Alessandro Vergni

«Quel fuoco che ci portiamo dentro»

Le domande del figlio, un vivace gruppetto di GS, la prima vacanza della comunità di CL di Grosseto: la testimonianza di Alessandro alla Giornata d'inizio anno della Toscana
Alessandro Vergni

Mi è stato chiesto di portare la mia testimonianza sul tema della cultura. Proverò ad offrire alcuni fatti per me significativi, perché mi permettono di approfondire la coscienza di chi sono io, dell’incontro che ho fatto e di quale sia l’origine di una presenza culturale viva.

Mio figlio Giovanni, che fa l’università e il Clu a Pisa, un giorno mi ha detto: «È un po’ di tempo che mi chiedo: come fanno i ragazzi in biblioteca a capire che l’unità che c’è tra me e i miei amici è diversa dall’unità che c’è tra quelli del tavolo accanto al nostro?». La domanda mi ha spiazzato, perché è la stessa che mi porto dentro da tanto tempo. Mi sono accorto che quella domanda conteneva due elementi costitutivi: il primo è una questione identitaria, perché mi stava comunicando che il suo essere coincide con l’appartenere all’unità con quei tre o quattro amici del Clu; il secondo è una questione culturale, perché l’unità, se è vera, plasma la realtà e i rapporti nei quali istante dopo istante ci imbattiamo.

Poi c’è stata l’assemblea dei Centri Culturali dove Davide Prosperi ha richiamato il fatto che la cultura nasce dall’unità e dal giudizio che matura in quella unità, non dall’estro isolato di qualche genialoide – come sanno bene gli artisti, l’arte nasce sempre da un dialogo con la tradizione e con la comunità in cui si vive –, il che ci permette di affrontare senza paura le sfide del nostro tempo. Che questo sia vero me ne accorgo dalle cose che vi racconto ora.

Don Giussani ci ha insegnato che anche le vacanze possono essere espressione culturale di come uno concepisce il tempo libero, manifestazione di cosa gli interessa di più. Quest’anno, per la prima volta, la comunità di CL di Grosseto ha deciso di fare la sua vacanza. Ho proposto la cosa a due amici, poi i due sono diventati quattro e mi ha sorpreso come abbiano accettato con interesse la cosa. Ma man mano che la vacanza procedeva – è stato chiaro nei giorni trascorsi insieme a Camaldoli – mi sono accorto che quel seme iniziale era diventato corresponsabilità di tutti. Ciascuno era diventato responsabile di qualcosa: chi dei canti, chi dei rapporti con l’albergo, chi dei giochi, chi delle passeggiate, chi degli incontri. Questo ha generato un modo di stare insieme molto bello, segno di unità generata dal nostro essere stati messi insieme da Cristo. Tant’è che chi è venuto per la prima volta se ne è accorto e ci ha chiesto di continuare questa amicizia con noi (proponendo di fare anche le vacanze invernali - ci stiamo lavorando).

A casa nostra, a Grosseto, il giovedì da due anni c’è un gran viavai. Un gruppetto di ragazzi delle superiori, a partire da una richiesta dei nostri figli, viene per vedersi e lavorare insieme sul testo di Scuola di comunità. Non dico ancora GS, perlomeno non lo dico io. La cosa che più mi ha sorpreso è che questi ragazzi, mese dopo mese, stanno maturando un modo nuovo di passare un pomeriggio della loro settimana – e vorrebbero fare lo stesso anche la domenica – a casa di due che non sono proprio della loro fascia d’età, eppure non c’è modo di saltare una volta, ché tanto loro si presentano lo stesso sotto casa. Arrivano alle 16 e se ne vanno dopo le 20. Cucinano, facciamo Scuola di comunità, cantiamo, mangiamo quello che hanno cucinato.

Quest’anno, alcuni di loro sono andati da mia moglie Sara, loro docente, e le hanno detto: «Professoressa, noi abbiamo iniziato a fare GS in seconda, ora siamo in quarta; perché quelli di seconda non vengono? Li dobbiamo invitare». E sono andati a invitarli all’intervallo. Quando il giovedì successivo si sono presentati a casa nostra sette studenti nuovi, Sara ha chiesto al “veterano” del gruppo di spiegare loro perché ci ritroviamo. Lui ha semplicemente detto: «Noi ci troviamo qui perché ci facciamo compagnia nelle domande che tutti abbiamo e che nessuno ha il coraggio di fare». A 16 anni, nel 2024.

Questo è un fatto culturale, cioè un modo nuovo di concepire sé e di diventare una presenza incidente nella realtà. E, infatti, basta vedere il nome che si sono dati sul gruppo Whatsapp come segno di una coscienza che cresce: da un generico “quelli del giovedì” sono passati a “quelli del giovedì - GS”. Anche noi eravamo “quelli del Portico di Salomone” e oggi ci diciamo i cristiani. Duemila anni di storia ed è la stessa cosa. Identità e cultura.

Ho usato questi due esempi perché rendono chiaro che la possibilità che abbiamo di contribuire e di incidere nella cultura è data da quella parola, insieme, che non ha un valore sociologico ma che è comunione, cioè unità fondata in Cristo.

Penso anche alla grande sfida epocale nella quale siamo immersi, come quella dell’Intelligenza Artificiale. Stiamo costruendo un Moloch sulla base di un’istanza autentica – cioè il bisogno dell’uomo di conoscere –, solo che stiamo delegando ad una macchina quasi perfetta di mediare tra conoscenza e rapporto con la realtà. Una macchina che, per quante informazioni possa elaborare, non ha a disposizione la propria esperienza. La grande domanda, secondo me, non è cosa sia la tecnologia, ma cosa sia l’uomo. Mentre quello che scopro, quello che testimoniano le persone di cui ho parlato, è che l’unica intelligenza in grado di conoscere è l’intelligenza affettiva, quella cioè che nasce e matura dentro un avvenimento. Così cresce anche la consapevolezza di quello che si dicono il padre e il figlio nel romanzo La strada di Cormac McCarthy: «Noi portiamo il fuoco». E noi portiamo il fuoco perché è il fuoco che ha deciso di farsi portare da noi, la qual cosa ci rende liberi nell’incontro con il mondo.

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E infatti Prosperi, in quell’incontro con i Centri Culturali, ha sottolineato anche un altro aspetto: che porsi, anche culturalmente, può implicare l’opporsi di qualcun altro.

Ultimamente sto lavorando sul tema del «cambiamento d’epoca» di cui parla il Papa e sulla sua origine, cioè la mutazione antropologica. Mi capita di discuterne con gente che fa parte del mondo “culturale”, amici, professionisti, e più volte mi è stato detto: «Molto interessante; attento, però, che non si capisca troppo che hai una formazione cattolica, perché in questo ambiente non andrai molto lontano. Non potrai scrivere su certi giornali, non potrai pubblicare con certe case editrici… Ti possono perdonare tutto, ma non di essere cattolico». Recentemente sono stato invitato a presentare un mio libro in un salotto buono e chi mi doveva intervistare mi ha messo in guardia da questo. Io di rimando gli ho chiesto di farmi la prima domanda proprio sulla mia appartenenza al cristianesimo. Non per eroismo, ma perché non posso nascondere ciò che sono. Come disse Bernadette Soubirous a chi la interrogava sulle apparizioni di Lourdes: «La Signora non mi ha incaricato di farvelo credere, mi ha incaricato di dirvelo».