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Alle origini di un impegno

Il testo della lezione tenuta il 14 ottobre scorso da monsignor Massimo Camisasca ad alcuni giovani impegnati in politica
Massimo Camisasca*

Prima di entrare nel tema centrale della mia lezione, vorrei fare tre premesse.

1) In mezzo a voi non ho nessuna autorità. Sono qui, come mi avete chiesto invitandomi, per accompagnare le vostre vite prima ancora della vostra vocazione politica. Certo, accompagnare le vostre vite implicherebbe consuetudine, conoscenza – che forse non sarà possibile, se non con alcuni –, ma questo comunque è il senso di questa mia relazione. Ecco, accompagnare le vostre vite, forse, fino alla vostra vocazione politica, ma certamente non a partire da essa.

2) Una seconda premessa: non rappresento nessuna parte, non rappresento nessuna opzione e nessun partito, tanto meno l’idea di militare tutti nello stesso partito. Anche questo mi libera, non sono qui per fare campagna elettorale per qualcuno.

3) Per quanto conosca solo qualcuno tra di voi, ho molta stima del coraggio e dell’impegno con cui una persona oggi, nel movimento e nella Chiesa, voglia vivere la propria vocazione cristiana anche attraverso l’impegno amministrativo, politico, a qualunque livello. Vorrei che sentiste – e non in modo sentimentale – la stima che vi meritate perché occorre un lavoro, un lavoro sodo, occorre un rapporto molto profondo con gli ideali della propria vita per potersi spendere fino all’impegno amministrativo e politico, impegno che comporta tensioni, talvolta irriconoscenza, ingratitudine, divisioni, lacerazioni. Vorrei che la sentiste. Questa stima per il coraggio e per l’impegno non deve mancare mai.

Per entrare nel nostro tema, mi piacerebbe partire da alcune parole di don Giussani, tratte dagli appunti che conservo di un incontro del 7 dicembre 1985. Parlando di fronte a circa un migliaio di amministratori, commentò un articolo de L’Unità di quella mattina, l’intervento dell’onorevole Alfredo Reichlin a un raduno di giovani del Partito Comunista a Ferrara. «L’idea fondamentale», disse don Giussani «è che il PC dovrà essere la punta di guida del futuro». Infatti il titolo di quel convegno di giovani a Ferrara era: “Quale forza saprà guidare il futuro?”. Potrebbe essere un titolo adeguato anche al nostro incontro di oggi, se alla parola forza sostituissimo la parola ideale, comunità. Noi guardiamo al futuro. Cosa possiamo essere per il futuro? Giussani diceva allora (ed era il 1985!): «La punta di guida di questo futuro in cui il robot dominerà e in cui l’ideale sarà quello di Engels: lavorare il meno possibile». E aggiungeva: «Il futuro sarà guidato da una appartenenza riconosciuta, da una realtà sociale in cui la chiarezza di appartenenza sarà tale che renderà possibile un’azione tanto seria così da spalancarla a una capacità di gratuità, in cui l’uomo si senta finalmente abbracciato nel suo essere senza confine».

Una realtà sociale, comunitaria, che viva cioè un’appartenenza talmente profonda da essere lanciata all’incontro con l’uomo, per abbracciarlo nel suo essere senza confine. E aggiungeva: «Perché la capacità di unità esige l’essere senza confine e la capacità di apertura a tutto ne è una conseguenza». Poi, spiccando il volo, subito sottolineava: «La cosa più importante è che tu viva veramente la fede. Si chiama fede la coscienza dell’appartenenza a un fatto sociale». Qui Giussani sta sottolineando non semplicemente il rapporto tuo, individuale, con un ideale o con Dio, ma che la fede è la coscienza dell’appartenenza a un fatto sociale. «Non per nulla», aggiungeva, «la cristianità ha perso tutto, idealizzando e giustificando questa perdita di tutto, in tutto, perché ha concepito una fede intimistica», aggiungeva lui con linguaggio di quegli anni», la scelta religiosa; intimistica, cioè senza rilievo sociale, senza capacità di creazione di realtà sociale». E concludeva: «Dalla fede di un individuo, di ognuno di noi, deve nascere una trama sociale in cui la gratuità faccia superare ogni confine di corrente, cioè ogni corrente di interesse».

La comunione

Pensando al nostro incontro di oggi, mi è tornata alla mente più volte l’espressione di Gesù: «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» (Lc 18,27). Trovarsi insieme è una follia, perché l’unità è una follia: se non fosse una follia per l’uomo, Cristo non sarebbe morto sulla croce e non sarebbe risorto. Saremmo bastati noi per creare l’unità. Invece, l’unità all’uomo è impossibile.

Che cos’è, allora, l’opera dell’uomo? Molto spesso è la divisione. E ciò che è impossibile all’uomo è l’unità. Dobbiamo pescare in questo punto se vogliamo che nasca qualcosa di veramente nuovo dentro la vita degli uomini, affinché essi possano accorgersi di un’unità che è la profezia di ciò che attendono. Dentro ogni diversa speranza dell’uomo (nel suo lavoro, nella sua donna, nel suo successo, nei suoi figli, nel suo futuro) c’è sempre la speranza dell’unità. Dell’unità della sua vita, che non sia frammentata in un’infinità di segmenti senza connessione; dell’unità con le persone che ama, che non sia messa in discussione o addirittura naufragata dentro l’ira, l’invidia, le gelosie; dell’unità col suo lavoro, che possa essere veramente significativo per la storia della Chiesa e del mondo; dell’unità con se stesso. Invece, molte volte siamo come alienati da noi, fuori di noi. La tradizione cristiana per descrivere questa unità ha usato il termine comunione. La comunione è un dono di Dio, non è un’opera nostra. Noi possiamo e dobbiamo collaborare a quest’opera, ma l’inizio è qualcosa che viene prima di noi.

Una delle fatiche più grandi che ho cercato di vivere da vescovo, e prima ancora da educatore di giovani al sacerdozio, è stata proprio questa: aprire il cuore mio e di chi avevo davanti alla scoperta gigantesca che il fine della vita ci precede. Spesso pensiamo e viviamo come se dovessimo sempre raggiungere qualcosa o qualcuno in una progressione ansiolitica della nostra quotidianità. È vero che l’ideale della vita, il compimento della vita ci sta davanti, ma non è un’utopia raggiungerlo, perché esso è già accaduto per noi e in noi. Aprirci, poi, a questo avvenimento è la svolta decisiva dell’esistenza. Il primo dovere che abbiamo, perciò, non è quello di capire che cosa dobbiamo fare, ma che cosa ci è accaduto, cioè che cosa ci è stato regalato.

Che questo non sia un discorso intimistico o puramente spiritualistico lo abbiamo avvertito, penso tutti più o meno chiaramente, nelle parole di Giussani che abbiamo ascoltato prima. Quello che Giussani ha detto può essere letto con due registri. Il primo registro: ciò che ci è accaduto è qualcosa che dalla nostra persona irradia sempre la società. Il secondo: questo è l’unico bene, il bene vero e reale per la società. Ciò che ci è accaduto è di partecipare alla vita, all’intelligenza e al cuore di Colui attraverso cui è stato fatto il mondo. Non ci è concesso di pensare dono più grande di questo, per noi e per i nostri fratelli. Ciò che ci è accaduto fa di noi una cosa sola, l’unico bene che la società attende. Questo deve essere detto con molta umiltà e nella consapevolezza di tutti i tentativi e di tutte le traduzioni necessarie. Noi sappiamo benissimo che la comunione è un dono sociale, ma sappiamo anche che l’espressione di essa nella società è sempre qualcosa di provvisorio e di fragile. Sappiamo che non esiste nella storia dell’uomo e nella storia della Chiesa nessun tentativo di esprimere la comunione che possa dirsi compiuto e irreversibile. Questo è ciò che giustifica o tiene assieme la possibilità della pluralità di declinazioni. Una pluralità che ci arricchisce, nella misura in cui essa è compresa in senso giusto. Ma vedremo più avanti questo tema del rapporto fra unità e molteplicità o pluralità.

Che cos’è questa comunione? Vorrei soffermarmi su questa parola, su questo avvenimento così importante per noi, a tal punto che è entrato nel nome del movimento che ci accomuna. Esso, infatti, costituisce il cuore stesso di tutto il cristianesimo. Nel greco non religioso koinonìa significava partecipazione di beni: erano in comunione coloro che avevano dei beni in comune. Questi beni potevano essere anche la stessa comunione con gli dei e koinonìa poteva così designare, nel greco religioso e pagano, sedersi a tavola con gli dei per mangiare assieme. Un’accezione, quest’ultima, che i cristiani hanno subito respinto, per poi accorgersi che, invece, si riferiva a qualcosa di vero: ai primi cristiani l’idea della comunione con gli dei ripugnava perché sottintendeva un’idea antropomorfa della divinità. Eppure già nei vangeli questa parola appare, e appare in senso molto laico. Koinones, gente in comunione, sono chiamati Giacomo, Giovanni, Pietro e Andrea, coloro cioè che formavano una cooperativa di pescatori. Nei tre vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca) koinonìa sta a significare condivisione di lavoro, e quindi di beni. San Giovanni opera, invece, una svolta: per lui koinonìa è il termine che indica la comunione tra Dio e l’uomo, tra Dio e gli uomini, tra Dio e gli uomini che Lui sceglie, tra Dio e gli uomini che Lui chiama a partecipare alla Sua avventura, alla Sua alleanza.

Koinonìa per Giovanni è la partecipazione all’umanità di Gesù: non semplicemente la partecipazione a qualcosa di divino, ma soprattutto la partecipazione a qualcosa di umano entro cui si assapora e si può gustare che cos’è l’eterno. Koinonìa viene a descrivere un rapporto fra il tempo e l’eterno che non è per niente evanescente o lontano, ma qualcosa di presente: essa identifica un rapporto che in apparenza è identico alle relazioni umane, ma che custodisce all’interno una profondità che i rapporti umani non avevano prima. Tra Gesù e coloro che chiamava a stare con sé non c’era una comunione di beni e neppure, in fondo, di progetti; c’erano, sì, delle donne che mettevano a disposizione della piccola compagnia dei beni necessari per vivere e che li seguivano, ma in sé non era una comunione di beni o di progetti. Gesù non voleva fare una cooperativa. Non volevano fare qualcosa di rilevante esteriormente, un’impresa che gli uomini potessero notare.

La parola comunione ha assunto il significato di comunione di vita e di destino. La parola comunione, all’inizio, descriveva un fatto imprevisto. Nessuno degli apostoli, o di coloro che sono stati incontrati da Gesù, l’avevano previsto. Nei vangeli, da come se ne parla, sembra quasi impossibile che fosse accaduto. Passò davanti a Matteo, che era il gabelliere. Era lì, alla gabella, e gli dice: «Seguimi». E quello, alzatosi, lo seguì (cfr. Mt 9,9). Ma come è possibile? Che cosa vuol dirci l’evangelista? Che qualcosa di imprevisto era entrato come un turbine nella vita di quegli uomini. Pensiamo a Zaccheo. «Zaccheo, scendi» (cfr. Lc 19,5). Gesù entrava e cambiava completamente la loro esistenza, implicandoli nella sua. Una comunione di vita e di destino. Non solo di vita, ma di destino, perché Lui diceva delle parole e indicava degli orizzonti che davano un segno nuovo alla loro vita, alle loro ore, alle loro giornate.

Nella nostra esistenza quando questo è accaduto? Innanzitutto nel nostro Battesimo. Noi non lo sapevamo e Lui si è inserito nella nostra vita quasi senza chiederci il permesso; dico “quasi” perché occorre sempre il permesso dei genitori e dopo occorre il nostro sì in età matura, che è la Cresima. Successivamente è avvenuto in un tempo decisivo in diverse età della nostra vita, incontrando il carisma di Giussani. C’è stata – e speriamo ci sia ancora – la percezione di qualcosa che ci ha fatti una cosa sola, che ci ha resi una cosa sola. Non perché avevamo già in origine gli stessi sentimenti e le stesse idee e non perché oggi abbiamo gli stessi sentimenti e le stesse idee – anche se si spera che anni e anni di appartenenza abbiano un po’ generato in noi una comunione anche di idee, di sentimenti e di progetti. È, invece, qualcosa che è avvenuto prima: una comunione di vita e di destino che ha fatto di noi una cosa sola. E questo è successo anche se non lo sappiamo più, o non ce ne accorgiamo più, o tendiamo a dimenticarlo, o le cose della vita hanno messo una coltre profonda di polvere su questa unità originaria e originale e più profonda di qualunque nostra idea, sentimento, temperamento, progetto, tanto da essere proprio la radice comune delle nostre vite.

Forse, ci possono venire in aiuto alcuni testi di san Paolo. Uno di questi è la Lettera ai Corinti. Premessa: la comunità di Corinto era una comunità rissosa, pur essendo nata di recente, e Paolo sentiva dentro di sé l’amarezza di queste divisioni. Quante potevano essere le persone della comunità di Corinto? Cento? Centocinquanta? Sentite cosa diceva loro: «Dio mi ha detto: ho un grande popolo in questa città» (cfr. At 18,10). Paolo guardava i suoi come un grande popolo, l’inizio di un grande popolo. Pur sapendo bene cos’era accaduto a questa gente, le divisioni terribili tra loro non gli hanno mai fatto mettere in dubbio che fosse una comunità, una Chiesa, mai, anche quando andavano a dire: «Io sono di Apollo, io sono di Pietro, io sono di Paolo». E lui sarcasticamente risponde: «E io sono di Gesù» (cfr. 1Cor 1,12). Paolo, davanti a questa comunità così divisa, non ha mai detto: «Questa non è una comunità, questa è un’accozzaglia di persone», bensì: «Siamo stati battezzati in un solo Spirito, per formare un solo corpo» (1Cor 12,12). Dalla situazione che aveva davanti agli occhi, gli è venuta in mente l’idea di citare il corpo umano, che forse aveva conosciuto dalla letteratura greco-romana. Laddove la biologia tocca i suoi vertici, c’è somma unità e, assieme, somma differenziazione ed entrambe si corrispondono.

Se ci fosse differenziazione senza unità abbiamo un braccio, una gamba, una testa, un torso, ma se avessimo unità senza differenziazione, cosa avremmo? Una statua. E sottolinea: «Noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo» (1Cor 10,17). L’Apostolo delle Genti prende la stessa immagine della molteplicità che concorre all’unità e dell’unità che è la fonte della molteplicità e la condizione di essa. «Siamo membra gli uni degli altri con doni diversi» (cfr. Rm 12,4-8). Nella Lettera agli Efesini auspica: «Abbiate a cuore di conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace [pace, eirene, era l’altro nome della comunione] perché siamo un solo corpo e abbiamo un solo Spirito» (cfr. Ef 4,1-4).

Che cosa emerge per noi da questa pur estremamente sommaria evocazione? Che ciò che è accaduto alla nostra vita attraverso il Battesimo e l’incontro con il movimento fa di noi una cosa sola. Questo precede e fonda qualunque pluralità di vocazioni. Non dico poi pluralità di scelte politiche, ma di vocazioni. La post modernità non riesce a concepire la relazione fra uguaglianza e differenza. Per essa la differenza contraddice l’uguaglianza, ma questa è la distruzione dell’umano. Noi abbiamo uguali diritti, ma non siamo uguali e, anzi, è una fortuna che non siamo uguali: ciascuno di noi porta il suo dono, una pluralità di doni che nascono dalla differenza di storie, dalla differenza di luoghi, dalla differenza di educazione, dalla differenza sessuale, dalla differenza di religione, di cultura, di pelle, etc... La differenza non contraddice, ma fonda l’uguaglianza della dignità. Così, noi siamo un corpo solo con doni diversi e la pluralità delle nostre vocazioni e dei nostri doni non contraddice l’unità, purché i diversi doni nascano dall’unità e testimonino l’unità.

Se permettete, vi racconto un aneddoto della mia vita che vale quello che vale e che dico per rappresentare un positivo, più che per denunciare un negativo. Ho visto soprattutto nell’esperienza di vescovo, ma anche prima, che nel mio popolo l’appartenenza politica prevaleva sull’appartenenza della fede: si erano, cioè, completamente ribaltati i termini che san Paolo aveva descritto e predicato come fondamento dell’esperienza ecclesiale. Forse, questo è accaduto anche fra noi e soprattutto nel nostro popolo. Forse, a un certo punto non si è più capito il motivo per cui una pluralità di scelte non metta necessariamente in dubbio l’unità. La pluralità di scelte è stata vista come un attentato all’unità. Penso che in noi sia mancata l’esperienza della fede, cioè un’esperienza della comune appartenenza non solo proclamata – e questo lo facciamo o, comunque, pensiamo di farlo –, ma vissuta quotidianamente in un lavoro comune che può portare anche a scelte e sottolineature diverse. Esse non necessariamente mettono in crisi l’unità, ma la arricchiscono purché, e lo sottolineo di nuovo, questa pluralità di scelte nasca ed esprima l’unità.

Nel mondo

E qui passo alla seconda parte della mia riflessione. Questa comunione è interessante per la società? Innanzitutto dobbiamo riconoscere che questa comunione, se è vera, è dentro la società. La comunione cristiana non è un evento posto un metro sopra il mondo. Essa è dentro il mondo. È interessante l’affermazione che troviamo nel vangelo di Giovanni: «Voi non siete del mondo, ma siete nel mondo» (cfr. Gv 15,18-19). Noi partecipiamo, come uomini e come comunità, di tutte le dinamiche che attraversano la vita degli uomini e della società. È importante riprendere questa consapevolezza, perché oggi c’è una grossa perdita di speranza e una grossa tentazione di evasione dalla società di cui – diciamo così – l’abbassamento della partecipazione politica è solo un segnale, e nemmeno tra i più trascurabili. Affermare che noi siamo dentro il mondo è parte della nostra fede cristiana. Dio si è incarnato in un uomo e quest’uomo non era la parvenza di un uomo: era un uomo vero, un uomo nato da una donna, un uomo che ha dovuto imparare a leggere e a scrivere, un uomo che ha vissuto con dei genitori in un paesino, un uomo che aveva sentimenti, che gioiva, che piangeva, che si è adirato. Un uomo che era interessato a quello che accadeva – anche se aveva un giudizio molto chiaro sulla possibilità di non essere determinato interamente da ciò che accadeva –, un uomo che ha posto come scopo della propria missione non quella di cacciare i romani dalla Palestina, ma di porre dentro la vita degli uomini un seme che avrebbe fecondato la loro libertà.

Non è un caso che tutto il suo dibattito con Pilato fosse su verità e libertà. Se noi desideriamo interessarci degli uomini che sono intorno a noi non è per un fattore esteriore alla nostra fede, estrinseco, aggiunto ad essa. Ma per una ragione profondamente interiore a quello che ci è accaduto, che – voglio chiarirlo subito – non è la creazione della società perfetta. La società perfetta non esiste. La ragione non è la riproduzione della Chiesa-società perfetta in una società politica perfetta: sarebbe due errori messi assieme. Quale è, allora, la ragione del nostro interessarci degli altri? È quella di proporre, attraverso forme di vita e valori, un’ipotesi di vita buona per la gente che vive con noi, e quindi una vocazione e un’azione che è attenta, nella mediazione politica, a tutto ciò che contrasta la vita buona, nella considerazione di una distanza critica fra il regno di Dio e la città dell’uomo. Come ho detto prima, non esiste sulla terra la traduzione sociale perfetta del regno di Dio. Esiste, semmai, una distanza critica e necessaria: una tensione. Questa distanza critica tra la città dell’uomo e il regno di Dio esige, affinché l’unità possa continuare a vivere, un lavoro comune. Il regno di Dio cresce, dunque, intrecciato alla storia dell’uomo e, in un certo senso, mi sembra insuperabile l’analisi che fa sant’Agostino: le due città sono intrecciate tra loro.

D’altra parte, c’è anche l’invito di Gesù nella sua parabola (cfr. Mt 13,24-30) a non separare mai il grano dalla zizzania. Dobbiamo stare attenti: non è che il grano è la città di Dio e la zizzania la città dell’uomo. Non è questo il paragone da fare. Nella storia bene e male sono intrecciati tra loro. Noi dobbiamo riconoscerli e saper testimoniare, attraverso la nostra vita, la possibilità del bene, realizzabile sempre e soltanto per grazia di Dio, cioè dell’unità nella vita. E, contestualmente, la lotta possibile contro il male, cioè contro ciò che contrasta la vita buona.

Il regno di Dio intrecciato alla storia dell’uomo si muove attorno a due fuochi: persona e comunità. Dio, infatti, chiama dei singoli per costituire un popolo. Penso che dobbiamo operare questa riflessione sul significato sociale della fede cristiana. Quando Dio ha fatto Adamo ed Eva voleva che fossero suoi familiari, li ha creati perché condividessero la sua vita. L’idea di popolo, come si è andata successivamente articolando nella tradizione giudaica, è l’espressione di ciò che è intrinseco nel progetto di Dio. Esso non è quello di salvare ciascuna persona singolarmente, ma di chiamarci assieme.

La parola Chiesa viene dalla parola greca ekklēsía, che vuol dire elezione. Dio chiama gli uomini dal loro allontanamento, dalla loro dispersione, e li mette assieme. Chiesa vuol dire comunità dei dispersi, che in questo modo vengono a formare una cosa sola. Lo ripeto: Dio non salva la nostra vita, non realizza la nostra vita in un rapporto solitario con Lui. Dio realizza la nostra vita immettendoci in un popolo in rapporto con Lui e che in Lui ha il fondamento. È proprio partecipando alla vita di questo popolo che noi dovremmo imparare quali sono i valori che guidano la vita personale e sociale. È dal popolo, dal nostro popolo, che dobbiamo imparare ciò che è essenziale all’umano, che cos’è l’umano. Così come imparare anche ciò che salva, realizza la vita personale e sociale. Il compito della politica è di esprimere queste forme in una convivenza laica e pluralista.

Mi preme molto il termine “laicità” così come Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, l’ha approfondita. La comunione è la realtà originaria perché Dio è tre Persone. Dio, essendo tre Persone, ha messo dentro tutto ciò che ha creato, non solo nell’uomo e nella donna, ma anche nell’animale, nella pianta, nel sasso, nelle stelle… in tutto ciò che ha creato Dio ha immesso il suo sigillo trinitario. Ogni realtà creata non si giustifica per sé stessa: ad esempio, un figlio è figlio in quanto c’è un padre e un padre è padre in quanto c’è un figlio. Nella Trinità il rapporto tra Padre e Figlio non è un autocompiacimento narcisistico, ma è un’altra Persona. Così questa comunione, dunque, è la realtà originaria che riguarda tutta la Creazione ed è un valore laico. Perché laico è ciò che riguarda tutti. La comunione è ciò a cui tutti sono destinati, è il sigillo di ogni creatura. Ogni persona, anzi, ogni cosa la cerca. Dio è un valore laico, Dio è una presenza laica perché Dio riguarda tutti. Oggi, avendo espulso Dio dalla società, non sappiamo più chi sia l’uomo, perché Dio e l’uomo si possono comprendere soltanto nella misura in cui si connettono. La disconnessione del mistero dalla nostra esistenza rende la vita umana impossibile a comprendersi.

Che cosa vuol dire vivere l’unità, vivere questa realtà originaria che è la comunione? Vivere l’unità nel tempo significa testimoniare Cristo. Testimoniare che l’uomo è liberato dalla catena del tempo. L’uomo è ancora soggetto al tempo, ma è liberato dalla catena del tempo, cioè della morte, ed è liberato dalla catena del male, cioè del suo peccato. Testimoniare Cristo vuol dire annunciare a tutti che è sempre possibile ricominciare e, nello stesso tempo, portare nella vita degli uomini le nuove categorie di giudizio che Cristo ci ha portato. La prima di queste categorie è la libertà. Come ci ha insegnato don Giussani, noi siamo definiti soltanto dall’infinito. Cristo ci ha portato la libertà dalla schiavitù del finito, dalla schiavitù del successo, dalla schiavitù della depressione per l’insuccesso, dalla schiavitù della divisione perché abbiamo visioni diverse, dalla schiavitù della visibilità. Pensando a voi, direi così: testimoniare Cristo, innanzitutto per voi, vuol dire stimarvi l’un l’altro, stimare il lavoro dell’altro come parte del proprio. Perdonare le divisioni accadute e ricominciare.

Mi rendo conto che in politica tutto questo è qualcosa di divino, per questo ho detto che solo Dio lo può fare. Perché solo Dio può permettermi di essere una cosa sola con un’altra persona, il cui lavoro è quello di togliermi un po’ del mio mercato. Occorre una grande statura per vivere ciò, ma se a Dio nulla è impossibile anche questo può essere possibile. Questo accadrà soprattutto se per noi fare politica comporta avere il sentimento del tempo lungo, cioè di una costruzione di lungo termine, di uno stato diverso da quello che abbiamo trovato, di rapporti tra istituzioni diverse.

Testimoniare Cristo vuol dire che fra noi l’ira, la gelosia, la divisione non possono essere le parole definitive. Ciò che ci accomuna sia, invece, il desiderio di lavorare assieme per questo ideale. Lavorare assieme. Come? Su che cosa? Non sono risposte che devo dare io.

Riconoscersi assieme per Cristo – e questo è l’ultimo pensiero che desidero lasciarvi – vuol dire vedere l’altro come sacramento di Cristo. Cioè vedere nell’altro una strada attraverso cui il Signore mi insegna chi sono io. Cristo mi insegna chi sono io insegnandomi la comunione. Questo ci permetterà di essere nel mondo con una speranza più grande delle speranze mondane. E di aver vinto comunque. Noi abbiamo già vinto, anche quando ci tocca perdere. Abbiamo già vinto non perché ha vinto la mia parte – anche se questa parte si chiamasse Chiesa –, ma perché ha vinto Cristo in me e in me Lui ha vinto per tutti. Per tutti gli uomini del mondo per cui mi chiama e mi manda per annunciare, anche attraverso la semplicità di un’opera, questa vittoria. Grazie.

*Vescovo emerito di Reggio Emilia - Guastalla

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