Monsignor Giuseppe Baturi, secondo da destra

«Un contributo alla pace? La vita stessa»

Presentato a Cagliari, l'8 giugno, il libro del Papa "Contro la guerra". Hanno partecipato, oltre a monsignor Giuseppe Baturi, arcivescovo del capoluogo sardo, anche il filosofo Andrea Oppo e Matteo Corrias, studente di GS
Matteo Vinti

Una serata di giugno a Cagliari. Un teatro presso una parrocchia cittadina. Un libro sulla pace, intessuto di spezzoni di discorsi e di encicliche di un Papa preso «quasi alla fine del mondo» (Papa Francesco, Contro la guerra, Solferino - LEV). Un vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana. Un professore di filosofia frequentatore di Russia e Ucraina. Uno studente di liceo scientifico. L’interesse a seguire un incontro che parli (anche) della guerra in Ucraina, ma non ricalchi i cliché di mille altri dibattiti ascoltati in televisione. Il desiderio di una comunità cristiana di arrischiare un giudizio culturale sul nostro tempo.

Nasce così la tavola rotonda “Il coraggio di costruire la pace”. Anzitutto, ci siamo posti in ascolto dell’insegnamento della Chiesa. Monsignor Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari, esordisce con un detto di Giovanni Crisostomo: «Noi preghiamo e supplichiamo a gran voce l’angelo della pace, e in ogni luogo chiediamo la pace». Gesù esortava a leggere la storia, i “segni dei tempi”, non come analisti, bensì come una sfida alla libertà. E per parlare di pace, bisogna individuare da dove nasce la guerra: «Gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo», ricorda l’Arcivescovo citando la Gaudium et spes del Concilio Vaticano II. La guerra nasce da una non accettazione dell’altro, dall’idolatria come spiegazione della realtà in base a una propria parzialità. Il primo contributo alla pace – insiste Baturi – è la verità stessa, lo stare ai fatti; e poi la giustizia, la misericordia e il perdono. E conclude: «Val la pena notare che mentre noi, dopo la Seconda Guerra mondiale, abbiamo pacificato impiccando i vinti al processo di Norimberga, in Africa dopo il conflitto tra hutu e tutsi in ogni villaggio si sono costituite commissioni di verità, senza cercare la punizione dei colpevoli».

Non si dà possibilità di vera pace senza accoglienza cordiale dell’altro, senza mettersi in ascolto della sua umanità. Andrea Oppo, professore di Filosofia presso la Facoltà Teologica della Sardegna, racconta dell’animus del popolo russo: «In russo ci sono, unica tra le lingue slave, due parole che significano “verità”: la pravda è la verità pubblica, ufficiale; l’esperienza intima, incomunicabile, religiosa della verità si dice invece istina». È all’istina che bisogna riferirsi per comprendere il senso di isolamento, di incomprensione, che il popolo russo vive nei confronti dell’Occidente. «La festa del 9 maggio, che commemora la vittoria della Grande guerra patriottica, cioè della Seconda guerra mondiale, non è innanzitutto la parata militare della Piazza Rossa», spiega Oppo. «Si celebra in ogni paesino della Russia con processioni nelle quali gli abitanti recano con sé le fotografie dei propri caduti in guerra. Non c’è famiglia in cui non ci sia stato almeno un morto. Circa 27 milioni di russi, di ucraini, di bielorussi sono morti nella guerra. E non vogliono dimenticarli. Per loro, quando noi occidentali rappresentiamo la Seconda guerra mondiale come una vittoria degli Stati Uniti, dimentichiamo i morti che hanno messo loro».

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Da ultimo, Gioventù Studentesca di Cagliari ha condiviso l’esperienza di pace in atto che conduce da qualche mese ogni domenica: una caritativa con sedici bambini ucraini provenienti da un orfanotrofio del Donbass presso una struttura di suore vincenziane. «La legge suprema del nostro essere è mettere in comune se stessi», ha detto uno dei giessini, Matteo Corrias, riecheggiando parole di don Giussani. «Il dono di sé commosso è anzitutto quello di Cristo verso l’uomo. Ma se uno fa l’esperienza di essere amato non può che amare e restituire qualcosa che ha già avuto, come gratitudine per il dono di poter imparare un po’ della carità di Cristo». Si possono così affrontare positivamente le difficoltà di comunicazione, si canta e si gioca insieme, non ci si scoraggia davanti ai momenti di monotonia e di malumore dei ragazzi ucraini. «Proprio quando il gesto della caritativa non ci corrispondeva immediatamente ne abbiamo compreso il valore educativo», prosegue Matteo. «Bisogna essere fedeli per darci il tempo per capire le cose e obbedire al gesto proposto e non ridurlo a ciò che pensiamo noi. Obbedire ci permette di ricordare che chi può far felici quei bambini non siamo noi, ma un Altro. Caritativa significa riscoprire ogni giorno che apparteniamo ad un Altro. E noi siamo più liberi quando ci ricordiamo chi siamo e a chi apparteniamo».