Quel "grazie" cantato dietro le sbarre
I volontari di Incontro e Presenza hanno portato nel carcere di Opera la mostra del Centenario di don Giussani. Nei racconti dei detenuti, la figura di un prete mai conosciuto che sta cambiando la loro vita (da "Tracce" di settembre)«Grazie alla vita, che mi ha dato tanto». Giuseppe, che sta scontando la sua pena in carcere, canta con passione il brano di Violeta Parra diventato famoso in tutto il mondo. Siamo in un salone della casa di reclusione di Opera, periferia di Milano, dove i volontari di Incontro e Presenza propongono la mostra per il centenario di don Giussani. Alberto Savorana – “volontario ex articolo 17”, come si dice in gergo carcerario – dopo avere ascoltato la canzone, racconta di un brivido che lo ha preso: «Chi dice “grazie alla vita” in una condizione indesiderabile come questa, o è pazzo oppure deve avere una solida ragione per farlo, deve avere incontrato qualcosa che ha cambiato radicalmente la sua esistenza. Don Giussani ha dato la vita per fare incontrare agli uomini questa ragione, per fare scoprire che non c’è nessuna situazione in cui un uomo non possa vivere».
I volontari, che vengono a Opera ogni sabato da undici anni per vivere un’esperienza di caritativa, hanno deciso di allestire la mostra con un’intenzione precisa, come racconta Guido Boldrin, responsabile del gruppo: «Desideriamo far conoscere alle persone detenute qual è l’origine del nostro agire, chi ci ha educato alla gratuità e ci ha insegnato che la persona non può mai essere ridotta al suo errore, ma in quanto creatura può sempre ritrovare il destino buono per cui ciascuno è fatto».
Fa gli onori di casa a nome della direzione del carcere Maria Luisa Manzi, educatrice: «L’attrattiva per la bellezza vive in tutti gli uomini. Tutti, nessuno escluso. Bisogna riconoscerne il riflesso, anche dentro storie dolorose. Non è un’esperienza mistica, è qualcosa che si può toccare, è qualcuno a cui puoi stringere la mano. E la vita di Giussani lo ha testimoniato, fino a generare persone e opere che hanno contribuito a cambiare l’esistenza di tanti, anche in questo luogo».
Al microfono si susseguono gli interventi delle persone detenute. Ascoltandoli si capisce bene – ancora una volta – che la dinamica del cristianesimo è legata oggi come ai tempi di Gesù all’incontro con dei testimoni. Il primo a parlare è Emanuele R.: «Giussani l’ho incontrato nei volti dei volontari che ogni settimana vengono a trovarmi, mi sono sentito sempre accolto e mai giudicato. Grazie a loro, dopo tanti anni di errori è cambiato il mio atteggiamento verso gli altri, e ho capito che tutti abbiamo bisogno di amare e di essere amati così come siamo». Giulio è uscito da un periodo di depressione, l’amicizia proprio con Emanuele è stata contagiosa e grazie a lui ha conosciuto i “volontari del sabato”, fino a partecipare (in permesso) agli Esercizi spirituali della Fraternità seguendoli online in una parrocchia di Milano. Racconta: «Sarò eternamente grato a queste persone, senza la loro amicizia la mia esistenza sarebbe divorata dalla disperazione e avrei ceduto alla tentazione di togliermi la vita».
Paolo sapeva di Giussani «per sentito dire, ma tutto è cambiato quando ho conosciuto qui i suoi amici. Capisco che se siamo ciò che siamo, è solo grazie agli incontri che facciamo giorno dopo giorno». Khalid è stato conquistato dalla parola “desiderio”, perché «accomuna gli uomini di ogni razza e religione, e questo con voi l’ho provato sulla mia pelle».
Raffaele racconta di una vita passata «a emulare uomini che coltivavano il male ed erano diventati i miei maestri», e del dono ricevuto «conoscendo persone come voi che mi hanno fatto scoprire quanto sia più conveniente emulare chi coltiva il bene». Giuseppe ha “incontrato” per molto tempo Giussani ogni mattina quando apriva gli occhi, perché il suo compagno di cella aveva appeso al muro i Volantoni di Natale e di Pasqua che i volontari gli regalavano ogni anno. Poi ha cominciato a leggere Tracce conoscendo «quello strano prete» e i frutti nati dal suo carisma, ha scoperto la comune passione per Leopardi («il mio poeta preferito»), ha letto Il senso religioso e ha cominciato lui stesso a parlare di quell’uomo agli altri detenuti. Per esempio, a Emanuele B., che racconta dei colloqui settimanali con i volontari come di «un aiuto decisivo per la mia ripartenza personale dopo una vita sbagliata e tanti anni trascorsi in un mondo complicato come il carcere. È attraverso i loro volti che Dio mi è venuto a cercare, e io mi sono lasciato trovare».
Alessandro, ai tempi in cui studiava Lettere classiche all’Università Cattolica di Milano, per due anni ha seguito i corsi di Introduzione alla teologia tenuti da don Giussani nell’aula Gemelli. «Mi colpiva la sua capacità di mettersi in gioco con noi giovani, ascoltando domande e obiezioni e puntando sempre sulla ragionevolezza della fede. E avere ritrovato qui i suoi “seguaci” – con molti dei quali siamo diventati amici – mi fa ripensare a quando lui parlava dell’“incontro” come modalità fondamentale per conoscere il cristianesimo».
Gianluca leggendo la biografia di Giussani in carcere ha scoperto un uomo che «ascoltava tutti e imparava da tutti». Savorana parte proprio da qui, dalla capacità di Giussani di incontrare le persone scoprendo in ognuno lo stesso desiderio di felicità e di compimento che bruciava nel suo cuore e valorizzando ogni lembo di umanità. E racconta del giovane seminarista di Desio che coltivava grandi desideri, ma non sapeva come soddisfarli, fino al “bel giorno” in cui, ascoltando un insegnante che leggeva il Vangelo di Giovanni, percepì che Dio aveva avuto pietà degli uomini che non trovavano la strada per realizzare le loro aspirazioni, fino a farsi uomo in carne e ossa per accompagnare «la marcia dei loro piedi stanchi», come recita la canzone di Violeta Parra.
Quella storia cominciata duemila anni fa è arrivata fino a noi grazie a una catena di volti e di incontri, fino a quelli che accadono ogni sabato nel carcere di Opera. Savorana cita parole molto impegnative pronunciate da Giussani alla fine degli anni Cinquanta, ma che sembrano scritte per i presenti: «La persona sta al di là di tutto ciò che noi sentiamo, di tutto ciò che fa, della sua stessa fisionomia. La persona è totalmente al di là di ciò che vediamo in essa. Perciò io addirittura posso – e devo – amare anche chi mi uccide, perché il suo valore personale è oltre la sua cattiveria».
Antonio Boi, comandante del reparto di polizia penitenziaria, conosce bene le storie di dolore che abitano le celle, e riconosce «quanto è prezioso il lavoro dei volontari che condividono con i detenuti l’eredità viva di un uomo come Giussani e la sua passione nel proporre delle ragioni di vita che possano sostenere l’esistenza. Imbattersi in qualcuno che vive di questa certezza può diventare l’occasione per cominciare percorsi di rinascita imprevedibili». Una rinascita che mette in moto la persona e spalanca il cuore: in questi anni, tanti detenuti hanno aderito alla Giornata nazionale della Colletta Alimentare promossa in carcere, alcuni hanno organizzato una raccolta straordinaria di cibo in favore dei profughi ucraini arrivati in Italia, altri hanno proposto un recital di canzoni e poesie il cui ricavato è stato offerto a un’associazione che aiuta i bambini affetti da leucemia.
LEGGI ANCHE - Leopardi. Cara ineffabile Bellezza
Per don Francesco Palumbo, cappellano a Opera, «mettere al centro l’umano anziché il reato commesso o il curriculum carcerario, considerare la persona nella sua nudità andando oltre luoghi comuni e pregiudizi, è decisivo per migliorare la qualità delle relazioni e aiutare la vita a rifiorire, e voi lo testimoniate. Ma l’umano ha bisogno di Qualcosa che lo alimenti, come Giussani ha testimoniato: sono colpito dal fatto che prima di andare ai colloqui con i detenuti partecipiate alla Messa, per incontrare Chi davvero può fare felici voi e loro».
Enrica Spreafico frequenta il carcere da 31 anni con l’associazione Sesta Opera San Fedele, ha conosciuto Giussani da giovane al liceo Manzoni di Lecco («ero compagna di classe di Angelo Scola») e oggi rivede nei volontari «la medesima passione di testimoniare Cristo come senso dell’esistenza e come possibilità di vivere pienamente la propria umanità in ogni circostanza. E così, dentro una prigione, i detenuti possono incontrare qualcuno che li accompagna in un cammino di riscoperta della propria dignità». «È proprio ciò che impariamo andando in caritativa: il valore infinito della persona», dice Fabio Romano, presidente di Incontro e Presenza. «È per questo che quando torniamo nelle nostre case ci scopriamo pieni di gratitudine, e possiamo dire anche noi – come Giuseppe e come Violeta Parra – “grazie alla vita”».
*giornalista e volontario di "Incontro e Presenza"