Se la pace ha un volto
Florence, Habiba, i bambini di Marjayoun… E un gesto che educa alla carità, contro l’assuefazione. Nove progetti dicono come è possibile costruire un mondo nuovo. La campagna Tende di AVSI raccontata su "Tracce" di DicembreHabiba ha 19 anni, un figlio e un futuro che si è inceppato in fretta, quando alla fatica di essere una ragazza madre nella periferia di Tunisi si sono aggiunti i guai finanziari del suo piccolo centro estetico. Aveva deciso di chiudere tutto ed emigrare. Ma pochi giorni prima di salire su un barcone, ha visto la sua migliore amica morire in mare, nella rotta per Lampedusa. «Ci ha ripensato. Ha chiesto aiuto alla Caritas. E da lì è arrivata fino a noi», racconta Emanuele Gobbi Frattini, responsabile AVSI in Tunisia: «È iniziato un percorso con lei, un lavoro per migliorare le sue capacità, i materiali che usava». Oggi Habiba ha riaperto il salone e rialzato la testa: guadagna bene, dà lavoro ad altre tre ragazze. Ed è un buon esempio di che cosa vuol dire che lo sviluppo, quando è vero - quando fa crescere le persone -, aiuta la pace.
È la parola al centro delle Tende AVSI 2023, la campagna di sensibilizzazione e fundraising che, come ogni anno, mobilita centinaia di persone, in Italia e non solo. Titolo: “Desideriamo la pace. Diamole volti, i nostri”. Un modo per sostenere progetti dell’organizzazione internazionale presente in 40 Paesi, ma anche per affrontare una domanda che tutti, in questi mesi, abbiamo sentito affiorare, davanti alla “terza guerra mondiale a pezzi”: che cosa posso fare io per la pace?
«Le Tende permettono di raccogliere i fondi per i progetti, certo; ma hanno anzitutto uno scopo educativo», spiega Giampaolo Silvestri, segretario generale di AVSI: «Servono a educarci all’apertura al mondo, alla carità, alla condivisione. E a sensibilizzarci su quello che succede nel mondo». Lavoro non scontato, neanche di questi tempi: i fatti li abbiamo davanti agli occhi, «ma dopo un po’ il rischio è l’assuefazione: oggi la Palestina è su tutti i giornali, ma l’Ucraina è scomparsa. Eppure la gente continua a morire anche lì. Come in Siria, di cui non parla più nessuno... Attraverso la campagna, vorremmo suscitare anche una capacità di mettersi in moto».
I progetti da finanziare, quest’anno, sono nove. Scelti in base alle urgenze, ma anche perché «riflettono la nostra identità», dice Silvestri: «Fanno vedere cosa intendiamo per “sviluppo” e perché al centro del nostro lavoro c’è la crescita delle persone. La pace inizia da noi, dalla nostra volontà di aprirci al mondo e all’altro, riconosciuto come un bene».
Ci sono, naturalmente, i fronti più caldi: la Palestina, l’Ucraina, il Libano. Altri posti dove il bisogno ha un volto meno drammatico, ma è altrettanto urgente: l’India e l’Ecuador, il Kenya, l’Uganda e l’Italia che accoglie i migranti. E c’è un Paese come la Tunisia di Habiba, dove la pace è in bilico per tanti dei suoi abitanti. «Siamo uno dei posti da cui partono più migranti verso l’Europa», osserva Gobbi Frattini: «Dei 90mila sbarcati in Italia, più di 10mila arrivano da qui. Il 40% dei giovani sono disoccupati. In tante zone, soprattutto al Sud, oltre a non esserci lavoro, non c’è neanche accoglienza per chi arriva dall’Africa subsahariana».
E l’apporto di AVSI, qui, si allarga a più settori. Le Tende finanzieranno un progetto che aiuterà 100 micro-imprenditori, per «rafforzarne le capacità tecniche e gestionali: l’obiettivo è che facciano da volano e creino un indotto positivo». Poi, una cooperativa di pescatori nata da poco, per trasformare l’invasione del granchio blu (dilaga anche in queste acque) da problema a fonte di ricchezza. E un terzo progetto, proprio per i migranti subsahariani: «Tanti di loro vogliono tornare a casa, ma devono essere supportati, dopo anni di vita difficile in Tunisia. Noi li aiutiamo a formarsi, per potersi reinserire».
Per Gobbi Frattini, è un buon esempio del metodo-AVSI: «Bisogna lavorare su più aspetti, insieme. E partire dai punti positivi, cercando di esaltarli. Non puoi aiutare una persona dandogli solo soldi. Se non punti anche sull’educazione, il risultato lascia il tempo che trova: quando smetti di accompagnarli, si torna al punto di partenza». E se gli chiedi dove vede effetti di questo approccio, parla proprio dei pescatori: «Tanti di loro hanno avuto offerte per portare migranti in Italia. Guadagnerebbero dieci volte tanto. Ma hanno rifiutato, tutti. Segno che hanno ancora speranza».
È qualcosa di cui c’è bisogno anche in Libano, dove, dopo il 7 ottobre, si rischia la catastrofe. «Nei 15 chilometri a nord e sud del confine con Israele arrivano di continuo missili, aerei, colpi di artiglieria», racconta Marco Perini, regional manager AVSI per il Medioriente: «Sparano da entrambe le parti, e l’impatto è devastante: scuole chiuse, tutte le attività interrotte e 26mila persone che hanno lasciato le loro case». È la zona di Marjayoun, dove AVSI segue 1.300 bambini aiutati grazie al Sostegno a distanza di famiglie italiane e non solo. «Abbiamo aperto una hotline di supporto, abbiamo assistenti sociali e psicologi che parlano con i bambini. Stiamo facendo arrivare nelle case dei kit di educazione: quaderni e libri, ma soprattutto ricariche per internet, perché appena possibile faremo lezioni online per recuperare i mesi persi. E prepariamo pacchi di cibo, medicine, buoni per il gasolio». Soprattutto, però, fanno sentire la loro vicinanza. «Per ragioni di sicurezza non possiamo andare lì. Ma sentirli tutti i giorni è importante anche per noi. Marjayoun è un pezzo storico di AVSI. Abbiamo non solo uffici e colleghi da anni, ma amici, persone che non ne possono più di subire questa pressione infinita. È una ragione in più per restare e, come possiamo, testimoniare una vicinanza non solo ideale, ma fisica». È l’unico modo per costruire ponti, dice Marco: «I fatti che dividono li conosciamo già, tutti. Noi costruiamo partendo da quello che unisce. Il desiderio di vivere in pace ce l’hanno sia i bambini di Marjayoun che quelli di Metulla, dall’altra parte. Proviamo a cercarla assieme».
E «assieme» vuol dire tutti, non solo chi è diviso da un confine o chi lavora sul campo per costruire quei ponti. Ma anche noi, qui. Non è un caso che nelle Tende, ma non solo, uno dei fili rossi che legano i progetti di AVSI sia proprio il Sostegno a distanza. Aiuta più di 20mila bambini nel mondo. «Per noi è uno dei percorsi più significativi», dice Silvestri: «Accompagna dei bambini a trovare il loro posto nel mondo, ma fa crescere anche chi li sostiene, perché nasce un rapporto».
Un esempio per tutti? L’Uganda. Paese lontano - grazie a Dio - dalla guerra, ma immerso nella stessa urgenza: generare persone che diano volto a un altro modo di vivere. Anche in condizioni estreme, come gli slums di Kampala.
Emanuela Salandini segue il Sostegno a distanza in Uganda dal 2005 (i bambini aiutati oggi sono 3.700). «Per me rimane il progetto più bello: riguarda l’educazione, che alla fine è il grande tema di AVSI, ed è a lungo termine, non ha i mesi contati. I progetti sono un mezzo, non un fine. Sono un’opportunità per incontrare le persone e fare un percorso con loro. Il Sostegno a distanza ti permette di farlo accompagnando il bambino per anni».
Per lei, dice, è sempre stata «un’occasione per imparare: nell’incontro con le persone, io scopro chi sono. Attraverso i bisogni dei ragazzi - bisogni concreti: la scuola, i vestiti… - viene fuori il bisogno più importante che abbiamo tutti: sentirsi voluti bene». Vedere riconosciuto il proprio volto, appunto. «Lo sviluppo non è che tu gli risolvi il problema del cibo o del lavoro: è nel fatto che uno si accorge di avere un valore. Sei voluto, amato. E quindi puoi rimboccarti le maniche e iniziare a guardare cosa c’è nella realtà, quali sono le risorse che ti permettono di fare qualcosa nella vita. Ma vale pure per me: se non c’è qualcuno che mi guarda con questa stima, come faccio a guardare l’altro così?».
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Ecco, la pace nasce da lì. Dall’accompagnare bambini e ragazzi a scoprire questo valore, e - facendolo - dal riscoprirlo di continuo per sé. Come è successo a Florence, aiutata per anni a tirare su i suoi figli. A maggio le hanno ucciso il marito, Milton. Faceva il custode in un’azienda, lo hanno colpito alla testa durante un assalto. In ospedale non volevano neanche farglielo vedere. Non per pietà: chiedevano soldi. Anche Rose Busingye, la donna che negli slums accompagna da trent’anni migliaia di persone a riscoprire la loro dignità, era infuriata: con gli assassini, con i medici, con l’ingiustizia palese… «Florence ha chiesto solo di pregare e ha detto: “Li perdono. Loro hanno fatto così perché non sanno chi sono. Io lo so. Il nostro corpo è il tempio di Dio. Prego per loro, perché scoprendo quanto è preziosa la loro vita, possano capire che cosa hanno fatto a Milton. Che Dio possa convertire il loro cuore”. Per me la pace, oggi, ha la sua faccia».