Se il "giudice ragazzino" torna in tribunale
La mostra del Meeting di Rimini su Rosario Livatino tra i corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano. Ma anche in altre città italiane. Come a Roma, in Senato. O a Padova, presente il ministro Nordio. Un unico fil rouge: l'incontro con un'umanità vivaNell’aula magna del tribunale di Milano non c’è un posto libero, gli ultimi arrivati devono stare in piedi. Mancano pochi minuti all’inizio del convegno che accompagna l’esposizione dalla mostra del Meeting di Rimini “Sub tutela Dei. Il giudice Rosario Livatino”, magistrato ucciso a 38 anni dalla mafia nel 1990 e proclamato beato per martirium fidei, il 9 maggio 2021. Sara Tarantini, giovane avvocato tra i curatori dell’esposizione, lo scorge in fondo all’aula. Si avvicina: «Venga, ci sono due posti». Salvatore Calafato la segue. L’uomo è stato uno dei mandanti dell’omicidio del “giudice ragazzino”. Sua è la lettera a chiusura della mostra: «Non so se sia giusto da parte mia chiedere perdono ma iniziare a farlo è forse un primo passo che potrebbe condurmi alla ricerca del vero senso del gesto sperando di ricevere la tua tutela». Il suo pentimento e il suo percorso di conversione è uno dei segni della santità di Livatino.
Fatto inusuale, dopo due ore di convegno l’aula è ancora piena di magistrati, avvocati e studenti. Mentre aspettano di uscire, Calafato racconta a Sara dei figli, dei nipoti e poi dalla borsa estrae copia del Miguel Mañara di Milosz: «Questo è il mio libro. Nessuno lo può leggere come lo leggo io». «Sono vere le parole dell’abate quando dice che “queste cose non sono mai state Egli solo è”. È possibile ricominciare sempre», gli dice Sara. E ripensa a un passaggio della relazione di Giuseppe Ondei, presidente della Corte d’Appello al convegno: «L’augurio, allora, è che possa accadere anche a noi quanto è accaduto a molte persone che pur in situazioni diverse (e talora opposte) si sono imbattute in Rosario Livatino, cioè vivere l’esperienza di una metanoia, di un cambiamento, di una maggiore profondità di sguardo e di coscienza e di un maggior coraggio nell’affermare la verità, nell’affrontare i problemi e le sfide alle quali siamo chiamati». L’aula si svuota e nell’atrio davanti ai pannelli della mostra cominciano a formarsi gruppi di persone.
«Mi ha fatto venire voglia di vivere e lavorare. Se ne è accorto anche il mio capo quando tornavo in studio». «Mi ha colpito la sua umanità», «È diventato un compagno fedele», «Più la spiegavo, più lo conoscevo, più mi diventava amico». Queste espressioni sono il filo rosso che unisce i racconti di avvocati, magistrati e universitari che hanno fatto da guida, dal 21 febbraio al 14 marzo, agli oltre 3000 visitatori. Qualcosa che è accaduto a loro in primis. Per tutti sono stati venti giorni di incontri, per far incontrare questo amico speciale.
Durante una spiegazione un signore chiede a Luca Tosoni, IV anno di Giurisprudenza: «Come è possibile applicare la giusta pena tenendo conto della possibile rieducazione dell’imputato?». Il ragazzo si sente un po’ spiazzato. Pensa a cosa lo ha colpito del giudice assassinato. «Rosario in questo è stato un esempio. Aveva sempre la consapevolezza di avere davanti delle persone che nell’errore commesso potevano fare un cammino rieducativo. Se fosse vivo sarebbe contento non tanto che i suoi killer sono in carcere, ma perché alcuni di loro sono cambiati in carcere».
Simone Luerti, magistrato di sorveglianza, accompagna due gruppi di giudici. Nel raccontare la mostra si sofferma sullo sguardo di Livatino verso l’imputato, uno sguardo «teso alla redenzione», ripreso anche dal decreto sul martirio. I colleghi seguono attentissimi. Asciutti nei commenti, come è nella loro natura. Un collega gli dice: «Mi hanno invitato in parrocchia a parlare di perdono a un gruppo di ragazzi. Non voglio fare un discorso. Ora ho un esempio vivo da raccontare: Livatino. Anche perché è servito a me per ricomprendere in cosa consiste il perdono».
C’è bisogno di qualcuno che si occupi degli aspetti pratici: prenotazione visite, acquisto cataloghi eccetera. Paolo Tosoni, avvocato e curatore della mostra, chiede a Mara Turco, responsabile relazioni esterne dell’Ordine degli Avvocati, se può dare una mano. Fino a quel momento la signora non sapeva nulla del giudice ragazzino, ma rimane conquistata dalla sua vita e dal suo pensiero. Ai quaranta consiglieri degli avvocati lombardi regala il catalogo, dopo averli portati a vedere i pannelli della mostra. Si attacca al telefono e invita scuole e comunità di minori. A Paolo scrive: «Ho avuto la fortuna di conoscere Livatino. Ho visto Palazzo di Giustizia aprirsi a una miriade di persone diverse. Persone che non venivano qui in attesa di una sentenza, di una condanna, per vendicare un torto subito. Ho visto volti composti di persone che si aggiravano nell’atrio in attesa di incontrare il beato Livatino. Questo cosa dice? Che abbiamo bisogno di esempi da seguire, a cui ispirarci. A cui guardare ogni giorno».
Sarà per gli inviti di Mara, sarà per un passaparola, più di 2.200 studenti arrivano a Palazzo di Giustizia. A Giovanni Scotti, secondo anno di Giurisprudenza, capita la classe di un istituto tecnico dell’hinterland milanese. Fanno tante domande soprattutto sulla mafia e su come Livatino operava. Davanti al pannello di Pietro Nava (il testimone oculare che permise l’arresto dei killer e per questo da trent’anni vive sotto protezione, ndr), Giovanni chiede: «Secondo voi è stato un gesto eroico?». «No, un atto profondamente umano», rispondono. Ed uno di loro aggiunge: «È umano e per questo da lui possiamo imparare un comportamento e farlo nostro». Giovanni rimane sbalordito, pensare che era stato indeciso fino all’ultimo se dare la disponibilità per le guide. È un periodo dove sente impellente una domanda: come il Diritto può interagire con la sua creatività umana? «La risposta me l’ha data proprio Livatino: nelle sue agende, nel suo lavoro, ha giocato la sua libertà e creatività al punto da dare la vita».
I più attenti e interessati alla vita del giudice siciliano sono i ragazzi delle comunità per minori. Fanno mille domande anche personali. Uno chiede a Paolo Caccialanza, giovane avvocato: «Ma come ci si sente a difendere un colpevole?». Oppure ad Andrea Bacigalupo, studente di Giurisprudenza: «Ma tu da grande vuoi fare il giudice? E sarai come lui?». Un ragazzino, con procedimento penale in corso, al termine della visita esclama: «È forte questa storia!». Mauro Gallina, magistrato, è lì a pochi metri. «La mostra è stata l’incontro con una umanità viva, che interpella», racconta. «Uno degli aspetti che più mi ha colpito è come lui non ha fatto nulla di eccezionale. A parte in un paio di relazioni non ha mai parlato di fede e giustizia, eppure la sua vita è stata una continua testimonianza che ha generato un cambiamento nella società e nella Chiesa». Nella mostra c’è il video di Giovanni Paolo II ad Agrigento quando grida rivolgendosi ai mafiosi: «Convertitevi!». Quelle frasi il Pontefice le aggiunse all’ultimo, dopo aver incontrato i genitori del beato. «Come giudici dobbiamo essere imparziali, indipendenti… Livatino mi ha “risolto” il problema di come testimoniare la mia fede. Lui cosa ha fatto? Ha vissuto. Per me è lo stesso: si vive tenendo aperta la domanda, “approfittando” di ogni occasione che le circostanze concedono. Come la mostra».
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Milano è una delle tappe dove è approdata la mostra che al Meeting aveva già riscosso grande successo. Da agosto, tribunali, parrocchie, scuole di tutta Italia hanno ospitato l’esposizione. A Roma nella sala capitolare del Senato della Repubblica è stata portata come reliquia la sua camicia insanguinata. In ogni luogo, personalità del mondo della Giustizia e della Chiesa hanno dato il loro contributo. La cosa che colpisce è che non sono stati interventi istituzionali, ma accenti di come la vita del beato ha interagito con la loro vita.
A Padova il 31 marzo il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha esordito dicendo che «non ci troviamo di fronte a un magistrato caduto nell’adempimento del dovere, ma davanti a qualcuno che ha fatto qualcosa di più: ha perdonato i suoi assassini. Una scelta che solo alcuni sanno fare. Io non ci sarei riuscito». E ha proseguito chiedendosi dove sta la giustizia divina nell’omicidio di un uomo come Livatino. «La risposta si trova solo nel Nuovo Testamento. Il fatto che lo stesso Creatore del mondo si sia immolato su questa terra per redimere i peccatori, concilia la massima ingiustizia con la massima tra le espiazioni, perché se addirittura Dio si mette alla pari con il reo che viene punito, allora l’ingiustizia di tutte le Auschwitz è stata riparata dal sacrificio del Creatore. Se viene a mancare la fede nelle istituzioni umane e la speranza in Dio, resta la terza virtù che san Paolo dice essere la più importante: la carità. È questo ciò che ha fatto Livatino perdonando i suoi assassini, ed è questa la lezione che ci lascia». Ancora una volta si è ripetuto il “miracolo” di sentire Livatino “amico, “compagno”.