Guadalupe Arbona Abascal

Meeting. "Nacque il tuo nome da ciò che fissavi"

L'intervento di Guadalupe Arbona Abascal, Docente di Letteratura Comparata e coordinatrice Master in Scrittura Creativa all'Università Complutense di Madrid, sul titolo dell'edizione 2019
Guadalupe Arbona Abascal

Tre sentimenti mi assalgono oggi.
1. Sono molto grata per l'invito.
2. Allo stesso tempo sono piena di un sentimento d'imbarazzo. Vengo al Meeting da anni e sempre sono stata seduta dove siete voi. Oppure cercavo uno schermo per poter sentire comunque le vostre voci e imparare. Io farò quello che mi è stato chiesto e che so fare, racconterò storie belle che dicono dei nostri desideri più veri.
3. Il terzo sentimento è di dispiacere per non parlare bene la vostra lingua e di dovermela cavare con il mio itagnolo. Ma anche così, devo dirvi con le parole di quelli spagnoli che venivano nel tempo di Cervantes: «Italia mia ventura". La sento così.
Grazie a tutti e a ciascuno di coloro che contribuiscono ad allargare la mia anima.

Il verso citato nel titolo del Meeting è pieno di suggestioni e offre molti elementi che interessano tutti noi. In primo luogo prenderò in considerazione i due termini iniziali. Il nome e la nascita. Tutti noi abbiamo ricevuto un nome quando siamo nati. Sappiamo bene che al neonato viene imposto un nome perché dall’essere nessuno diventi qualcuno, diventi lui, con il suo nome, unico e irripetibile. In quasi tutte le culture sono i genitori, sapendo che un nuovo essere verrà al mondo, a pensare a un nome per il loro figlio. Ci hanno chiamati con il nostro nome già da piccoli, quando ancora non sapevamo parlare, e ci dicevano: Clara, Martina, Fernando. Quando abbiamo cominciato a camminare ci chiamavano – Ana, Sergio, Cecilia, Javier – per avvertirci di qualche pericolo. E quando siamo cresciuti ancora un po’ la mattina ci svegliavano per andare a scuola e cominciare la giornata: «Su, Guadalupe, alzati che devi andare a scuola».



«Nacque il tuo nome da ciò che fissavi». Wojtyła fa riferimento alla Veronica, la donna che, asciugando il volto di Gesù con un panno di lino mentre saliva al Calvario, conservò l’immagine del volto sporco di sangue e di sudore. Per questo l’espressione riferita alla Veronica suscita in noi questa domanda: se abbiamo ricevuto il nome già alla nascita, se è un bene che ci è stato dato e confermato man mano che crescevamo e scoprivamo le cose, per quale motivo dovrebbe nascere da quel che guardiamo, anzi, di più, da quello che guardiamo intensamente? Il fatto curioso è che in Veronica il nome si è generato non dalla nascita ma da un incontro. Allora forse è necessario un altro nome, un nome che indichi la necessità di rinascere e rinominarsi? Non sappiamo come si chiamasse Veronica – secondo certe tradizioni era l’emorroissa che toccò il mantello di Gesù per guarire –, ma sicuramente aveva un nome. Quel che ci dice il racconto evangelico è che fu segnata da Colui che aveva accudito; compatita per i suoi dolori è diventata un tutt’uno con l’Uomo di cui aveva avuto pietà. E così Veronica acquisì un nome, tornò a nascere. La sua storia fu la storia di una seconda nascita.
Il verso arriva direttamente al cuore del nostro tempo, perché credo che in nessuna epoca come nella nostra si sia provata tanto, e tanto intensamente, la nostalgia della propria nascita. Verranno in mio aiuto alcune opere letterarie che ho letto e riletto perché parlavano di me, della mia esperienza umana. Sviluppo il mio intervento in quattro punti scanditi dalle immagini di Guillermo Alfaro.


1. «Non sono ancora nato»

Qui e di seguito, alcune opere di Guillermo Alfaro

Gli uomini e le donne del nostro tempo esprimono il loro desiderio di nascita con un grido interno, un anelito che sorge dalla radice più profonda del vivere. A volte, si manifesta come una lieve nostalgia o un sentimento fugace che si insinua nel cuore: il sussurro di qualcosa che si è perduto vivendo e al quale si vorrebbe tornare. Altre volte, può manifestarsi come un bisogno esasperato o un gemito doloroso. In entrambi i casi, nasce da un sentimento di malinconia riguardo a un mondo che nel momento in cui è stato scoperto si è percepito come ordinato e armonico, senza macchie, provvido, felice.
Il regista cinematografico Pedro Almodóvar descrive la nostalgia della sua infanzia nel suo ultimo film. Il protagonista di Dolor y gloria, così si intitola la pellicola, è un regista esaurito. Dopo anni di fama e successo, si sente vuoto e depresso. La sua vita trascorre in una profonda apatia, niente riesce più a interessarlo. Ha smesso di scrivere, non dirige più film, non esce di casa, non risponde agli inviti. Vive in una perenne e tormentata insonnia. Ritrova un po’ di vita solo se ricorda l’infanzia, le scene di quando era bambino e viveva in un paesino poverissimo della Spagna degli anni Cinquanta. Un periodo in cui vivere riparandosi in una grotta o sopravvivere con pochissimo non gli impediva di sentire l’amore di sua madre. Gli odori e le prime parole dell’infanzia gli fanno ricordare l’inconfondibile accento della gioia che poi, tristemente, si è persa per strada. Dolor y gloria è il racconto della perdita di un bene. È possibile tornare all’infanzia? Nel desiderio del regista spagnolo si può rispecchiare il nostro: la voglia di sentire di nuovo le cose come se si fossero appena scoperte, di sapere che la vita è in buone mani, come quando eravamo bambini e sapevamo che nostra madre vigilava per proteggerci. Eravamo figli.

Il poeta spagnolo Federico García Lorca, in una lettera scritta a ventidue anni e indirizzata al chitarrista Regino Sáinz de la Maza, confessa una cosa che considera terribile, che può dire soltanto in segreto:

Ora ho scoperto una cosa terribile (non dirlo a nessuno) Io non sono ancora nato. Io vivo in prestito, quello che ho dentro non è mio, staremo a vedere se nasco. La mia anima non si è per nulla aperta. A volte credo con ragione di avere il cuore di latta!

Lorca sente di essere estraneo a se stesso e di vivere «in prestito». Per fortuna, allo stesso tempo desidera tornare a nascere: «staremo a vedere se nasco». La mancanza di questa nascita fa sì che il suo cuore gli sembri di latta, non di carne, è di metallo! E aggiunge: «La mia anima non si è per nulla aperta». Come si può aprire l’anima?

Ascoltiamo come altre coscienze acute del nostro tempo hanno percepito l’urgenza di nascere di nuovo. Lo scrittore francese Albert Camus, uno degli uomini più impegnati del suo tempo, ha vissuto questa urgenza, per questo ha scritto pagine magnifiche sulla sua nascita. Lo ha fatto nell’ultima opera a cui stava lavorando: Il primo uomo. Il manoscritto fu ritrovato in un quaderno che lo scrittore aveva nella tasca della camicia quando lo estrassero dalle lamiere dell’auto in cui morì, vittima di un incidente. Tre anni prima aveva ricevuto il premio Nobel per la Letteratura. È sorprendente che, dopo aver raggiunto la massima gloria riservata a un letterato, egli scrivesse a proposito della sua umile, discreta, silenziosa nascita. Camus, al centro delle polemiche culturali europee, consacrato dai media e dalle riviste dell’intellettualità francese; Camus, che aveva fatto tremare i lettori con le sue storie dell’assurdo; quello stesso Camus immagina la sua nascita, torna indietro per indagare sul senso di un inizio. Lo fa mettendo in scena un suo alter ego, Jacques Cormery. Il capitolo di apertura del Primo Uomo racconta l'arrivo dei genitori di Jacques Cormery in una casa fatiscente ad Algeri. Viaggiano su un calesse sgangherato. La madre era «vestita poveramente ma avvolta in un grande scialle di lana grossa […] aveva un viso dolce e regolare, capelli da spagnola neri e ondulati, un nasino diritto e occhi marrone, belli e limpidi». Scende la sera e lei sta per partorire. Nasce Jacques. La madre guardando il figlio appena nato si lascia sfuggire un «sorriso che […] aveva riempito e trasfigurato la misera stanza». Né la fatica, né la povertà, né la stranezza di generare un figlio in un paese straniero riescono a spegnere il sorriso della madre al figlio, sorriso che trasfigura tutto l’ambiente circostante. Così Camus racconta com’è nato. Ricrea con l’immaginazione il suo primo pianto, appena venuto al mondo, e il sorriso di sua madre.

Permettetemi un breve commento su questo. Quando ho letto questo romanzo, mi è tornata in mente una conversazione tra lo scrittore Giovanni Testori e don Giussani. Il libro che la contiene si intitola Il senso della nascita (1) e trascrive il dialogo che Testori e Giussani ebbero nel febbraio del 1980 sul tema della nascita. Ho confrontato le date e ho pensato che a Testori sarebbe piaciuto leggere il libro di Camus. Non riuscì a farlo perché Testori morì nel 1993, ossia un anno prima che la figlia di Camus desse alle stampe il libro postumo dello scrittore francese. Non so se l’ho sognato, ma mi sarebbe piaciuto partecipare a un dialogo con questi tre interlocutori su quel tema. La conversazione dei due italiani parte dal «gemito» di Camus e di un’intera generazione di europei che soffrono per un’assenza. Giussani scopre la profondità del grido:

Io dico che l’aspetto di gemito che c’è nella gioventù […] è proprio questa assenza. È come se la nascita non fosse presente; e come se non avessero ancora raggiunto la coscienza di questa dipendenza. Vale a dire dell’essere stati voluti. Allora la risposta che diamo a questa identità tra il dolore e la speranza dipende se crepuscolarmente è emerso in loro il presentimento della loro nascita […]; vale a dire del sentimento dell’essere stati voluti. Perché il sentimento supremo è quello d’essere voluti. Quindi il loro modo di reazione dipende se crepuscolarmente questo presentimento s’è fatto largo tra le nubi dense, oppure no». (pp. 66-67).

Anche Testori sembra rispondere al Camus lacerato. Testori sente con la sua generazione quella «assenza, che forse non è assenza, bensì malinconia, nostalgia terribile…» (p. 69)


2. "Twenty-four voices with twenty-four hearts"



Questo desiderio di rinascere – ricordiamo l’espressione di Lorca «non sono ancora nato» – può nascondere l’insicurezza del non sapere chi si è, del sentire crudelmente la mancanza di identità. Il dolore può diventare così insistente che il desiderio si moltiplica e si frammenta, al punto che si può cercare di essere qualcuno essendo centomila, come diceva profeticamente il vostro Pirandello. La ricerca diventa frenetica e si pretende di nascere a ogni istante. Si passa dalla percezione della nascita come dono alla ricerca guidata da una volontà furiosa e vorace di essere molti. Persa di vista la prima nascita, si prova a nascere tante volte. Di mattina si è certe persone, altre a mezzogiorno, altre ancora la sera e altre, differenti, di notte. Diceva Lorca, nella lettera che ho citato prima, che lui stesso si sentiva frammentato in mille io diversi. Gli io del passato e quelli del futuro sono mutevoli: «Vi erano mille Federicos Garcías Lorcas, distesi per sempre nella soffitta del tempo; e nel magazzino dell’avvenire, ho contemplato altri mille Federicos Garcías Lorcas ben piegati, gli uni sugli altri, in attesa di essere gonfiati con il gas per volare senza una direzione» (p. 158).
Questa stessa impressione di disgregarsi in molti volti si ritrova nella musica che ascoltano, canticchiano e ballano i nostri giovani. La perdita di quel sentimento della nascita, dell’unità donata dal primo palpito, li fa scomporre in frammenti. Questa esperienza della frammentazione è cantata dagli Switchfoot in Twenty-four (2) . Tutto si rompe in 24 pezzi, una cosa diversa per ogni momento del vivere. Vedono le cose separate e alla fine ogni cosa vista o vissuta (gli oceani, i cieli, i luoghi, i tentativi, i fallimenti, le voci, i cuori) deve essere abbandonata per essere sostituita dalla seguente, a meno che qualcuno non riunisca le parti.
Se guardiamo i nostri giovani, la loro ricerca si è spostata persino al di fuori dell’io. Percepisco uno scarto generazionale che non mi è estraneo. Oggi si cerca di essere se stessi nelle possibilità e nei riflessi che offre la realtà virtuale. Cercano il numero di like che compare sotto una foto caricata in Instagram, ogni nuovo like è un modo – o un surrogato – per esprimere una preferenza. Vogliamo sentirci appagati, vogliamo che qualcuno ci dica che ci ha visto nell’istante di una foto scattata e caricata in rete.
Stiamo vivendo un periodo in cui si dice che gli algoritmi possono definire chi siamo. Certi scienziati affermano che lo fanno meglio di quanto possiamo definirlo noi stessi. Nel best-seller intitolato Homo Deus. Breve storia del futuro, Yuval Noah Harari (3) si domanda: «Che cos’è l’io?», e conclude che il calcolo dell’algoritmo permette di conoscere una persona addirittura meglio di quanto la conosce il partner con cui convive e, naturalmente, meglio di quella persona stessa.
Harari parla di una cultura datacentrica -non teocentrica, non antropocentrica, ma datacentrica-. Secondo questa affermazione si potrebbe pensare che il mistero dell’io, quella vibrazione che ci accompagna da quando ci alziamo finché non andiamo a dormire, sia interamente risolto. Il calcolo dei nostri like, la collezione dei nostri acquisti su Amazon, delle nostre ricerche su Google, o l’analisi delle foto che carichiamo su Instagram, oltre ai tweet che seguiamo, sono già un materiale sufficiente per definire chi siamo. Può essere una risposta al tema proposto al Meeting: «Nacque il tuo nome da ciò che fissavi»? I dati che lasciamo in rete sono sufficienti per dire chi siamo?

La nostra ricerca dell’identità si svolge tra pixel, tra vere e proprie foreste di pixel. Ed è questo il lato appassionante del momento che stiamo vivendo: che ormai nessuno può dare per scontato chi è. Si cerca e ricerca nelle molteplici possibilità. Ma, allora, si può sperare che sia un pixel, un punto di colore, brillante, luminoso, a permetterci di rinascere, a riportarci alla nostra origine?


3. Che pixel ha la realtà?



L’ipotesi della Modernità – con le sue varianti e declinazioni – proponeva una riflessione interiore per risolvere la questione dell’identità. Una delle conseguenze del fallimento moderno è che si cerca di essere preferiti nella rete. Quanto più percepisco l’esigenza che io sia unica e irripetibile, tanto più mi rendo conto che non posso risolvere da sola questo bisogno. In un certo senso, l’evoluzione dalla Modernità alla Postmodernità, ossia dall’analisi alla ricerca di una misura esterna, provoca un cambiamento interessante. Mette in luce una incrinatura nella ricerca moderna. Vogliamo essere preferiti e seguiti. Abbiamo bisogno di qualcuno che ce lo dica. Vediamo se nella realtà, osservata intensamente e scoperta nei suoi pixel, può esserci qualcosa che valga la pena scoprire.
In questo senso, la proposta che voglio presentare è quella di Luigi Giussani nel capitolo decimo del volume Il senso religioso (4) . La rilancio personalmente perché per me è fondamentale per capire chi sono. In particolare, partirò da uno degli esempi che propone Giussani: quello di immaginare noi stessi nel momento della nascita, quando apriamo gli occhi e vediamo le cose per la prima volta, ma all’età che abbiamo oggi. È vero: può sembrare una proposta un po’ assurda. Io stessa l’ho considerata così la prima volta che ho letto questo esempio: mi è sembrata una fantasia quasi ridicola. Ma nello stesso tempo intuivo l'indicazione di una possibilità diversa; che, da allora, non ho più potuto dimenticare. Riconoscevo l’acume dell’esempio che non mi lasciava indifferente. Ma allora perché il disagio? La verità è che nutrivo un senso di ribellione verso l’idea che esistesse qualcosa di preesistente a me. Provavo un rifiuto verso l’ordine in cui l’io e la realtà entrano in rapporto e si scoprono. Per Giussani l’ordine delle scoperte è fondamentale e, per questo, insiste diverse volte sul tema nel capitolo che abbiamo citato. Molti di voi conoscono questo libro, ma permettetemi di insistere su di esso. Giussani, come ho già detto, invita a immaginare una nuova nascita. Domanda: se aprissimo gli occhi per la prima volta con la coscienza che abbiamo ora, che cosa sarebbe più importante? «Le cose!», dice lui. «Lo stupore di una presenza» (p. 140). In altre parole, per scoprire il vero io, ossia quell’insieme di esigenze e di certezze che siamo noi, per le quali ci muoviamo, è necessario vivere intensamente il reale. Questo è il primo fattore, e viene prima della possibilità di dire «io». Per molto tempo, leggendo questo capitolo, mi sono detta: «Ma perché dice così?». Io quando mi sveglio penso a me, alle mie cose, a quello che devo fare, e cioè ancora una volta a me. E Giussani dice che vengono prima le cose. Io pensavo, quasi senza osare confessarmelo: «La realtà è qui, e allora? Le cose sono uno scenario molto bello, – commentavo tra me e me – ma in realtà si dovrebbe rovesciare il capitolo, e cominciare con la definizione dell’io per poi vedere come sono le cose». In quanto donna moderna, mi ribellavo contro quest’ordine e a lo stesso tempo ero schiava dei miei pensieri, così anche il mio io si affogava. Tuttavia, non potevo liberarmi da quell’esempio, che riaffiorava sempre tranciando le mie segrete ribellioni. Cominciavo a rendermi conto delle occasioni in cui quello che avevo in me e davanti a me diceva di me molto più di qualsiasi pensiero. Incominciai a guardare in faccia le cose che riuscivano ad affascinarmi, le cose che mi attraevano e mi commuovevano. E così ho cominciato a vedere che «il mio ordine» era più pensato che reale. Ho iniziato ad apprezzare le cose che dissipavano la mia confusione o mi facevano scoprire qualcosa di me. Si trattava di verificare l’ipotesi proposta da don Giussani con lealtà. Mi rendevo conto che il pensiero di Giussani rappresenta una svolta antropologica di tale levatura da meritare di essere esaminata seriamente. In realtà, Giussani, oggi posso dirlo per esperienza personale, proponeva questo lavoro per arrivare a quel Fattore che rivela l’unità tra i pixel. Una Presenza che rende le cose vive e attraenti. Una grazia che esalta l’umano e permette che l’io si conosca in un incontro, senza bisogno di ricorrere alla scomposizione dei pixel né all’autoanalisi. La prima scoperta fu - e continua ad essere così - che io stessa ero un dono. Non c'è contraddizione.

Permettetemi di riferire due esempi, tra i molti che ho raccolto, in cui si vede come questa svolta antropologica proposta da Giussani funziona. Ossia, come a partire da un incontro con un fattore, un tu presente nella realtà, emerge l’io.
Il primo si riferisce al caso di un universitario di Madrid, la cui vita si ricompone e rinasce a partire dall’incontro con una professoressa. Citerò stralci di lettere scritte dallo studente a proposito di quel che gli era successo. «Tu hai risvegliato l’umanità che dormiva nella mia persona». Riconosce il suo io più vero: «Il mio cuore è quel che è perché ti ho conosciuto». Non era facile uscire da dove lui veniva: «La mia storia è quella di un bambino triste e infelice che non si è mai sentito amato». Stimolato da questo risveglio, decide di scriverle la sua storia:

Il bambino – si riferisce a se stesso – aveva conosciuto molto bene che cos’era la paura, purtroppo grazie alle mani pesanti di suo padre, un povero anziano, un militare nostalgico della dittatura. Il ragazzo conobbe presto l’alcol e poco tempo dopo le droghe.

Continua:

È complicato riassumere tutti questi anni in poche righe, forse l’enorme quantità di litri di lacrime con cui allora inzuppavo il cuscino potrebbe spiegarlo meglio di quanto lo faccia io. Volevo gridare, gridare per esprimere un milione di emozioni e di sentimenti che non potevo raccontare a nessuno perché non mi fidavo di nessuno. È allora che ho compreso che pregare era una necessità reale, non un mero rituale.

Racconta il suo arrivo all’Università:

E così sono giunto all’università, senza sapere realmente che cosa ci facevo lì, senza avere voglia di rimanerci. Con il cuore pieno di paura e con l’inerzia con cui affrontavo le cose e con molta amarezza dentro di me. Era una fase di alti e bassi e ho cominciato a pensare seriamente al suicidio. È una sensazione veramente dura vedere il treno arrivare ogni mattina e avere la certezza che se mi fossi buttato sui binari non gliene sarebbe fregato a nessuno.

Lo studente descrive l’incontro con la professoressa come una seconda nascita, ossia come l’ingresso in un luogo in cui ti stanno aspettando:

Il tuo ufficio è stato l’unico posto in cui mi sono sentito completamente inserito, in cui sentivo che facevo parte di qualcosa, che, per la prima volta, qualcuno contava su di me, qualcuno mi aspettava.

E conclude così la lettera alla professoressa:

Io esisto da ventiquattro anni, ma vivo solo da quattro. Io, Tizio, nasco perché tu, Caia, hai raccolto la lettera di un bambino che senza saperlo chiedeva aiuto, hai risposto a questa lettera e gli hai dato il dono della vita, la volontà di vivere. Per questo, anche se non mi hai generato né mi hai visto crescere, ti chiamo madre


Il secondo esempio è contenuto in un lungo poema del poeta spagnolo Pedro Salinas. Si intitola «La voce a te dovuta» (5) . Il poeta racconta la sua esperienza amorosa. L’incontro con l’amata è un avvenimento. Si tratta di una presenza che ha scelto il poeta e, grazie a questa scelta, lo ha fatto uscire dal nulla:

Quando tu mi hai scelto
– fu l’amore che scelse –
sono emerso dal grande anonimato
di tutti, del nulla
(LXII, vv. 2150-2153)


Quel momento si identifica bene nell’esperienza perché si condensa in una data precisa, che segna un prima e un dopo, il tempo cambia grazie a quel momento:

È stato, accadde, è vero.
Fu in un giorno, fu una data
che segna il tempo al tempo.
(V, vv. 127-129) (6)

Ma arriva il momento in cui il poeta teme e si rammarica perché qualcosa di così meraviglioso potrebbe perdersi o essere una menzogna:

E sto abbracciato a te
senza chiederti nulla, per timore
che non sia vero
(XXXIX, v. 1397-1399).

Questi ultimi versi ci costringono a fare un altro passo; se si teme per la verità dell’amore incontrato, se si hanno dubbi sulla sua continuità, come si può scoprire un amore duraturo? Come conoscere la sua verità? Dove e a quale realtà affidarsi, che possa resistere al disincanto alla distanza, alle delusioni e al passare del tempo? Lo studente lo intuiva, e concludeva la sua lettera con delle domande e con il desiderio di cercare delle risposte. Da parte sua, Salinas, che sentiva la distanza dall’amata e la sua caduta nelle ombre, si domandava se ci fosse «al mondo un’altra luce» (LXIX, v. 2418). Esiste qualcosa che si può trovare e che non si perda, ma che mi faccia rinascere ogni giorno?


4. Il nome: una voce sulla terra, uno scritto nel cielo



Rivolgiamo il nostro sguardo alla storia per cercare di trovare questo Pixel. Sì, nella storia c’è un uomo che ha calcato questa terra che ha detto ai suoi amici: «Rallegratevi, i vostri nomi sono scritti nel cielo». Lo ha detto sulla terra, e pronunciando il nome di ciascuno dei suoi amici allo stesso tempo annunciava un permanere nel cielo. Questa frase ha importanza più in là del dove e quando fu proferita? Può dire a noi qualcosa il fatto che i nostri nomi siano scritti in cielo? A me, personalmente, lo dice se mi sono sentita chiamata sulla terra con una intensità propria del cielo.
Torniamo a colui che ha promesso che il nome sarà scritto nel cielo: Gesù di Nazaret. Lo ha promesso soltanto perché ha pronunciato il nome di alcuni uomini e donne mentre camminava in Palestina. E l’intensità con cui lo ha fatto è commentata da Julián Carrón:

Gesù pronunciò il loro nome: "Maria!", "Zaccheo!", "Matteo!". "Donna, non piangere!"». Che comunicazione di Sé deve essersi in quel momento riversata in loro per segnarne così potentemente la vita, fino al punto che non potevano più rivolgersi a niente, non potevano più guardare la realtà, guardare se stessi, se non investiti da quella Presenza, da quella voce, da quella intensità con cui era stato pronunciato il loro nome (7) .

Ciò significa che li ha chiamati sulla terra per iniziare con loro un rapporto pieno di stima. Una storia così radicale da essere destinata a giungere fino in cielo. Soffermiamoci su come viene raccontato questo modo di chiamare per nome o, ed è lo stesso, che cosa conteneva quella maniera di chiamare che faceva emergere i tratti più caratteristici di ognuno. Luca parla di un personaggio, il cui nome è passato alla storia per il rapporto che ebbe con il Nazareno: si tratta di Zaccheo. La sua storia è giunta fino a noi. Luca, che ricorda la frase di Gesù «i vostri nomi sono scritti nel cielo», seppe che il nome di Zaccheo è fra questi perché il suo nome fu udito sulla terra.


Tutti sapete quale fosse il mestiere di Zaccheo: era un pubblicano, un esattore delle imposte per conto dei romani. Era ricco. Per gli esattori che operavano lontano da Roma, era facile ricavare lauti margini dalle imposte. Zaccheo viveva a Gerico, una piccola e bella città, un’oasi in mezzo al deserto cui si scende da Gerusalemme, circondata dalle mura più antiche che si conoscano. Adorna di palme con grappoli di datteri gialli, rossi, arancio e violacei; ricca di fichi bianchi e neri, di sicomori centenari. Zaccheo non era benvoluto, viveva in una casa molto più bella di quelle dei suoi vicini. La sua non era di fango, aveva le fondamenta di pietra ed era ornata da capitelli romani. Nessuno voleva stare con lui. I rabbini nella sinagoga alludevano a lui quando accusavano chi estorceva le imposte al popolo. Si scagliavano del resto contro tutti i pubblicani, invitando a evitarli. Chi si mescolava con gente del genere si sarebbe contaminato. Tanto più se fraternizzava con il loro capo! Le donne, che sono sempre più ardite, evitavano Zaccheo: quelle anziane non esitavano a maledirlo quando vedevano che passava per strada; quelle sposate lo guardavano con rabbia che montava perché si prendeva la metà del salario dei mariti; le giovani si giravano dall’altra parte quando lui le salutava. Non lo sopportavano nemmeno le bambine, che gli tiravano piccole pietre per ferirgli le caviglie.
Per questo fu ben strano che Zaccheo uscisse di casa quel giorno, ma si annoiava a stare solo, in mezzo a servi e schiave. Certo, era necessario prendere le debite precauzioni. Zaccheo era sempre circospetto: si copriva il volto con un mantello, entrava di nascosto nel tempio, per evitare gli sguardi di disapprovazione, si sedeva nella parte più appartata della sinagoga, sempre negli angoli bui o riparandosi dietro le colonne.
La sera precedente aveva sentito dire dalle serve della cucina che quel giorno il Galileo sarebbe passato per la città. Un uomo che faceva prodigi. Veniva da Gerusalemme e la sua fama lo precedeva. Zaccheo passò la notte sveglio. Né i guadagni di quel giorno, né il ripasso dei crediti riuscirono a distrarlo. Aveva tutto e non aveva niente. Si sentiva vuoto. Il mattino dopo si decise: sarebbe andato in piazza per cercare di vederlo. L’attenzione di tutti sarebbe stata attirata dal Nazareno e lui, Zaccheo, sarebbe passato inosservato. Indossò una tunica di stoffa più scadente del solito per non essere riconosciuto. Si coprì anche la testa e parte del volto. Quando uscì dalla porta di casa, si rese conto della ressa; sembrava un giorno di festa. Seguì la corrente della folla. Aguzzò gli orecchi. Chiese informazioni ai bambini, coprendosi il volto perché non lo riconoscessero. Questi gli dissero, in mezzo alla confusione, che Il famoso rabbi avrebbe attraversato la piazza dei sicomori. La raggiunse passando per stradine poco frequentate. Siccome era molto basso di statura, non riusciva a vedere niente. Sorrise scorgendo i bambini che giocavano alla guerra tirandosi i frutti del sicomoro, ricordava i suoi giochi d’infanzia. E gli venne un’idea: salire su uno di quegli alberi. Lì sarebbe rimasto indisturbato e avrebbe potuto vedere comodamente lui. Era l’unica cosa che desiderava: vederlo. Provava una specie di inquietudine. Era la curiosità. Ultimamente, aveva sempre più paura, non si sentiva sicuro; aveva fatto perfino alzare il recinto del giardino perché nessuno lo potesse vedere. Pensava di essere come prigioniero nella sua stessa casa. Temeva le donne, i bambini e i sacerdoti del tempio. Non dormiva bene. Parlava soltanto con quelli che lo adulavano, temendo il suo potere o desiderando del denaro. Si stupì di se stesso, non sapeva bene che cosa stesse facendo, avvinghiato al tronco dell’albero, mentre aspettava che passasse uno sconosciuto che non aveva niente a che fare con lui. Si sentì un verme. «Magari – pensò – cerco la confusione per dimenticare le mie paure e la mia terribile noia. Sono stanco di stare sempre rinchiuso». E poi, come rispondendo a se stesso: «Non c’è altro rimedio, la clausura è necessaria per custodire il mio denaro e aumentare le mie proprietà…», e cercava di nascondere la sua espressione triste con pensieri dettati dall’avarizia. A quel punto vide il gruppo di bambini che precedeva la sua figura. Lo seguì con lo sguardo. Si avvicinava. Ormai il rabbi era lontano soltanto qualche metro, ma Zaccheo non poteva vederlo in volto. Il Nazareno camminava in silenzio. Guardava intensamente quelli che si avvicinavano, ma il suo sguardo non si aggirava intorno cercando il consenso generale. Si mise a guardare una bambina. Zaccheo provò un senso di invidia: il maestro concentrava la sua attenzione su quell’essere magro e insignificante, come se fosse l’unica bambina al mondo. No, decisamente quello che veniva considerato un maestro non aveva uno sguardo generico. Continuò ad avanzare e si avvicinò al tronco del sicomoro. Zaccheo si arrampicò un po’ più in alto, si sporse e si spostò sui fragili rami che si piegarono sotto il suo peso. Voleva vedere il suo volto e non ci riusciva dall’alto. In quel momento vide che alzava lo sguardo verso il ramo a cui era appeso. «Che strano!» pensò Zaccheo che se ne intendeva di sguardi, soprattutto perché voleva evitarli. Non è necessario che sollevi gli occhi, «ha molto da guardare intorno a lui e non è naturale che si metta a fissare la chioma del sicomoro. Alzare gli occhi in quel momento era il gesto più strano che si potesse fare. Ma era proprio quello che il Nazareno stava facendo». Zaccheo vide che i suoi occhi lo scoprivano e sentì dire:

«Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua»
(Luca 19,5)

Possiamo immaginare che cosa passasse per la testa di quell’omino.

ZAC-CHE-O. Sì, era il suo nome e quell’uomo lo pronunciava in un modo che non aveva mai sentito. Neanche da piccolo lo avevano chiamato così. Anche se quel tono gli aveva ricordato la voce di sua madre; e le voci dei suoi fratelli quando giocavano nella piazza o facevano il bagno nella cisterna; e suo padre che di sera li chiamava, stanco dopo una giornata di lavoro nei campi; e quella ragazza che gli aveva parlato con tenerezza e che lui aveva sognato per tante notti… Lo sguardo, la voce di quel rabbi aveva in sé queste cose, e anche di più. Diceva qualcosa di profondo di lui stesso, come se conoscesse le sue sofferenze degli ultimi tempi, come se abbracciasse la sua insonnia e le sue insoddisfazioni. Ma come faceva a sapere il suo nome? Forse lo aveva domandato ai sacerdoti del tempio? In tal caso, ora lo avrebbe rimproverato. – pensò per un momento Ma era impossibile: la sua voce non era severa, ma gioiosa, piena di simpatia e di affetto. Il cuore gli diede un balzo. Che cosa stava succedendo? Sentiva il cuore pieno di quella musica con cui l’uomo che aveva davanti a sé pronunciava il suo nome.
Era come se i muri che da anni stava costruendo intorno alla sua casa, e anche intorno al suo cuore, stessero crollando. Sembrava che il tempo si fosse fermato, non aveva più in mente la paura della notte precedente, l’angoscia era svanita. E nemmeno si preoccupava del modo di proteggere le sue ricchezze perché non gliele rubassero. Esisteva solo quel momento. Il passato e il futuro, che normalmente lo tormentavano, erano scomparsi. Quel modo di dire il suo nome, quell’Uomo: «quella cosa lì era tutto», Quell’uomo era diventato tutto, l’orizzonte di tutto. «Zaccheo s’è sentito investire da quello sguardo» (8) . Si scoprì il volto, voleva guardare meglio, identificare i tratti del maestro, vedere il colore dei suoi occhi. Se avesse potuto sentire anche il suo odore! «Fu guardato e allora vide» (9) .
E per di più quel maestro voleva venire a casa sua! Non a casa dei sacerdoti del tempio, né a quella delle pie donne, né a quella dei discepoli. Ma a casa sua! A casa di un reietto sociale, a casa di uno straniero nella propria città, a casa di un esecrabile esattore di imposte! Allora Zaccheo scese, senza pensarci più di tanto, scese precipitosamente, lasciandosi vedere e scostando la stoffa che gli copriva la faccia per non essere riconosciuto. Scese «dall’albero e corse a casa per riceverLo» (10) . Notava di avere un’energia insolita, una voglia di vedere più da vicino, di andare verso di lui, scopriva che tutti i suoi arti riprendevano vigore che i suoi sensi diventavano acuti. I colori delle cose erano più brillanti! Zaccheo nasceva di nuovo, era diverso, si muoveva in un altro modo. Prese a camminare eretto, sciolto, non si nascondeva, sorrideva perfino. Andava dritto a casa per preparare il pranzo in onore del suo ospite. Che cosa era cambiato? Tutto e niente. Portava qualcosa dentro di sé, camminava con un tesoro che non si poteva calcolare né accumulare. Portava dentro di sé la «faccia e il cuore di quello sguardo» (11) .

Così Luca - e un po' io - racconta come Zaccheo nacque di nuovo. Quel pizzico di curiosità lo condusse verso qualcosa che superò ampiamente ciò che sperava. Guardato da Qualcuno che gli restituì il modo di vedere tutto il resto. «Nel perimetro chiuso della sua vita si era introdotta la prospettiva del Destino» (12) .

E arriviamo alla conclusione. Vi invito nuovamente a usare l’immaginazione. Pensate a cosa succederebbe se fossero qui gli interlocutori con cui ho dialogato questo pomeriggio, seduti accanto a noi, disposti a conversare con Emilia e con me, a riprendere le nostre domande, a incrociare i nostri desideri più veri. Immaginate un dialogo in cui improvvisamente apparissero le cose che ci portiamo dentro e di cui abbiamo bisogno; un momento in cui l’amicizia diventa più intensa e, riscaldati dalla sincerità e dalla fiducia, i cuori si aprono. Non è difficile da immaginare, perché sono come noi: Federico García Lorca, Albert Camus, Salinas, i musicisti degli Switchfoot e Almodóvar sono in noi, sono come nostri compagni di lavoro e nostri vicini, come nostri genitori e nostri figli. Supponete che ci fosse, qui e ora, Federico García Lorca che ci sussurra all’orecchio che non è ancora nato: «Caro Federico, si può uscire dalla paura e dalla solitudine, si può nascere di nuovo. Guarda Zaccheo». Immaginate che Camus stia piangendo perché è orfano: «Albert, comprendo le tue lacrime, è possibile essere figlio. Anch’io ho pianto e qualcuno mi ha preso per mano rendendomi figlia». E se avessimo invitato Almodóvar al Meeting, gli direi: «Pedro, sì, anche a 54 anni è possibile vivere come bambini, è possibile dipendere da una tenerezza e da una gioia nel presente». Riviviamo per un momento l’intensità dell’amore di Salinas, immaginatelo mentre parla della bellezza della sua amata per ore e alla fine, confidenzialmente, ci dicesse, con un’ombra di nostalgia, che vuole di più: «È vero, Pedro, l’amore risveglia in noi un desiderio insaziabile di infinito e in questo mondo esiste una bellezza che parla dell’infinito. Io vivo di questo amore». E se il gruppo degli Switchfoot ci canticchiasse la sua canzone chiedendo che qualcuno riunisse i suoi frammenti: «Ragazzi, c’è qualcuno che chiamandoci unisce i pezzi, a me è successo e adesso le mie ore e i miei giorni sono uniti perché rispondono a Lui». Sono risposte ardite, molto ardite, ma le direi lealmente a questi amici, non con l’intenzione di insegnare qualcosa, ma lasciando che da me scaturisca l’esperienza di una Presenza che mi rende figlia.





Note

1- L. Giussani e G. Testori, Il senso della nascita, Bur, Milano 2013.
2 - https://www.youtube.com/watch?v=c6oCFVGuSyQ.
3 - Yuval Noah Harari, Homo Deus. Breve storia del futuro, Bompiani, Milano 2017, ed. digitale.
4 - L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010.
5 - P. Salinas, La voce a te dovuta. Poema, a cura di E. Scoles, Einaudi, Torino 1979.
6- Inoltre, nell’amante si genera un nuovo sguardo, non è più orfano, vede tutto con altri occhi:

…esiste un altro essere
con cui io guardo il mondo
perché sta amandomi con i suoi occhi
(XXI, vv. 808-809).

E la vita si trasforma nel ripetersi di questo avvenimento, che continua ad accadere senza che la sorpresa venga meno:

Quale immensa novità
tornare ancora,
ripetere, mai uguale,
quello stupore infinito!
(LIX, vv. 2074-2077).

Ciò significa che l’amata appare come il tu che riempie il mondo e gli dà l’impulso della sua vibrazione. Quel che era vuoto, senza colore né consistenza, acquisisce materialità; quel che non era nulla mostra, grazie all’incontro, il suo splendore:

Il grande mondo vuoto,
inerte, innanzi a te
stava: l’impulso
lo avresti dato tu
(XIII, vv. 481-483).
Che gran vigilia il mondo!
Nulla era fatto.
Né materia, né numeri,
né astri, né secoli, nulla.
Non era nero il carbone
né tenera era la rosa.
Nulla era nulla, ancora
(XIII, vv. 425-430).

7 - J. Carrón, La bellezza disarmata, Rizzoli, Milano 2015, p. 324.
8 - L. Giussani, Qui e ora. (1984-1985), Bur, Milano 2009, pp. 421-447.
9 - J. Carrón, Dov’è Dio? La fede cristiana al tempo della grande incertezza, Una conversazione con Andrea Tornielli, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2017, pp. 78-82.
10 - J. Carrón, Il mio cuore è lieto perché Tu, Cristo, vivi, Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione, Rimini 2017, Supplemento a «Tracce - Litterae Communionis», n. 6/2017, pp. 34-40.
11 - L. Giussani, in Ch. Péguy, Lui è qui. Pagine scelte, BUR, Milano 2009, pp. 96-97.
12 - L. Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti 1820, Genova 2000, p. 40.