Papa Francesco agli Stati Generali della natalità (Foto: Ansa/Vatican Media)

Natalità. Un cantiere di speranza

Papa Francesco è intervenuto alla terza edizione degli Stati Generali della natalità. «L'eroismo di tanti non può diventare una scusa per tutti. Occorrono politiche lungimiranti». Ecco il suo intervento
Papa Francesco

Signora Presidente del Consiglio,
distinte Autorità e Rappresentanti della società civile,
cari amici, fratelli, caro amico Gigi,

mi scuso di non parlare in piedi, ma non tollero il dolore quando sono in piedi. Saluto tutti voi e vi ringrazio per il vostro impegno. Grazie a Gigi De Palo, Presidente della Fondazione per la Natalità, per le sue parole e per l’invito, perché credo che il tema della natalità sia centrale per tutti, soprattutto per il futuro dell’Italia e dell’Europa. Vorrei dare soltanto due “fotografie” che sono successe qui in Piazza [San Pietro]. Due settimane fa, il mio segretario era in Piazza e veniva una mamma con la carrozzina. Lui, un prete tenero, si è avvicinato per benedire il bambino… era un cagnolino! Quindici giorni fa, all’Udienza del mercoledì, io andavo a salutare, e sono arrivato davanti a una signora, cinquantenne più o meno; saluto la signora e lei apre una borsa e dice: “Me lo benedice, il mio bambino”: un cagnolino! Lì non ho avuto pazienza e ho sgridato la signora: “Signora, tanti bambini hanno fame, e lei con il cagnolino!”. Fratelli e sorelle, queste sono scene del presente, ma se le cose vanno così, questa sarà l’abitudine del futuro, stiamo attenti.

La nascita dei figli, infatti, è l’indicatore principale per misurare la speranza di un popolo. Se ne nascono pochi vuol dire che c’è poca speranza. E questo non ha solo ricadute dal punto di vista economico e sociale, ma mina la fiducia nell’avvenire. Ho saputo che lo scorso anno l’Italia ha toccato il minimo storico di nascite: appena 393 mila nuovi nati. È un dato che rivela una grande preoccupazione per il domani. Oggi mettere al mondo dei figli viene percepito come un’impresa a carico delle famiglie. E questo, purtroppo, condiziona la mentalità delle giovani generazioni, che crescono nell’incertezza, se non nella disillusione e nella paura. Vivono un clima sociale in cui metter su famiglia si è trasformato in uno sforzo titanico, anziché essere un valore condiviso che tutti riconoscono e sostengono. Sentirsi soli e costretti a contare esclusivamente sulle proprie forze è pericoloso: vuol dire erodere lentamente il vivere comune e rassegnarsi a esistenze solitarie, in cui ciascuno deve fare da sé. Con la conseguenza che solo i più ricchi possono permettersi, grazie alle loro risorse, maggiore libertà nello scegliere che forma dare alle proprie vite. E questo è ingiusto, oltre che umiliante.

Forse mai come in questo tempo, tra guerre, pandemie, spostamenti di massa e crisi climatiche, il futuro pare incerto. Amici, è incerto; non solo pare, è incerto. Tutto va veloce e pure le certezze acquisite passano in fretta. Infatti, la velocità che ci circonda accresce la fragilità che ci portiamo dentro. E in questo contesto di incertezza e fragilità, le giovani generazioni sperimentano più di tutti una sensazione di precarietà, per cui il domani sembra una montagna impossibile da scalare. La Signora Presidente del Consiglio ha parlato della “crisi”, parola chiave. Ma ricordiamo due cose della crisi: dalla crisi non si esce da soli, o usciamo tutti o non usciamo; e dalla crisi non si esce uguali: usciremo migliori o peggiori. Ricordiamo questo. Questa è la crisi di oggi. Difficoltà a trovare un lavoro stabile, difficoltà a mantenerlo, case dal costo proibitivo, affitti alle stelle e salari insufficienti sono problemi reali. Sono problemi che interpellano la politica, perché è sotto gli occhi di tutti che il mercato libero, senza gli indispensabili correttivi, diventa selvaggio e produce situazioni e disuguaglianze sempre più gravi. Alcuni anni fa, ricordo un aneddoto di una coda davanti a una compagnia di trasporti, una coda di donne che cercavano lavoro. Ad una avevano detto che toccava a lei…; presenta i dati… “Va bene, lei lavorerà undici ore al giorno, e lo stipendio sarà di 600 (euro). Va bene?”. E lei: “Ma come, ma con 600 euro… 11 ore… non si può vivere…” – “Signora, guardi la coda, e scelga. Le piace, lo prende; non le piace, fa la fame”. Questa è un po’ la realtà che si vive. È una cultura poco amica, se non nemica, della famiglia, centrata com’è sui bisogni del singolo, dove si reclamano continui diritti individuali e non si parla dei diritti della famiglia (cfr Esort. ap. Amoris laetitia, 44). In particolare, vi sono condizionamenti quasi insormontabili per le donne. Le più danneggiate sono proprio loro, giovani donne spesso costrette al bivio tra carriera e maternità, oppure schiacciate dal peso della cura per le proprie famiglie, soprattutto in presenza di anziani fragili e persone non autonome. In questo momento le donne sono schiave di questa regola del lavoro selettivo, che impedisce loro pure la maternità.

Continua a leggere su vatican.va