La sede della Corte Suprema USA (Foto: Ansa/Epa/Shawn Thew

USA. La corte suprema e i fattori del cambiamento sociale

Nell'America della culture war, la via giuridica sembra essere la soluzione alle contrapposizioni sui valori. Due sentenze recenti hanno messo nel mirino il politicamente corretto. Ma i nodi da sciogliere sono ancora molti
Pasquale Annicchino*

La Corte Suprema è oggi al centro del dibattito politico e culturale statunitense e, data la sua influenza globale, questo dibattito non riguarda solo il Paese dove esercita la sua giurisdizione ma anche numerosi altri Paesi, del mondo occidentale e non solo, che guardano alla Corte di Washington come modello a cui ispirarsi per risolvere eventuali controversie che il potere giudiziario è chiamato a decidere. Questo è sempre più vero in un contesto di global culture wars nel quale le pronunce del potere giudiziario hanno assunto un ruolo determinante davanti all’inerzia dei parlamenti che preferiscono decidere di non decidere. Come sottolineò a suo tempo Ran Hirschl: «Il trasferimento verso le Corti di argomenti politici di grande rilievo costituisce una conveniente ritirata per quei politici che non hanno voluto o che non sono stati capaci di risolvere difficili controversie pubbliche nella sfera politica. Può costituire anche una strategia di rifugio per i politici che cercano di evitare di prendere decisioni impopolari e/o cercano di evitare il collasso di coalizioni di governo strutturalmente fragili o bloccate».

Sono stati soprattutto due i casi che hanno fatto discutere l’opinione pubblica in questi giorni. Con la decisione nel caso “Students for fair admissions, Inc c. Presidents and Fellows of Harvard College” (arrivato davanti alla Corte con un altro caso sullo stesso argomento), la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionale la politica di affirmative action mediante la quale diverse università statunitensi, nel corso degli anni, hanno deciso di conferire un vantaggio competitivo nelle procedure di ammissione, su base etnico-razziale, a gruppi di studenti appartenenti a determinati gruppi ritenuti svantaggiati. A beneficiare di questa politica sono stati soprattutto gli afroamericani e gli ispanici.

Come per molti temi che riguardano le politiche pubbliche statunitensi, le opinioni a proposito dell’affirmative action sono molto polarizzate a seconda delle ideologie politiche di riferimento. Per la maggioranza dei giudici della Corte Suprema, l’affirmative action costituisce una violazione della Equal Protection Clause della Costituzione federale. John Roberts, presidente della Corte, ha contribuito a rendere il giudizio della Corte un po’ meno netto sottolineando come le università potranno comunque tener conto delle esperienze dei candidati nel contesto della selezione anche se queste sono determinate dalla sua provenienza etnica.
In una seconda decisione, relativa al caso 303 “Creative LLC c. Elenis”, la maggioranza della Corte (6-3) ha stabilito che una legge del Colorado che mira a sanzionare condotte discriminatorie, e che avrebbe potenzialmente obbligato un web-designer contrario ai matrimoni dello stesso sesso a creare siti web anche per coppie che volessero celebrare questa unione, è incostituzionale in quanto in violazione della clausola di protezione della libertà d’espressione del primo emendamento costituzionale. Non è quindi possibile obbligare un professionista a fornire un determinato servizio che sia in violazione dei dettami della sua coscienza. In questo caso la Corte traccia una distinzione tra la condotta di chi si rifiuta di offrire il suo servizio a una persona perché omosessuale (questo comportamento non sarebbe consentito) e il caso di chi, offrendo il suo servizio a prescindere da distinzioni di orientamento sessuale, decide di non offrire un particolare servizio di natura creativa che comporterebbe una violazione di sue profonde convinzioni motivate dalla sua fede religiosa. Nell’ opinione dissenziente la minoranza liberal della Corte ha criticato questa impostazione della maggioranza sostenendo che questa interpretazione non sia conforme a Costituzione.

Le decisioni della Corte si sono subito inserite nel ciclo politico-mediatico che anima i dibattiti di una società polarizzata come quella statunitense, sempre più caratterizzata dalla centralità delle culture wars. Appaiono particolarmente rivelatrici a tal proposito le parole utilizzate dal presidente Joe Biden durante un’intervista con l’emittente Msnbc: «Penso che questa Corte sia fuori fase con il sistema di valori fondamentali del popolo americano» e che «la grande maggioranza degli americani non sia d’accordo con le sue recenti decisioni». Negli ultimi anni la popolarità della Corte suprema presso l’opinione pubblica è stata severamente intaccata. Se nel 2001, sotto la presidenza del giudice William Rehnquist, la Corte registrava un indice di popolarità del 62%, lo scorso settembre si era scesi al 40%. Se alcune critiche si registrano anche per ragioni politiche o ideologiche che portano a non condividere le decisioni della Corte sulla base del loro risultato, deve anche registrarsi un calo della fiducia dovuto alle recenti controversie di natura etico-morale relative ai comportamenti e ai potenziali conflitti d’interesse di alcuni membri della Corte.

Così si discute, ormai liberamente, di un potenziale piano di court-packing che porterebbe a stravolgere la maggioranza conservatrice della Corte mediante la nomina di nuovi membri ideologicamente orientati a sinistra o di ulteriori riforme come, ad esempio, l’introduzione di un limite temporale per l’esercizio delle funzioni di giudice della Corte con l’obiettivo di garantire un cambio più rapido della composizione del supremo organo giudiziario. Alla riflessione di Hirschl che abbiamo citato in precedenza, va forse aggiunta un’ulteriore dimensione che è quella relativa a diversi attori sociali, progressisti o conservatori, che hanno creduto di poter influire sulla cultura, sulla società e sui comportamenti degli individui puntando sul ruolo del potere giudiziario e della Corte Suprema. L’obiettivo era di utilizzare la Corte non solo per risolvere controversie, ma anche per determinare messaggi di inclusione o esclusione di istanze sociali al fine di definire una semiotica della realtà mediante un’opera, per dirla con Robert Cover, di “uccisione di significati”.

Il potere giudiziario, del resto, è epistemologicamente obbligato a mantenere in vita dei significati, delle interpretazioni, e a ucciderne altre. Questa azione appare in linea con il profilo apocalittico che contraddistingue larghi settori della società civile statunitense che operano in una società polarizzata portata, sempre più, al tribalismo e alla divisione. La risoluzione giudiziaria delle controversie sociali può, in un contesto sociale del genere, divenire una comoda scorciatoia che consente di non farsi carico di un lungo e laborioso lavoro di ascolto e di crescita sociale ispirata al dialogo e a una sapienza, per utilizzare le parole di papa Francesco «aperta e in movimento, umile e indagatrice al tempo stesso». La domanda da farsi non sarebbe allora che una: è possibile cambiare il mondo mediante l’esercizio della giurisdizione? O la giurisdizione si limita a seguire i cambiamenti del mondo?

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Questa domanda è particolarmente importante nei casi che riguardano il fattore religioso e il ruolo della religione nella sfera pubblica. Viene da chiedersi se la via giudiziaria alla tutela del ruolo del fattore religioso e alla sua rilevanza sia davvero efficiente o nasconda illusioni ottiche che andrebbero indagate. Se è vero che, a volte, le decisioni del potere giudiziario fungono da acceleratore di importanti processi culturali, difficilmente l’esercizio della giurisdizione è la leva che aziona il cambiamento sociale. Questa, la maggior parte delle volte, segue e non precede il cambiamento. Può far comodo pensare di poter incidere su importanti processi socio-culturali nominando più giudici vicini alla propria ideologia che porteranno a più vittorie giudiziarie. Da questo punto di vista, la storia recente della destra religiosa statunitense dovrebbe essere una storia di successi. Se si guarda a quanto avviene nella società e al ruolo della religione nella sfera pubblica la situazione però appare più complessa. C’è vita oltre le decisioni dei giudici.

* Ricercatore presso il dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Foggia e membro del panel di esperti Osce/Odihr sulla libertà religiosa e di coscienza