La sfida della pace si vince oggi
Non basta aspettare che finisca la guerra. Per costruire relazioni migliori ed evitare l’escalation di violenza occorre fare insieme scelte giuste. Come hanno raccontato al Meeting alcune testimonianze dall'UcrainaLa pace non è cosa da farsi dopo la guerra, ma è una partita che bisogna giocare anche e soprattutto durante la guerra. «Ma chi può capire davvero come deve essere questa vera pace?» si è chiesto Visvaldas Kulbokas, da quasi tre anni nunzio apostolico a Kiev aprendo l’incontro che il Meeting ha dedicato al dramma del popolo ucraino. Lo può capire, ha proseguito monsignor Kulbokas , «solo Dio e solo quegli uomini e donne che ascoltano e capiscono la profondità dell’essere umano, creato a immagine di Dio. Tutto ciò che qualsiasi uomo fa per la pace, diventa già in sé preghiera». L’incontro, organizzato da Riccardo Bonacina, fondatore di Vita non profit, aveva un titolo coraggiosamente incalzante, ricavato da una frase di don Primo Mazzolari: “Se vuoi la pace, prepara la pace”. Un titolo che non relega la pace nell’angolo dei sogni impossibili, per quanto ci si trovi davanti a contesti così chiusi ad ogni spiraglio di soluzione. Ma come ha ribadito monsignor Kulbokas, le persone o i gruppi di persone «che prendono a cuore le sfide, riflettono insieme e cercano le possibilità di affrontarle», sono gli attori che possono assumersi questo compito, a differenza delle istituzioni che invece appaiono inermi davanti all’enormità della situazione.
Sono persone di questo tipo quelle evocate nell’intervento di Oleksandra Matvijčuk, premio Nobel per la pace nel 2022 insieme all’attivista bielorusso Aleś Bialacki, dell’ong russa Memorial, «coraggiose nel lottare per la libertà e per fare insieme le scelte giuste, che ci guidano ad aiutarci gli uni gli altri. Perché solo quando ci aiutiamo reciprocamente, solo quando le persone in Ucraina rischiano le loro vite anche per qualcuno che non hanno mai incontrato prima, è solo così, in questi momenti, che possiamo diventare consapevoli di che cosa significhi essere umani. Le persone in Ucraina vogliono la pace più di chiunque altro, tuttavia la pace non si può avere quando un paese non smette di lottare».
Anche le persone che Angelo Moretti ha rappresentato in quanto portavoce del Movimento europeo di azione nonviolenta, stanno lavorando per costruire una pace giusta. Per undici volte gli esponenti di questa formazione sono andati in Ucraina in questi anni, semplicemente per portare la loro presenza disarmata al fianco di comunità sofferenti. Qual è il senso di questa azione che come Moretti stesso ha ammesso è votata al fallimento? «Il senso è quello di gridare agli europei: “uniamoci in una azione nonviolenta di massa contro l’invasore”. Dobbiamo metterci in cammino se vogliamo evitare l’escalation nucleare e, al tempo stesso, chiedere a voce alta che vi sia una pace giusta per il popolo ucraino. Ci siamo uniti perché condividiamo la consapevolezza che sia venuto il momento di una mobilitazione civica di massa, non soltanto metaforica, delle menti e dei cuori, anche e soprattutto delle gambe. Kiev è a due giorni di auto da Roma: chi impedisce gli europei di raggiungere i luoghi martoriati, per dire con i nostri corpi: “ecco noi siamo qui, aggrediteci tutti”?».
Il cuore e lo spirito di iniziativa delle persone è il primo e più credibile cantiere della pace. Ma ci sono situazioni in cui la realtà sembra sul punto di sopraffarci. Anastasia Zolotova dirige Emmaus, una ong fondata a Kharkiv che si occupa fi accompagnare giovani orfani e persone con disabilità verso la vita adulta. Con lo scoppio della guerra hanno dovuto lasciare l’Ucraina e oggi sono a Milano. «Ci sono momenti in cui il cuore impietrisce. Sembra che nessun esercizio di solidarietà o bontà sia in grado di vincere questo male. Viene da rifiutare anche il pianto, perché non cambia niente», ha detto Anastasia dal palco del Meeting. «Ho sperimentato che sperare è difficile, soprattutto sperare non il primo giorno, ma il secondo, il terzo, cioè nel tempo… La speranza non è ottimismo, non è saltare il male della guerra e andare subito alla pace». Ad aiutare Anastasia a rimuovere quel macigno che le pesava sul cuore sono state le parole ascoltate durante gli esercizi spirituali. «Don Paolo ha raccontato l’episodio di Maria Maddalena dopo la Resurrezione. Era andata al sepolcro, ma non l’aveva trovato. Piangeva. Continuava a piangere. Le sue lacrime un po’ offuscavano la sua vista, per cui non ha sentito gli angeli, non li ha riconosciuti… Le sue lacrime non le facevano vedere il miracolo della resurrezione. Proprio queste sue lacrime hanno hanno spinto Cristo ad apparire per primo a lei e dire: “Maria, non piangere!”. Dobbiamo avere la certezza del fatto che il Signore può scendere in qualsiasi buio e vincerlo».
Anche Lali Liparteliani, tra le fondatrici di Emmaus, ha dovuto lasciare Kharkiv in condizioni drammatiche. Aveva perso il marito prima della guerra e ora doveva emigrare con i suoi due figli. «Avevo 41 anni ma mi sentivo di averne 92. Sapevo di essere donna ma mi sentivo come un uomo che doveva velocemente risolvere tutti i problemi. Ero la figlia minore ma all'improvviso i miei genitori diventavano figli. Ho vissuto una fuga forzata in cerca di sicurezza e in maniera impercettibile ho sperimentato un allontanamento da tutti i punti di orientamento abituale. In quella situazione l'unico aspetto di coscienza di me che è rimasto immutato non è stata la coscienza di genere o di nazionalità, ma la coscienza che io sono di Cristo. L’appartenenza a Cristo è rimasta come una costante invariabile dentro un’esperienza di infinita indefinitezza». Anche questa coscienza è dovuta però passare al vaglio di tutti i dubbi e delle disillusioni vissute. Ha continuato Lali: «Ho avvertito che nonostante tutto l'orrore e la mutabilità della mia realtà c’è uno che ancora mi sostiene, che mi definisce. Dentro l'esperienza di appartenenza a Cristo ho smesso di essere una persona senza casa, straniera, vedova, madre di due bambini, figlia che vive lontana dai genitori».
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La pace così si fa strada in una pienezza di coscienza e di adesione intelligente alla realtà. «Questo è per me l’insegnamento più grande», ha detto monsignor Kulbokas: «non partire soltanto dai principi e dalle teorie "precotte", e neanche soltanto dalle leggi, ma interpretare la realtà, captare i segnali, le opportunità e possibilità. È una sfida molto grande, ma ho fiducia nell’umanità e nella forza dell’amicizia nonché nella sua capacità di affrontare detta sfida. E condivido questa fiducia e convinzione con voi».