Immagini tratte dal libro "Preghiera per Nembro" con foto di Marco Quaranta e testi di Guy Chiappaventi (Ed. Ensemble)

Il legame di un popolo

A due anni dall’inizio della pandemia, abbiamo incontrato il sindaco di Nembro, uno dei paesi della Bergamasca più colpiti. Su Tracce di febbraio, Claudio Cancelli racconta quanto sia cambiato tutto. E lui stesso
Paolo Perego

Fine febbraio 2020. L’epidemia di Covid inizia a colpire la Bassa Val Seriana e la Bergamasca in maniera drammatica. Alzano Lombardo, Leffe, Albino, Fiorano… A Bergamo e dintorni in poche settimane muoiono migliaia di persone. A Nembro 188, su 11mila abitanti che conta il piccolo Comune attraversato dal Serio. Per capirci, come se a Milano i morti fossero stati più di 22mila.
A due anni di distanza, Claudio Cancelli, sindaco di Nembro, riguarda a quello che è successo tra le sue montagne, a quanto sia cambiato tutto, a partire da «come sono cambiato io». Sessantasei anni, originario di Gazzaniga, un paese vicino, due figli grandi e una moglie «con cui sono in gran debito, per tutto l’impegno che mi ha assorbito in questi anni». Prima come insegnante e preside, poi, dal 2012, con l’elezione a sindaco.
Il virus, a Nembro, è arrivato come un fantasma, all’improvviso e toccando tutti: famiglie, giovani e meno giovani, anziani soprattutto. E quando ci si è resi conto di quello che stava accadendo la situazione era già grave. Cosa è rimasto di tutto quello che si è vissuto? Di recente, Cancelli è stato tra i protagonisti di un dialogo dedicato al libro C’è speranza? di Julián Carrón e si è raccontato: il dolore di quelle settimane, il rapporto con la comunità, il bisogno di dare un senso a quello che era accaduto. Oggi lo ritroviamo in Municipio, nel suo ufficio affacciato sulla piazza del paese, in un giorno di mercato. Ha appena ricevuto una coppia con un bambino. E basta guardare come si salutano per capire che a Nembro non c’è più spazio per la sola formalità.

Sindaco, si dice “cambiato” da quello che è successo. Cosa intende?
Io scrivo molto, cerco sempre di raccontare quello che sento. Ai miei consiglieri, per Natale, ho mandato un augurio in cui parlavo di una nuova sensibilità umana che ha arricchito il mio bagaglio di riferimenti etici e di valori, quelli che guidano anche l’impegno politico. È cambiato il mio modo di sentire le cose. Nel giugno 2020, alla Messa per i nostri morti, avevo parlato del fatto che ognuno di noi è “migliore” anche per la ricchezza della comunità in cui si trova a vivere. E facevo riferimento ai morti, con la cui eredità dobbiamo misurarci in ogni possibile progetto di vita. Ma serve un’apertura agli altri: e la disponibilità ad accettare che questo ti trasformi.

Il sindaco Cancelli alla cerimonia in suffragio delle vittime, 23 giugno 2020 (Foto Marco Quaranta)

E in voi come è successo?
Guardo allo spessore della tragedia che abbiamo vissuto. A come ci siamo mossi. Da subito, con i miei collaboratori, ci siamo resi conto che le persone avevano bisogno di vicinanza, di certezze. L’alternativa era lanciare strali all’Ats, alla sanità lombarda… A un sistema che, e poteva esser vero, ci aveva lasciati da soli. Un Comune è spesso concepito come erogatore di servizi. Raccolta rifiuti, viabilità, scuole. In quel momento era chiaro che il servizio non bastava: bisognava far sapere alle persone che qualcuno le aveva a cuore, che magari non avremmo risolto tutti i problemi, ma che noi c’eravamo.

Durante il lockdown, anche dalla stanza in cui era rinchiuso perché ammalato, registrava messaggi per i suoi cittadini…
Raccontavo quello che di bello e positivo mi passava tra le mani durante la giornata. Gente che si aiutava, moti di solidarietà inaspettati, piccole e grandi storie fra le tantissime che capitavano. Eravamo tutti chiusi in casa. Molti anziani erano rimasti soli. Eravamo bombardati dai media in quel modo che tutti sappiamo. E che vediamo ancora oggi…

Lei registrava i messaggi per dire che non c’era solo la tragedia?
Che stava accadendo anche altro. Parlando del libro di Carrón, ho citato Filone d’Alessandria: «La paura è sofferenza prima della sofferenza. La speranza è gioia prima della gioia». Sono atteggiamenti con cui possiamo porci davanti a tutto, che riguardano il modo di affrontare il quotidiano. Anche quello così drammatico di allora, quando la speranza si poteva vedere, toccare. Si è visto l’impegno di tante associazioni e di singoli, iniziative personali ma sempre in una direzione comune. Ho visto l’eroico in chi si preoccupava di chi doveva fare le dialisi o nei miei collaboratori che per mancanza di personale si occupavano di cose mai fatte prima, come una donna che si è sempre occupata di cultura e sport in Municipio impegnata, in quei giorni, a registrare le morti. I ragazzi dell’oratorio che giravano a distribuire mascherine, tanta gente del paese. Il dentista che è partito per Parma a recuperare presidi sanitari, o il pensionato che è arrivato fino a Torino per recuperare del cibo… In quei miei messaggi che – ho scoperto dopo – tante famiglie ascoltavano ogni sera intorno alla tavola, raccontavo questo: ciò che cambiava me nella giornata. E questo era contagioso, le persone si mettevano in gioco vedendo altri che si muovevano.

I ragazzi dell'oratorio consegnano le mascherine (Foto Marco Quaranta)

Cosa è rimasto di tutto questo?
Intanto ci ha permesso di credere in un progetto di ricostruzione collettiva. L’ho percepito da subito, appena finito quel periodo, incontrando la gente. E capitava di commuovermi. Per questo penso che si debba ragionare davvero sulla possibilità di non tornare alla “normalità di prima”.

Cioè?
Bisogna dare spazio a quello che abbiamo scoperto, che poi è anche il senso dell’eredità di chi è morto. È qualcosa che dovremmo lasciare ai nostri ragazzi.

Cosa vuol dire concretamente?
Mi accorgo di essere cambiato nel modo con cui esercito l’amministrazione. Mi ritrovo a fare interventi, riunioni e progetti con più anima e affetto. Io sono uno dalla formazione tecnica e operativa, fisico e preside per anni, quindi avvezzo alle amministrazioni. E sono consulente informatico… Oggi mi accorgo di avere a cuore altro. Nei miei interventi, nei momenti ufficiali, nel modo in cui guardo le persone. Con tanti ci sentiamo più famiglia. Mi viene spesso in mente un brano da La morte di Ivan Il’ic di Tolstoj, in cui c’è quel giudice che vede le malattie e le morti degli altri come cose che non lo riguardano, e poi finisce per ammalarsi e morire solo.

È la scoperta che “l’altro è un bene”…
Sì, ma non arriva dal nulla e non nasce per la pandemia. Ha un’altra origine. Siamo un comune piccolo, ma da tempo abbiamo sei comitati di quartiere, una decina di persone per ogni zona, che si interfacciano con noi sui problemi, fanno proposte, chiedono fondi o opere pubbliche. Ci sono tanti percorsi partecipati. Pubblichiamo i bilanci sociali e li mandiamo a tutti i cittadini, un libretto che racconta il cosa, il perché e il come di ciò che si è fatto. C’è un rapporto radicato tra le realtà associative, un legame importante con la parrocchia, con le comunità di altre religioni. Un’idea di società del genere ha avuto come esito che durante la primavera del 2020 tanta gente chiamasse in Comune per rendersi utile. Anche in termini di donazioni: l’anno scorso 176mila euro da utilizzare per le famiglie e oltre 400mila durante la campagna per la casa di riposo. Territorio generoso? Certo. Ma uno di solito dona alle parrocchie, alle opere di carità. Dal Comune ti aspetti i servizi che già paghi con le tasse. Questa resilienza che la comunità ha avuto è legata a una cultura e a una tradizione che c’erano prima e di cui la pandemia ci ha fatto prendere consapevolezza.

È più semplice in un piccolo paese, forse.
Ma non è scontato. Se penso al mio passato da insegnante, dico che occorre un’educazione. Nell’educare, oltre a dare una competenza, serve “attivare” chi impara: che si metta in campo, che sia protagonista. E poi è necessario capire perché magari uno studente è in difficoltà, mettersi di fianco a lui. Credo che questo a Nembro sia accaduto in passato. E, quando è arrivato il Covid, in qualche modo eravamo “preparati”, anche senza essere preparati al virus.

Molti sono rimasti colpiti da quello che ha detto sul non aver celebrato nel 2020 l’anniversario della Madonna dello Zuccarello, l’Addolorata, al vostro santuario.
Si festeggia ogni 25 anni e la ricorrenza era proprio nel 2020. Lo abbiamo recuperato nel 2021, e alla fine della Messa, nel mio discorso, ho detto che non ce lo eravamo persi, ma lo avevamo vissuto sulla nostra pelle. Per me è stato così. I riti contano, i botti, la processione… Ma quando l’ho detto, tanti sono venuti a ringraziarmi, perché era vero anche per loro. Un altro rinvio era accaduto nel 1945, per la Guerra. Mi ha fatto pensare ai limiti degli uomini, al pensiero che abbiamo di dominare il mondo, ma poi... In fondo la pandemia, l’imprevisto, ci ha rimesso davanti a ciò che siamo. E lì mi sono reso conto che quel dolore dell’Addolorata lo avevamo vissuto anche noi.

Vissuto tra i funerali di quel marzo 2020…
Eravamo arrivati a quindici al giorno. E a un certo punto non si riusciva a celebrarli tutti. Nella valle non si suonavano più le campane: erano troppi. Se penso che ancora oggi c’è chi dice che quelle bare erano vuote… Ricordo che il 15 marzo non ho registrato il comunicato. Ero in isolamento. Una giornata terribile, c’erano stati tanti morti. Avevo buttato giù una riflessione sul senso del piangere e del desiderio di abbracciarci davanti a quella tragedia. Ma quel giorno non riuscivo proprio a leggere quello che avevo scritto…

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E come se ne esce da quel 15 marzo? Vero, per un sindaco ci sono il senso del dovere, la responsabilità… Ma bastano?
No. Piuttosto c’è che ti accorgi di quel legame con l’altro che dicevo prima, di cui parla anche Carrón nel libro sulla speranza. Per chi crede, l’“Altro” ha la maiuscola, però l’altro a cui dare fiducia e cura esiste anche per chi, come me, non è credente ma lo sente vicino, prossimo, e da questa persona si lascia trasformare. Ognuno di noi qui gioca la propria natura, la propria anima e umanità. Non puoi star fermo, se no lo specchio in cui ti guardi si spacca in mille pezzi… Non riesci a rimanere indifferente. O a mantenere solo un aplomb istituzionale. Io non riesco più. Non è più sufficiente.