L’incontro “Volti di pace” a Roma (Foto Romano Siciliani)

Quando la pace non è un’utopia

Portare la speranza dove impera la violenza. Nell’incontro promosso dal Centro internazionale di CL a Roma le testimonianze del cardinale Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, di monsignor Paolo Pezzi e di Hussam Abu Sini
Angelo Picariello

Fare la pace in tempo di guerra. Non è utopia, è il racconto di un “disarmante” realismo cristiano nei luoghi delle guerre dimenticate, o nei devastanti conflitti esplosi in Ucraina e Medio Oriente che sono sotto i riflettori. Sono “Volti di pace”, che hanno portato le loro “testimonianze di dialogo e riconciliazione” all’incontro promosso a Roma dal Centro internazionale di Comunione e Liberazione. Quella del cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, che ha portato alla luce una luminosa storia di speranza cristiana dentro gli orrori dell’infinita guerra civile della Repubblica centrafricana. Quella dell’arcivescovo della Madre di Dio a Mosca, monsignor Paolo Pezzi. E quella di Hussam Abu Sini, responsabile di CL in Terra Santa, intervenuto in collegamento.

Racconti diversi, con un tratto in comune: non si tratta di eroici tentativi di far tacere le armi, che come tali potrebbero dirsi tutti falliti, ma esperienze di una pace che si afferma nei cuori delle persone e nella loro vita, un segno concreto di speranza dentro guerre di cui non si intravede la fine.

«Vi invito ad accompagnarmi nella profezia per la pace - Cristo, Signore della pace! Il mondo sempre più violento e guerriero mi spaventa davvero, lo dico davvero: mi spaventa», questo l’appello accorato di Papa Francesco risuonato in Piazza San Pietro il 15 ottobre 1922 all’Udienza concessa a Cl per il centenario di don Giussani, ricordato da don Andrea D’Auria, direttore del Centro internazionale di CL, nell’introduzione.

Il cardinale Nzapalainga è qui per «condividere l’esperienza del nostro impegno nel difficile cammino di riconciliazione e di pace nella Repubblica Centrafricana». Una pace che non ci diamo da noi, «ma riceviamo da Gesù Cristo, che ha dato la sua vita per riconciliare popoli, razze e nazioni». Emerge dalle sue parole, chiara, la messa in conto della possibilità di dover dare la vita, a imitazione di Cristo, per non lasciare soli i fratelli più piccoli nella tragedia che vivono sulla loro pelle: «Quando i ribelli hanno preso il controllo del Paese nel 2013, le violazioni dei diritti umani erano all’ordine del giorno. Come vescovo e come pastore non ho mai smesso di denunciare gli abusi e i crimini commessi contro la popolazione civile, abbandonata al suo destino. Un giorno – racconta – un gruppo di uomini d’affari rumeni è venuto da me per conto delle autorità e mi ha offerto 80mila euro. Ho rifiutato l’offerta, altrimenti non avrei più continuato a difendere i deboli e gli oppressi, e avrebbero di fatto comprato il mio silenzio».

Non è uno sforzo impari, prosegue: «Ho sperimentato personalmente la mano potente e attiva di Dio durante questi tempi difficili, ma posso dire che Dio è vittorioso e l’ho visto innumerevoli volte durante questo periodo buio. Ho attraversato Bangui in ogni direzione senza essere fermato. Quando sentivo che i ribelli stavano saccheggiando da qualche parte, mi precipitavo e a volte arrivavo in tempo per scacciarli prima che avessero preso tutto. Correvo dietro ai ribelli armati a mani nude, ma spinto e guidato dalla forza della fede». Nel racconto di Nzapalainga c’è anche la condivisione con altre fedi, con l’imam della comunità islamica centrafricana e con il pastore delle chiese protestanti, «abbiamo rischiato insieme e siamo pronti a morire insieme per difendere la giusta causa, per essere la voce dei senza voce, la maggioranza silenziosa terrorizzata dall’orrore della violenza imperante».



Nel racconto di Hussam, da Haifa, l’orrore della guerra, con l’assalto di Hamas, irrompe in diretta, il 7 ottobre durante una tre giorni di vacanza di CL di Terra Santa ad Abu Ghosh, paesino a nord di Gerusalemme. Con la complicazione che ognuno doveva poi tornare a casa, e delle ragazze palestinesi non sapevano come fare essendo stato chiuso il check-point fra Gerusalemme e Betlemme. «In quello smarrimento ci siamo chiesti da dove ripartire, e ci sono tornate in mente le parole del cardinale Pizzaballa, “dove c’è il disordine solo Dio può rimettere ordine”. Siamo così ripartiti dalla preghiera, dalla scuola di comunità. Se penso all’ordine mi viene in mente come siamo stati ordinati, uniti, nel rifugiarci nel bunker quando un razzo è sibilato poco distante da dove eravamo. Si dice spesso che vogliamo restare in questa terra perché c’eravamo da prima. No, noi vogliamo restare qui per annunciare a tutti un amore che ci ha vinto».

Anche quando sembra che a vincere sia la morte. Hussam fa l’oncologo e ha vissuto come un fallimento non aver salvato la vita a un caro amico ebreo, pur avendole tentate tutte. «Ma lui, quando lo abbiamo ricoverato in reparto avendo capito che era alla fine mi ha ringraziato per quel che ho fatto. “Cosa ho fatto? Nulla!”, pensavo invece io, visto che non era servito a niente. Mentre lui, come ultimo gesto, ha voluto far arrivare un regalo ai miei figli. Ho capito allora le parole di don Giussani, quando diceva che uno riesce ad amare l’universo solo se ama Dio. Ho capito che io, anche se la guerra continua, la pace la porto facendo l’oncologo».



Una pace che è anche conveniente, razionale – altro che utopia –, nelle parole dell’arcivescovo Pezzi. Da un lato il «messianismo» che ha preso la storia dei popoli, «in particolare i popoli slavi», dall’imperatore romano con il suo “Se vuoi la pace prepara la guerra” fino a Il grande inquisitore di Dostoevskij». L’ideologia, insomma, dentro la quale però si può aprire uno squarcio, «un attimo di sincerità, come fu per Lenin quando nel portare a tutti la luce artificiale si ritrovò ad ammettere che non poteva portare la felicità». Il messianismo «che ha sempre bisogno di un nemico, la paura del diverso da sé di cui parla Dostoevskij (“li incolperemo dell’odio che hanno verso di noi”)». E dall’altro lato c’è Gesù, «che ha adottato un modo completamente “umano”, che solo il “divino”, però, profondo conoscitore dell’umano, poteva osare: la fiducia, l’amicizia, la comunione di “fratelli”».

Per Pezzi «invece di discettare su modelli astratti – monarchia, dittatura – abbiamo questo esempio da imitare: la fraternità, fondamento e scopo della pace, che si fonda sulla fiducia nell’azione dello Spirito, sulla fiducia reciproca fra gli uomini, e su una fiducia a priori nell’altro che incontriamo; questa posizione è la nostra risposta che rispetta l’iniziativa di Dio, il suo metodo». Una «fiducia speranzosa investe sull’altro, perché l’altro è un bene sempre, altamente prezioso». Come è avvenuto anche per Giuda, «al quale Gesù ha affidato la cassa degli apostoli», anche se poi ha tradito. Ma è stato perdonato, ricompreso nel “perdona loro perché non sanno quello che fanno”» della Croce.

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E la pace si fonda su due parole, perdono e gratuità. «Con il miracolo del perdono nel confessionale lo sconfitto diventa vincitore», dice Pezzi. Che si dice «impressionato» da alcune opere di gratuità che ha potuto vedere nel suo viaggio in Siria, come il monastero delle suore trappiste di Hazer, edificato per portare la pace mentre infuriava la guerra: «La gratuità si mostra capace di generare rapporti nuovi e una nuova umanità, come anche gli hospice in Russia. Proprio perché poggia sull’amicizia e sulla pace».