Kabul, Afghanistan (Sohaib Ghyasi/Unsplash)

Meeting. Afghanistan, tutto perduto?

Mercoledì 25 agosto in Fiera (alle 11, Sala Tiglio) un dialogo sulla situazione del Paese. Dall'intervento al Meeting della moglie del presidente Ghani nel 2015 ai fatti sconvolgenti di questi giorni a Kabul. Dal "Quotidiano Meeting"
Roberto Fontolan



C’era una volta un Afghanistan che sognava. Lo aveva raccontato al Meeting 2015 la moglie del presidente Ghani, la first lady Rula, di origine libanese e cristiana, che desiderava essere chiamata con il suo nome afghano, Bibi Gul. Era stata inserita dal Time tra i cento leader che possono cambiare il mondo. E in quegli anni, nonostante tutto: le stragi, la violenza sempre implacabile, la povertà spaventosa, i diritti umani schiacciati; nonostante tutto questo in quegli anni a Kabul ancora si sognava, ancora si credeva, ancora si lavorava per un Paese nuovo.

Bibi Gul Ghani era un punto di riferimento per centinaia di associazioni e iniziative e progetti: dalla lotta all’analfabetismo all’aiuto alle donne, dalla microimpresa alla famiglia, dalla riabilitazione dei feriti delle innumerevoli guerre all’educazione sanitaria. Un fermento incredibile ha animato per anni uno dei luoghi più bui del pianeta, che ben si posizionava ai primi posti di tutte le classifiche negative: povertà, sottosviluppo, diritti della persona, danni provocati dai conflitti. Quell’Afghanistan ci stava provando, anche grazie alla tutela delle missioni militari occidentali. Quante volte abbiamo sentito i racconti dei soldati italiani impegnati anche a ricostruire scuole e ad assistere i bambini. Moltiplichiamolo per quasi venti anni e per i vari contingenti occidentali: spagnoli, tedeschi, britannici (persino gli americani, anche se oggi il presidente Biden ci racconta che «non siamo andati laggiù per costruire una nazione ma per cacciare i terroristi: la missione è compiuta e dunque ce ne andiamo») e così tutti gli altri. Quanti volontari, quante ong si sono impegnate in Afghanistan in tutti questi anni? Un numero incalcolabile: ancora in queste ore, quando si tratta di salvare migliaia di afghani che hanno lavorato con gli occidentali (che non sono stati solo eserciti) non lo sappiamo.

Quell’Afghanistan è finito con la presa di Kabul da parte dei Talebani, lunedi 16 agosto, primo giorno del secondo Emirato islamico di Afghanistan.
Forse era già finito prima, da quel rapido inarrestabile conto alla rovescia scattato con gli accordi di Doha che avevano rimesso l’America di fronte a suoi nemici, e forse ai suoi incubi. Tra pochi giorni ricorre l’anniversario dell’11 settembre. E c’è una immagine, crudelissima e straziante, che sigilla l’inizio e la fine di questo ventennio, il tempo di una generazione: i corpi che cadono dalle Torri Gemelle in fiamme e i corpi che cadono dall’aereo che decolla dalla bolgia infernale di Kabul.

Da una decina di giorni tantissime domande affollano le nostre menti, domande che si situano ben al di là della cronaca ora per ora: cosa è davvero accaduto? Come spiegare un simile disastro? È tutto perduto? Che ne sarà di quei sogni, di quell’impegno? E di quelle donne, di quei bambini disperatamente gettati nelle braccia dei soldati perché salvino almeno loro?
Domani qui al Meeting (ore 11, Sala Tiglio) proveremo a guardare assieme i fatti sconvolgenti di questi giorni. Senza pretendere di trovare le risposte, ma con quella passione per la realtà che è la ragione stessa del nostro ritrovarci qui, anno dopo anno.