Abdul canta una canzone di Fabrizio De Andrè

Milano. Un'amicizia in cerca di lavoro

Giovani e meno giovani, italiani e stranieri. È la cena annuale della caritativa che aiuta chi sta cercando un impiego. C'è chi non parla italiano e chi ha imparato a cantare De Andrè. E chi si è sentita dire: «Ragazza, non ti brillano gli occhi...»
Davide Grammatica

Una festa per duecento invitati. Una cena che è l’occasione per ritrovarsi: chi cerca lavoro, chi l’ha finalmente trovato, e chi ha aiutato a trovarlo. Un’amicizia che lega giovani e meno giovani, italiani e stranieri. C’è chi di italiano non sa nemmeno una parola, ma è come se fosse a casa. È la grande famiglia di “AAA-Lavoro”, la caritativa iniziata da Ugo dieci anni fa, quando, col Paese colpito dalla crisi economica, ha deciso di dare una mano: «Molta gente, di lì a poco, avrebbe perso la propria occupazione, una buona percentuale di questi non sarebbe riuscita a ritrovarla». Nasce tutto, e oggi continua, in un bar della stazione Garibaldi di Milano, ormai “sede legale”, attiva tutti i giorni dalle 7 alle 8 del mattino, dove Ugo incontra per primo «chiunque è in difficoltà per motivi lavorativi, per poi non lasciarlo solo e accompagnarlo». «Ogni persona è seguita da una coppia di nostri amici» dice Ugo, e continua: «Con fedeltà, senza la pretesa di arrivare a un chissà quale risultato, ma per aiutare a riconquistare un approccio positivo alla realtà».

Fuori dal salone dell’oratorio della parrocchia di Gesù a Nazareth fa freddo, la festa sta per iniziare e si sentono i rumori degli ultimi preparativi. Chi è arrivato in anticipo inganna il tempo con una sigaretta. «Senti, c’è un modo più semplice per ottenere il permesso di soggiorno», dice un signore a un ragazzo straniero, forse mediorientale, che però sembra sperduto. «Dico, esiste un modo più semplice, sai cosa vuol dire “semplice”?». Il ragazzo continua a non capire. «Do you speak english?». «No». «Senti, io il “bangla” non lo so», dice l’uomo, e insiste: «Ma c’è un modo più semplice per ottenere il permesso di soggiorno». In qualche modo, poi, si riuscirà a comunicare. Di questa insistenza il salone ne è pieno, ed è ciò che contraddistingue questa gente, che si racconta in storie di tenacia e coraggio. Chi se la sente, durante la cena è invitato a raccontarsi, e si racconta «non per meriti», dice Ugo per risolvere ogni ambiguità: «Ma perché noi siamo stati guardati così, e queste testimonianze sono ciò per cui è possibile ripartire». E infatti non si distingue più chi aiuta e chi è aiutato. Tutti vivono l’esperienza della carità in primo luogo per rispondere a una propria esigenza, quella di realizzare se stessi, interessandosi degli altri.



Ne è dimostrazione la storia di Marco. Laureato, dopo un mese trova lavoro, dopo nove viene promosso. Una carriera interrotta troppo presto per problemi con l’alcool, a cui si aggiunge la depressione. Perde il lavoro ed entra in contatto con Ugo, il quale lo affida a Alfredo e Antonio, che diventano per lui «un secondo e un terzo padre». Il primo periodo è un fallimento, il bere cronico è un ostacolo troppo grande. Finisce in un centro di recupero a Brescia, un «manicomio» dice Marco. Ma Alfredo e Antonio non lo abbandonano mai. Accetta il fatto di essere diventato un drop out, e accoglie un’opportunità di lavoro inconsueta: operaio. L’azienda è fuori Milano e ha bisogno di un’auto per spostarsi da Corsico. Alfredo e Antonio gliene procurano una, pagano il trapasso, la lavano, fanno il pieno e gli lasciano le chiavi. Un gesto che a Marco ancora fa commuovere. E muovere. Anche il lavoro ora è visto sotto tutt’altra prospettiva: «Odiavo fare l’operaio, mi lamentavo e basta. Poi ho capito. È come chi di lavoro spacca le pietre, e continua a lamentarsi, mentre uno a fianco, che spacca le pietre come lui, invece di lamentarsi sorride, perché è contento che grazie al suo lavoro si possa costruire una cattedrale».

Chi ringrazia di un’auto, chi di una semplice frase, il peso non cambia. Sonia è un’ex collega di Ugo, cambia lavoro e non si rivedono per quasi dieci anni. Poi la maternità, i responsabili della sua azienda in galera e la difficoltà di ritrovarsi una sistemazione, forse anche per troppa arroganza, come se il lavoro le fosse dovuto, perché lo sa fare bene. Si rimette in contatto con Ugo, mettendo l’orgoglio un momento da parte, perché le torna in mente il suo volto in un momento di difficoltà. «Ragazza, ma a te non brillano gli occhi», le dice Ugo al bar di Garibaldi. Una semplice frase che la rimette in moto, un bagno di umiltà che le fa cambiare approccio ai colloqui e che le fa arrivare più di una proposta lavorativa.

Poi ancora Conrad, che è passato dal dormire sotto un ponte a lavorare in un ostello. Michele, di Salerno, laureato in Giurisprudenza che, dopo sei anni passati a partecipare a concorsi pubblici senza risultati, ha deciso si trasferirsi a Milano in mezzo a mille difficoltà. E Godstime, africano, chiamato così dalla madre perché nato di domenica, che, diventato amico dei ragazzi del Banco alimentare mentre chiedeva l’elemosina, ora potrebbe trovarsi un lavoro come pizzaiolo o saldatore.

E poi Abdul, l’eroe della serata, che non racconta nulla. Semplicemente, alla fine della cena, prende una chitarra e si mette a cantare. Amore che vieni, amore che vai di De Andrè, la prima canzone che ha imparato per esercitarsi con l’italiano, a vent’anni dalla morte del cantautore. E lo ricorda meglio di molti altri. Solo per ringraziare. Con un sorriso che è lo stesso che sta sulla faccia di tutti quelli in sala, conquistati da un rapporto di una tale gratuità che fa ben sperare. Come se si potesse fare qualsiasi cosa, chiunque tu sia, qualunque sia il tuo problema, con un amico che ti sta a fianco.