuori, sulla maestà del Sassongher, cade una strana neve d’agosto. Si cita Etty Hillesum: «Gli animi sono agitatissimi. La gente si smarrisce nei dettagli. Smarrisce la rotta e trova assurda la vita». In questa situazione, qual è il contributo del movimento alla Chiesa e alla società?

Un momento dell'assemblea

Padre Leonardo, di Caracas, descrive della crisi umanitaria nel suo Paese, il Venezuela, dove ogni giorno l’inflazione aumenta del 5 per cento. Mancano l’acqua, il cibo e le medicine. «Per anni ho dato a Carrón la disponibilità per la missione», dice il sacerdote: «Poi, cinque anni fa, mi ha finalmente risposto che aveva la destinazione per me, Caracas. Mentre in migliaia fuggono dal Paese, io ho chiaro che Dio mi chiama a restare, per dare testimonianza della sua vittoria».
Teddy di Kampala, Uganda, spiega di essere rimasta vedova e di essere stata sfrattata con i propri figli. I suoceri, racconta, erano certi che non ce l’avrebbe fatta. «Ciò che mi ha sorretto è stata la coscienza di essere in rapporto con Cristo. Io, come Giobbe, non avevo nessuna colpa. Ma come lui avevo la grande domanda su chi sono. È nel mio dolore che mi trovo più vicina a Cristo. Il contributo che posso dare è questo: domandarmi chi sono e chi mi dà le cose che ho attorno».

Don Pigi e Max raccontano del pellegrinaggio con maturati e neolaureati a Roma in occasione della veglia dei giovani con papa Francesco, in vista del Sinodo sui giovani. Tutta la “gioiosa macchina da guerra” della segreteria era pronta per l’annuale pellegrinaggio a Czestochowa. Ottocento ragazzi che si muovono nella giungla della Città eterna. È un susseguirsi di schemi e programmi che saltano. Eppure ciò che prevale non è il lamento, ma il riconoscimento dell’avvenimento che accade dentro le difficoltà. Come quando, nel mezzo di una discussione tra vigili urbani e polizia stradale su chi dovesse occuparsi della comitiva, un agente se ne esce con un «vi ho visti come andate in giro, siete diversi, posso occuparmi io di voi». «Non si tratta di inorgoglirsi per qualcosa, ma di accorgersi di che cosa fa la differenza», osserva Carrón: «Ciò che cambia è un uso della ragione non ridotto. Quando cioè noi, anziché proiettare sulle cose che capitano un nostro schema, accettiamo la provocazione del reale e ne riconosciamo l’origine».

Teddy di Kampala

In sala ci sono i “veterani” e i nuovi arrivati. Teddy di Kampala (non quella già citata, un’altra, più giovane) è la prima volta che viene in Europa. Anche Hermann, di Kupang in Indonesia, non era mai stato in Italia. Per Giovanna, che il movimento l’ha incontrato otto anni fa a San Paolo in Brasile, è tutto una novità. È talmente piena di quel che vede e sente che non riesce a dormire e alle tre di notte scrive a chi l’ha invitata: «È come se avessi un tesoro in mano. Ma non è una cosa mia. È per il mondo. Perché ci è dato di vedere il dolore del mondo, che è un mondo che, senza saperlo, chiede di conoscere Cristo? Io voglio conoscerLo di più, per amarLo di più».

Questa del dolore e della ferita è una cosa che ritorna. Lo scrive Oscar Wilde: «Come, se non per il varco di un cuore spezzato, / Cristo Signore in lui potrebbe entrare?». Lo canta Leonard Cohen: «C’è una crepa in ogni cosa / è lì che entra la luce». E “i segni dei tempi” ci dicono che l’uomo di oggi, sempre di più, sempre più profondamente, è segnato dalla fragilità, dalla paura e dall’angoscia che hanno generato, secondo la definizione del giornalista angloindiano Pankaj Mishra, “l’età della rabbia”. È il tema del dialogo tra Roberto Fontolan, direttore del Centro internazionale di CL di Roma, e don Javier Prades, rettore della Facoltà teologica San Damaso di Madrid. Che cosa ci dicono i dati impressionanti sull’aumento della depressione, dei suicidi, della demenza di cui parlano i report internazionali? I rapporti sociali che si complicano. La comunicazione che si fa più frammentata. Quale può essere, chiede Fontolan, il nostro contributo? «Dobbiamo tornare a scuola», spiega Prades: «Per aiutare gli altri. Dobbiamo imparare a leggere il reale. La Chiesa ha insegnato a diverse culture a leggere e lavorare. Si è creato un linguaggio nuovo. Oggi occorre imparare di nuovo la grammatica della creazione, dove le parole e le sillabe del discorso sono le cose che accadono. Ma questo non si può fare con arroganza, ma con un atteggiamento senza calcoli sul tempo».

Un lavoro di educazione, nel senso pieno, quello di «introduzione alla realtà totale», necessario innanzitutto per noi stessi. E che ha delle conseguenze che sono anche culturali. Di capacità di lettura dei fenomeni che accadono. È il tentativo che stanno facendo negli Stati Uniti don José Medina e alcuni suoi amici rispetto al fenomeno che sta investendo quello che avevamo sempre conosciuto come “il Paese della libertà”. È la sempre crescente richiesta da parte dei giovani di circoscrivere, con regole sempre più rigide, la libertà di espressione. È ciò che osserva Greg Lukianoff, quarantaquattrenne paladino dei diritti individuali, secondo il quale i giovani americani di oggi sono vulnerabili, impreparati a stare di fronte alla realtà, incapaci di guardare sofferenza e fatica. Sono sempre di più, soprattutto nelle università, i casi di creazione di safe spaces, spazi sicuri: uffici appositamente designati dove si è ascoltati senza essere giudicati o attaccati. Si crea così la “mentalità della bolla” o la “echo chamber”, un spazio protetto in cui ci si rinchiude con quelli che la pensano come noi. In un tempo che gode di tutte le libertà, la libertà spaventa. «Questo è il rischio che corriamo anche noi se ci stacchiamo dall’origine, cioè dall’avvenimento che genera la fede», osserva Carrón: «È la “Chiesa in uscita”, che desidera incontrare chi non la pensa come noi, per capire la pertinenza della fede alle esigenze della vita».

La Messa in quota

E uno che la pensava molto diversamente era Mikel Azurmendi, sociologo basco che aveva partecipato, negli anni Sessanta, alla fondazione dell’Eta (dalla quale viene espulso per la sua contrarietà all’uso della violenza). «Devo molto a voi», dice ai responsabili di CL. «Sono venuto qui per dirvi grazie». Da quando nel 2016 è stato invitato all’Encuentro Madrid, quella della “tribù di CL” è diventata quasi un’ossessione, tanto che i suoi «appunti sul campo» sull’argomento sono diventati un libro in uscita in Spagna quest’anno. «Ho visto in voi “gente di un’altra pasta”. Ciò che mi ha folgorato è stato il vostro stile di vita: integrale, totalizzante. Che va dai bambini agli adulti. Un modo di vivere che io definirei con le parole “gratuità” e “dipendenza”, due dimensioni profondamente umane. Vi sentivo dire che la ragione per cui eravate così era Gesù, che voi dite essere Dio. A un certo punto mi sono detto: questo stile di vita è autenticamente umano, ma io non ho mai visto nella mia esperienza qualcuno mantenerlo nel tempo, né a livello individuale, né tantomeno a livello comunitario. Dunque? Gesù doveva essere Dio». Mikel racconta delle tre persone che lo hanno introdotto a questa “tribù”: un giornalista radiofonico in onda dalle 6 alle 8.30 di mattina, un sacerdote dal quale si è sentito guardare con un giudizio di stima e un volontario dell’Encuentro Madrid, che un sabato mattina è andato a prenderlo con l’auto e, alla domanda sul perché facesse tutto gratuitamente, ha risposto: «La vida es para darla», la vita va data. «C’è tantissima gente che, come me, è in cerca di questa vostra vita. Sarebbe un peccato se l’abbandonaste». Alla fine dell’intervento dell’ex ateo Azurmendi, la sala risponde con un applauso, ma lui zittisce tutti: «Non c’è niente da applaudire: don Julián, facci dire invece un Gloria al Padre».

È con questo racconto ancora in testa che si torna nel salone per ascoltare la registrazione della lezione di don Giussani. «Mikel aveva abbandonato la fede proprio in quegli anni, attorno al ‘68, perché la Chiesa non era in grado di rispondere alle sue domande», premette Carrón: «Ora sentiamo come negli stessi anni Giussani spiega che cosa, invece, è in grado di trascinare la nostra affettività». La lezione è Giussani al cento per cento: «Il cristianesimo è un annuncio, fenomeno per cui delle persone, una persona (pensate a Cristo), attraverso un modo d’essere, un coinvolgimento della sua vita, porta una proposta che tende a cambiare la tua vita: una pretesa che non può esserci se non per un significato assolutamente nuovo». Bella scossa. Perché tutti, se sono qui, arrivati dal Libano o dalla Nigeria, dall’Argentina o dall’Australia, hanno, almeno una volta, incrociato questa novità.



Alla sera è la volta delle domande che don Ignacio Carbajosa rivolge a don Carrón. La prima è: «Perché dici sempre che ciò che ti ha salvato la vita è imparare ciò che pensavi di sapere già?». E poi: «Perché dici che sarai sempre grato a don Giussani di averti permesso di fare un cammino umano?». È l’occasione per la guida di CL di ripercorrere le tappe che hanno segnato la sua vita dall’incontro con i primi ciellini spagnoli fino al trasferimento a Milano. Il suo racconto è un inno all’uso della ragione per come viene descritta ne Il senso religioso. È la testimonianza della tenacia di un cammino per mettere alla prova quello che don Giussani ci ha consegnato scrivendo il decimo capitolo del suo libro più famoso. «Dopo alcuni anni a Milano ho visto quanto sia la provocazione della realtà a impedire che l’umano si appiattisca», spiega: «Ho iniziato a vivere tutte le provocazioni della vita come amiche: le incomprensioni, le ferite, i fallimenti. Tutto costruiva la mia persona. Tutto, circostanze e persone, sono per me, perché collaborano alla generazione della mia persona».

La serata di canti da tutto il mondo

Il giorno dopo, la gita al rifugio Pralongià. Si vedono tutte le Dolomiti: il gruppo del Sella e la Marmolada, le cime Fanins… Davanti a questo spettacolo è più facile ripensare alla risposta che Dio dà a Giobbe: «Dov’eri quand’io ponevo le fondamenta della terra?». È il giorno, poi, in cui la Chiesa ricorda sant’Agostino. Durante la messa in quota don Pigi cita l’espressione più famosa del Vescovo di Ippona: «Ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te». Padre Aleksandr, sacerdote ortodosso di Cherson, Ucraina, scendendo in seggiovia chiede, un po’ scherzando e un po’ no: «Come si fa a vivere a Cherson, dopo aver visto queste montagne?».



All’assemblea del pomeriggio don Julián De la Morena, dal Brasile, interviene sottolineando una delle constatazioni emerse nei giorni precedenti: «La gente è molto preoccupata. In questi anni è cresciuto il senso di paura. E la fede? A che cosa serve? Il movimento è un luogo "pericoloso", di rischio, nel senso che il suo richiamo continuo non ci permette di abbandonarci al formalismo: è un lavoro intenso perché lasciamo che le cose continuino a parlarci». Don Stefano Alberto torna sulla mostra del Sessantotto che alcuni universitari hanno fatto al Meeting: «Il titolo, “Vogliamo tutto”, non descriveva tanto la mossa di allora, ma un grido nel presente. Mi è parso evidente che il contributo che possiamo dare è ciò che riceviamo nella nostra vita, la possibilità di sperimentare la contemporaneità di Cristo. Solo lui ridesta il senso religioso. È solo questo che toglie la paura di fronte alla fatica del vivere. Ma c’è una condizione perché sia così e permanga, anche noi infatti subiamo il clima di sfiducia del nostro tempo: seguire. Senza riconoscere il punto storico dove Cristo mi raggiunge non c’è rinascita del senso religioso». Conclude Carrón: «Possiamo dire che Cristo è presente solo quando ridesta la nostra domanda, esalta il mio io. Solo lui è in grado di ridestare e compiere il mio grido. Questa è la grande avventura».

L’assemblea si chiude senza che Samir riesca a intervenire. Manda il suo intervento a Carrón, che lo usa nella sintesi finale: «Quel che mi ha colpito in questi giorni è che posso dire che l’avvenimento è riaccaduto in me: è l’esperienza di una novità radicale, imprevista e imprevedibile». È, in fondo, la considerazione finale di Giobbe: «Ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto».