Pino Puglisi. Da una gita a Brancaccio, una lezione per tutti
Otto universitari in visita al quartiere di Palermo dove operò il sacerdote ed educatore per incontrare i volontari del centro di accoglienza Padre Nostro. Il loro docente ci racconta cosa ha scopertoMi ricordano Federico, il giovane protagonista di Ciò che inferno non è. Gaetano, Benedetta, Talita, Sophia, Maria Grazia, Michela, Maria Vittoria e Alessandro, come lo studente del romanzo di Alessandro D’Avenia, hanno il cuore pieno di domande, ma vivono anche di paure e pregiudizi. Eppure, dopo aver visitato Brancaccio, il quartiere di Palermo in cui operò il martire siciliano dei nostri tempi, padre Pino Puglisi, dopo aver incontrato i ragazzi del quartiere e i volontari del centro Padre Nostro, gli otto universitari catanesi sono tornati cambiati alle rispettive abitazioni.
Li ho conosciuti quest’anno, assieme agli altri allievi che hanno frequentato il mio corso trimestrale di Storia e tecnica del giornalismo al dipartimento di Scienze umanistiche dell’Ateneo di Catania. E sono rimasto colpito dal fatto che di loro iniziativa abbiano voluto vedere coi propri occhi quello che avevano letto sui libri o in alcune inchieste giornalistiche. Così gli otto studenti, di comune accordo, sfidando pregiudizi personali e familiari, in una giornata estiva che invitava a fare un bel bagno al mare, hanno preso il bus diretto a Palermo (tre ore di andata e altrettante al ritorno) per andare a osservare e poi raccontare. Hanno programmato tutto per bene: l’appuntamento alla casa-museo di padre Puglisi, l’incontro con Maurizio Artale (presidente del centro Padre Nostro) e con i volontari, la visita a Brancaccio.
Li ho voluti incontrare al loro rientro dal viaggio questi giovani pieni di domande che vivono in un mondo individualista e nichilista. E mentre nel bar vicino al dipartimento gustavamo una granita, mi sono fatto raccontare la loro esperienza e cosa avessero visto. Anzitutto mi hanno voluto narrare cosa li avesse colpiti. Per esempio, la povertà e il degrado di Brancaccio. «Abbiamo notato una differenza abissale», mi dicono, «tra la Palermo bene e il quartiere di periferia, sporco e degradato». Talita puntualizza: «Lo sa che un bambino giocava a palla scalzo perché non voleva rovinare le uniche scarpe che possedeva?». «Come se nulla fosse», aggiunge Alessandro «abbiamo incrociato su un motorino un’intera famiglia di quattro persone. Tutti senza casco». Interviene Michela: «Ma non ci siamo fatti scoraggiare dall’ambiente e abbiamo voluto parlare coi ragazzi e coi volontari». Ed è proprio l’incontro con l’umanità dei volontari che ferisce i giovani catanesi. «Mi ha colpito», racconta Gaetano «il dialogo che abbiamo avuto con Maurizio Artale che, come ha voluto precisare all’inizio, era pieno di dubbi. Ma il miracolo che ha operato in lui padre Puglisi è stata proprio “la liberazione dal pregiudizio”, al punto che si è potuto aprire a tutto e a tutti». «Siamo tornati da Palermo», dice Benedetta, «con una consapevolezza nuova di noi stessi, quasi la scoperta di essere dei privilegiati. Ma quel che abbiamo ricevuto dobbiamo metterlo in comune e offrirlo a tutti».
Ascolto questi racconti meravigliato di quello che è accaduto agli otto giornalisti in erba, ma soprattutto colpito dalle domande che emergono dalle loro parole e dai loro sguardi. E mi colpisce il fatto che questi universitari, come tanti altri loro colleghi di corso, abbiano manifestato in diverse occasioni (dalle proteste pro-Palestina in Ateneo alla inaugurazione di un Centro educativo in un quartiere degradato della città) il desiderio di entrare nella realtà, per conoscerla da vicino e maturare un giudizio. Non è un caso che, quando è venuto a Catania l’inviato di Avvenire Nello Scavo, i giovani allievi gli abbiano chiesto un incontro riservato di un paio di ore per farsi raccontare la vita di un giornalista in Ucraina o in Palestina. O che abbiano voluto incontrare di persona e intervistare l’elemosiniere del Papa, il cardinale Konrad Krajewski, in visita nella città etnea per inaugurare una lavanderia sociale. Non sono giovani, eccetto pochissimi, che vengono da un’esperienza di fede, ma mostrano un bisogno evidente di trovare un senso per la loro vita e un sano protagonismo dentro la società.
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L’esperienza di insegnamento, particolarmente quest’anno, mi ha rimesso in gioco, indicandomi una direzione: uscire dai pregiudizi sui giovani (figli o alunni) comuni a tanti adulti, ascoltare le domande che infiammano le loro vite e accompagnarli in questa straordinaria avventura che è tuffarsi nel pozzo della realtà.